The owl – il gufo

Come bestemmie fluttuanti

nella valle del mondo,

i santi piangono

nei bar senza più sigarette,

e le strade dell’oppio e dell’iniquità

si affollano ora di corpi uguali

e cartelloni pubblicitari,

di topi morti che ballano

la danza della morte

e della verità.

Guaisce il calamaro errante,

il mare di un tempo

è sepolto nella pioggia battente,

la sua casa nell’abisso è persa nella luna e nell’oblio,

l’industria batte il suo pesante martello sulla sabbia bagnata,

avvizziscono i pesci,

al calamaro non rimane altro che rum tumefatto.

Marinai, pederasti, anime perdute nello spazio,

manichini e poeti e giocatori d’azzardo,

drogati e puttane,

nel mondo non si sente più il gemito,

l’affabile puzzo, disarmante onestà dei senza giardino.

La casa è vuota,

il deserto come tappeto rosso

vi ha posto il silenzio,

l’auto di lusso posteggia in garage

e non trova più bambini modellati e grassi,

ma solo esili piume di pazzo pavone,

l’eco secco del televisore che brucia,

finalmente,

i capelli della moglie appesi a muro,

lacrime che a fatica fioriscono

sul volto di pietra del padre

senza più famiglia.

L’auto di lusso riparte sola,

gonfia e piena di soldi,

di famiglie c’è un’asta lungo la strada,

lui l’ha vista prima,

tornando a casa,

e ora vi torna.

300 dollari per i due bambocci appiccicosi e risibili,

500 per l’amata donna ed il suo purè di patate

al rientro dal lavoro.

Il chitarrista pazzo che ruba nei bar,

Allen Ginsberg ed il peyote del fuoco,

Neal Cassady and the magic bus,

il vortice che non si arresta più,

l’urlo che cade dal ventesimo piano

di un palazzo pieno di spifferi e fetidi pompini,

tubature piene di sperma secco.

Il dio della guerra ha cambiato spoglie,

ma corrobora sempre il cuore dell’uomo

che ulula alla luna che non c’è,

a se lo attira come ferro lucente,

il bisogno di carcasse che marciscono lungo il viale

non lo lascerà mai,

orrida visione del vento che fa lo stesso giro

dall’alba dell’universo rosso di sangue.

L’infimo segreto

e

l’ebbrezza degli stolti,

non rimane altro

nelle fondamenta della terra,

la pietra ha lasciato spazio alla plastica,

che nulla riflette

e che nulla abbaglia.

Lasciate che brucino le candele,

i fuochi, i fiori ed i campi,

gli alberi vecchi,

bruciate e bruciate sempre,

non ci porteranno via il fuoco,

il fuoco terrà in piedi questo posto,

il fuoco brucia la carne,

il fuoco purifica il contorto gioco,

l’inutile epitaffio,

la maschera di cera sui pallidi volti,

oh fuoco,

brucia,

brucia con me,

il rogo sarà freddo per voi uomini topi,

gelido inverno che durerà per sempre,

per sempre temerete le fiamme che non verranno mai,

eterna paura della morte

che infine vi raccoglierà per pietà

e riderà di voi,

niente più espiazione,

niente più

prete ho peccato

sei assolto figliolo,

ah, orride larve,

per poco non avete convinto anche me,

ora piangi vecchio uomo,

il gufo grigio è venuto a prenderti,

niente inferno niente paradiso,

solo donne che bramano vendetta

brandendo cazzi di vetro

che ti squarteranno la gola

ed il buco del culo.

La vedova nera ricorda sempre cosa le è stato fatto,

la vedova nera mai dimentica

del cielo che si è oscurato all’improvviso,

ella mal sopporta il tuo abominevole puzzo,

lavati per bene

prima di essere ucciso.

 

È come un posto che non c’è più,

sepolto dal tempo o dal cemento,

l’uomo dei gelati invade le scogliere umide del mondo,

sul molo brandisce il suo carretto in cerca di quattrini

e bambini sudati e vecchi accaldati e donne appena sedotte e uomini topi e spacciatori e pittori,

la fredda scogliera

inospitale

sprofonda nell’abisso.

La verde aurora raccoglie i resti,

e l’uomo invecchia nell’angolo buio,

vecchia lanterna sotto il cielo che si abbassa sinistro nella volta del tempo,

acido delitto che si consuma sulla costa del mare,

sul molo degli ubriaconi e dei gelatai,

delle passeggiate al lume delle mille lune,

e il pollo fritto NEL Kentucky,

dove le volpi sono disperse

e le persone sporche di formaggio invadono il cielo azzurro.

 

O vile epitaffio che piomba giù dal cielo,

sta lontano dal mio tumulo di pietra,

conduci il tuo fetido canto presso luoghi più stolti

e ghermisci là le tue anime oscure,

non voglio più parole,

ma un gufo grigio che vegli sul mio pezzo di terra

nella notte buia.

 

La vecchia casa è infestata di spettri e poeti,

l’ultimo rifugio delle anime invisibili

perdute nel fumo e nel whiskey del bosco di ferro.

Vecchia dimora degli uccelli smarriti,

degli uccelli pazzi vomitati via dal mostro di velluto

che predica solenne il canto dei porci,

delle signore imbellettate,

degli aspiranti suicidi,

dei bambocci che invadono le scuole

ed imparano cose che butterei nel cesso,

degli agnelli che hanno scelto il dio sbagliato,

quel dio che per loro ha pensato alla pasqua delle preghiere e del sangue,

butterei una bomba sulle cattedrali e sui gonfi banchetti.

Strisciano i serpenti colorati

verso la casa iniqua che giace sola in mezzo al mare,

strisciano lesti verso l’altare dei sogni

perso nel manicomio dei pazzi.

Ho visto quella casa, la casa antica del guru e del venditore di oppio,

ma non ricordo più se era sogno od oscura veglia,

poco importa, a quella porta non ho mai bussato,

la casa svanisce sempre nella nebbia,

e davanti a me si apre un paesaggio ostile,

pozze di letame e fabbriche di bottoni,

branchi di cani affamati nella notte,

bettole fetide gremite di uomini e donne

che fanno a pugni ed all’amore,

palazzi giganteschi che irrompono nelle nuvole

come spade prossime all’erezione.

Da lontano vedo il tetto che crolla sotto il peso

dei piccioni elettrici della terra di Tommy Hall,

l’ultimo atto della vecchia casa

prima del severo addio,

faccio cenno con la mano, porgo i cosiddetti omaggi,

la casa mi sorride e già svanisce nel melmoso stagno dell’universo.

 

È un giorno piovoso,

e cade il sole sul tetto di lamiera,

precipita giù nell’umida tenebra,

e tira con se i lunghi cappelli ed il rifugio atomico,

il tedioso ombrello di plastica e la tettoia di legno che marciva da tempo,

la vile preghiera ai santi grassi che banchettano col maiale,

a dio, che scommette ai dadi le sorti del nostro tempo,

e ubriaco fradicio dopo il millesimo rum con ghiaccio

oscilla pericolosamente sulla casa delle bambole,

mietendo vittime da qualche parte nell’Asia del sud,

e seminando guerre nel continente nero che sfuma nel grigio e poi nel rosso e nel delitto.

Cadono bombe sul tetto del mondo, e rami infuocati,

il dottor Faust si aggira nella coltre di nebbia,

è il raduno delle streghe

è la notte dei lunghi cappelli

delle scope volanti

del riso fausto e stridulo.

Sono preda di un singhiozzo malefico

ed è come la marcia dell’L.S.D,

inevitabilmente mi chiedo se mai finirà,

visione estatica del sole ubriaco di mezzanotte,

chiudi la porta quando te ne vai.

 

Cosa ti hanno fatto vecchio Bruegel,

cos’hai visto nel baratro Belgio,

la peste portata dai topi

le danze macabre

creature strane che cadono dal cielo fiammingo,

vecchi storpi e grandi bocche e pesci gonfi e cavalieri che si trascinano e mostri alati e angeli a caccia di anime dannate,

hai visto l’inferno vecchio Bruegel, nevvero?

Cos’altro può essere se non la dimora del diavolo e della follia eterna,

oh, ma quello non è l’inferno mio caro ragazzo,

è la vita che ho dipinto sulla tela bianca,

non lo vedi anche tu,

siamo dispersi, senza guida, rifugiati nel nostro stesso mondo,

abbiamo paura, per la paura abbiamo lasciato che il mondo venisse letteralmente distrutto, boom!

Ho visto questo guardando fuori della mia finestra fiamminga,

e lo vedo ancora dalla mie fiandre nel cielo,

vedo anche che ti trastulli spesso…

 

 

Siamo dunque in attesa di una guida,

siamo in attesa del re ramingo,

del barbone del nostro tempo che ci salverà tutti.

Nel frattempo ci diamo battaglia sul campo,

il pozzo nero si sta svuotando,

le sigarette sono salite a 30 dollari a pacchetto,

non posso neanche più fumare in strada,

è vietato,

ma le sudicie vetture ancora sfilano come vermi tossici,

ora serve un biglietto per visitare la foresta,

e non puoi fumare neanche lì,

e non puoi bere,

e non puoi fare all’amore,

niente più fiamme

niente più oscurità

il bosco sacro è diventato un luna park al neon.

Pessima visione, distopia del beone randagio,

amaro sogno del poeta,

lo sturm und drang si rivolta nella tomba,

il vecchio mondo ha smarrito i suoi lupi e i suoi folletti,

che fine ha fatto Gandalf il grigio, corvotempesta.

Vedo ancora tenerezza sul volto curvo degli uomini,

la vedo di rado,

ma è così bella,

come l’alba che schizza via dal mare,

come la sonata del compositore pazzo,

come te Rebel Yell, che mi fai girar la testa,

una stella, sola e disperata nel cielo nero,

l’ultimo albero della terra desolata,

tutto intorno vedo solo malvagi funghi che crescono sulla faccia gialla,

vedo il fungo marcio dello stupratore di ragazze e del soldato cieco e del gesuita e del cacciatore e

del mangiatore di carogne e dell’assassino e del diavolo bianco e del porco incestuoso, vedo il fungo marcio fiorire come fosse un fottuto fiore, ed ecco che la dolce smorfia si rifugia nei fitti boschi del

malefico ghigno, si dirige ai porti grigi, si dissolverà come l’aeroplano Jefferson nel cielo di Frisco.

Cosa rimane di noi uomini topi

se non un blues di fuoco,

cosa rimane se non sinfonia di musica o

lago di rum o

pipa delle nevi o

fregna d’oro, nel folto del bosco femmineo,

cosa rimane se non l’amaro sollazzo nel decadente inferno,

allora pasteggeremo colle nostre stesse feci

allora ci abbevereremo colle nostre orine,

giacché non rimarrà altro nella macelleria del mondo,

l’avaro mondo che si è preso tutto.

Non è neanche l’alba e già mi prude il culo,

oh dio, ma è davvero così difficile spartire il piatto di fagioli secchi?

Oh vecchio Bruegel non osare avvicinarti ancora, sta lontano, so già quello che mi diresti, lascia

perdere, tutto questo mi da il voltastomaco, no, non voglio capire, non voglio più star lì a guardare mentre si sputano addosso, vado giù nella tana, vado in cerca del bianconiglio!

Scappo via e calpesto le foglie d’erba del Long Island,

calpesto lo scarafaggio di Praga,

calpesto il mezzuomo sul Brandivino,

calpesto il clown a Bonn,

calpesto i nidi di ragno della Riviera,

vado avanti spavaldo,

vado in cerca del bianconiglio!

Mi perdo nelle folli montagne nel sud di ghiaccio,

e temo il disperato freddo di San Pietroburgo

giacché ho smarrito il mio cappotto,

sono bandito in Moloch e sono bandito nell’Eurasia,

il troll della notte fiuta le mie tracce e già pregusta il pasto facile e succulento,

vado avanti sereno,

vado in cerca del bianconiglio!

Bevo alla salute del morto riconoscente,

bevo alla salute del gigante gentile e dell’alta marea,

spacco i bicchieri in feroci brindisi

ed intono il canto del diavolo,

vomito sul bancone di legno,

vado avanti ubriaco,

vado in cerca del bianconiglio!

Lungo la strada mi fermo un momento alla tana del brucaliffo,

fumeria dell’iniquità nei bassifondi del mondo.

Funghi giganti mi ombreggiano il sentiero dal sole freddo dell’autunno psichedelico,

bianche spirali di fumo mi avvolgono come caldo mantello,

cauto e bramoso d’oppio mi accingo al singolare bruco,

ho 20 dollari in tasca,

dovrebbero bastare…

…per la danza del blues cosmico.

Fumo una pipa lì sul posto e vado via confuso e perso nelle terre selvagge dell’oppio,

assoldo una volpe guercia perché mi scovi quel dannato coniglio,

ma la volpe si stanca presto, è vecchia, non ha più l’età per questo genere di cose,

vive di stenti, e frequenti viaggi dal brucaliffo,

presto prenderà la via di casa, chissà dove.

Mi ritrovo solo e spaventato nel cul de sac onirico,

del bianconiglio e del suo panciotto nessuna traccia,

a mani vuote faccio ritorno a casa,

la nube tossica del disinganno aleggia sulla mia testa,

come nero avvoltoio sulla carcassa dei sogni.

 

La tela del ragno rosso si avviluppa sinuosa

sull’esile corpo della chimera

lasciata a marcire nella cantina degli uomini topi,

infestata da fantasmi decadenti e vecchie riviste e scatole ammuffite.

 

Non c’è più miraggio nel deserto di sabbia dorata,

non c’è più odissea lungo la strada infinita,

il computer di bordo mi indica la via

eppure mi perdo facilmente in quel crogiolo di cartelli stradali,

come posso scoprire me stesso

se non smarrendomi nell’intruglio del mondo,

come posso mettermi alla prova

se la strada giusta mi è già indicata,

che fine ha fatto il vagabondo,

dove sei scappato vecchio re,

i signori della borsa hanno previsto tutto

e vi hanno puntato un mucchio di soldi,

e io uomo topo sono stato a guardare,

risucchiato come grima larva nel vortice vizioso,

e il gufo grigio veglia ora sul castello che ci crolla addosso,

sorride amaramente al tragico destino che ci siamo cuciti al petto,

alle nazioni gloriose che si sbriciolano come pane secco,

alla Patagonia ed al monte Olimpo che bruciavano mentre mi versavo da bere,

il gufo grigio ammicca dolorosamente,

giacché il futuro si mostrava su tutti i canali mentre addentavo con ardore una cipolla ruvida,

non lo avremmo ascoltato, no!

 

Cosa rimane dell’estate dell’amore se non fiori di sangue e sogno stuprato,

e vecchi drogati sul ciglio della strada coi lunghi capelli bianchi che penzolano già dall’altra parte,

le visioni di Chet Helms spirano anzitempo nella nebbia di Altamont,

i Merry Pranksters viaggiano ora come pagani allucinogeni e senza guida, e vendono marijuana ai turisti, e come fantasmi si dileguano nella notte,

lo scienziato pazzo non è più l’uomo più pericoloso di America,

il nemico tanto odiato e temuto, ed infine obliato,

persino peggio dei comunisti al di là del mare di Bering.

Sul ciglio delle candide nuvole imbevute di acido

egli vagabonda come serpente elettrico nella notte riflessa,

al lume di perenni candele

egli sfoglia ancora le pagine dei morti,

sulla pasta italiana egli grattugia L.S.D. come formaggio marcio,

sulla fetta di pane del deserto egli spalma burro psichedelico,

seduto all’osteria di frontiera

egli osserva il vorticoso alternarsi delle stagioni.

 

Vedo schiume di sangue

e sirene alla deriva,

il vento tra gli alberi

risveglia il coboldo dai baffi di quercia,

splendenti meduse al largo

annegano dentro bocche di balena,

tutto tace nella città vecchia,

cani rabbiosi addentano arditi beoni persi nella nebbia,

precipita, il mondo,

nel grasso culo di dio,

pallido universo

di santi trotterellanti

e salamandre di cacca.

Ho sentito dire che il bardo di Avon

a stento leggeva,

ho sentito di acido folk per stelle che cadono

e lentamente svaniscono..

 

Odo il verso secco del gufo grigio nella notte,

che sia funesto presagio di sventura,

o malaugurio,

o candido suono del bosco,

che tu sia uomo o topo,

scappa via,

nessuno sfugge al verso del gufo,

che la notte sia illune o no,

che sia di tempesta e impeto o di placida attesa,

che sia fredda o arsa da luna corrotta,

rincasa presto uomo topo,

serra la tana sotto terra,

difendi a spada tratta

l’ultimo cantuccio che ti resta,

il gufo grigio è a caccia di carne e terrifici sogni.

 

Odo echi agghiaccianti risuonare per la valle profumata,

i limoni splendenti diventano marci,

i cipressi sono in preda al panico,

i conigli si avventano sulle volpi stupefatte,

l’artiglio del demone falcia l’erba del contadino,

le api cadono a migliaia dentro fauci di candido fiore,

uno di questi giorni verrò a tagliarti in piccoli pezzi!

casse giganti sputano fuoco sulla valle,

agghiaccianti echi distruggono tutto…

 

Misterioso ululato di pazzo blues,

sguardo torvo di allocco delle nevi,

irrequiete conifere della panslavia ribellatevi allo scoiattolo divoratore,

il passo dei soldati in marcia

è pesante e senza cambi di ritmo,

pianoforte decaduto con un solo tasto di pregiato avorio,

metto su un disco

nel giradischi infernale,

non ci sono fortezze inviolabili,

ma solo castelli di carta e fiumi di cadaveri,

ho sentito il vecchio uomo raccontare la sua storia e darsi in pasto ai porci.

Dove trovo la strada giusta

in mezzo a queste pianure di Gorgoroth,

di chi fidarmi allora

in questo esilarante spettacolo di avvoltoi

ed abbondanti carogne.

Sul mio cammino…

due mezzuomini vestiti di stracci,

appaiono disperati e spossati dalla fatica,

chissà cosa li conduce in quella terra straniera,

passo oltre,

salutando con un cenno.

Il grande occhio rosso scruta il mio passaggio,

non c’è fuga, non c’è riparo,

dal grande fratello cosmico!

Questa commedia umana inguardabile e feroce,

questo mondo assassino che sprizza poesia da tutte le parti,

la vedo  nella tenerezza degli amanti e nel delirio dei bambini,

nell’amore di una madre e nell’innocenza dell’orso mangiatore di uomini,

dove cerco la fottuta poesia se non qui,

se non faccio di questo il mio canto,

non rimane che il ferale verso di Dylan Thomas,

se non getto lì ciò che resta del mio amore,

non rimane che sguazzare nell’oceano dell’odio,

l’odio che senza fine che ci accompagna dai primi passi su questa bella terra,

niente di simile potrai mai trovare nei più malefici sogni,

poeti e razziatori si contendono il mondo,

dolcezza e terrore si contendono il canto pazzo di Anna Meek,

è arrivato il cannibalismo..

la poesia arranca nel fango delle grandi città,

maleodorante regno di gatti su tetti fluorescenti e automobilisti pazzi e donne che fuggono la sera,

statue derelitte a vacui vessilli senza onore,

ho visto quei posti e sono rabbrividito,

quando il tempo si è fermato a Monrovia, e si è svenduto per un cesto di diamanti,

quando Machu Picchu si è persa nella nebbia delle montagne,

non ci sono più donne a Juarez, e non ci sono neanche più uomini,

sono le città dei morti, e i morti,

no, non possono amare i morti,

del loro amore non rimane che struggente epitaffio smarrito nel tempo,

mellifluo bisbiglio alle orecchie dei vivi,

disperato urlo al nostro cuore vivo che si pavoneggia,

lettera d’addio scolpita sulla roccia fredda,

è il torbido lamento dei morti che mi ammonisce, con aria grave, a dare tutto l’amore di cui sono

capace, perché poi, steso ad essiccare come una foglia di tabacco su ferale letto, non avrei avuto

altro a cui aggrapparmi, se non l’amore, universale e senza riserve né ricompense, amore incondizionato verso tutti, i buoni e i cattivi.

Allora amerò di più e amerò tutti, quelli che già amo e quelli che odio e quelli che non vedo,

amerò il tifoso di calcio pazzo e il droghiere maledetto, amerò l’uomo curvo che va al bordello e il venditore di pesci rossi, amerò il prete che bofonchia e il capitalista senza scrupoli, amerò il domatore di leoni e i marinai che si trastullano l’uccello nelle notti senza fine del mare, amerò i cattivi scrittori e gli impiegati scortesi, amerò i ladri di bestiame e i governatori grassi da far schifo, amerò i suonatori di clacson e i cacciatori di frodo, amerò i violentatori di donne e chi non rispetta

la fila al registratore di cassa, amerò il venditore di pellicce e le guardie senza cervello e con una pistola, amerò il miserabile della strada che non balla neanche più e lo scienziato al soldo dei pazzi e dei guerrafondai, amerò i pazzi e i guerrafondai, amerò le folle e i visitatori di chiese e moschee e sinagoghe e templi sperduti nella foresta, amerò i petrolieri e gli illuministi, amerò gli scommettitori incalliti e i puttanieri, amerò i passanti invisibili e i rapitori di bambini, amerò i bulli e i razzisti, amerò i burocrati senz’anima e i mangiatori di animali, amerò i demoni e gli incantatori, amerò i santi e le masse inebetite dalle celebrità, amerò i parolieri beffardi e le sfilate di moda, amerò i dittatori e le commedie da quattro soldi, amerò il marito violento e la moglie che non dice nulla, amerò le signore imbellettate e i profanatori di tombe, amerò gli assassini e gli avvoltoi, amerò i moralisti e i bugiardi, amerò i colonialisti e i cercatori d’oro, amerò gli avvocati che si ergono a difesa dei mostri e i soldati ubriachi, amerò i capitani d’industria e i campeggianti che lasciano la spazzatura nel folto del bosco, amerò i salutisti e i negrieri, amerò i proprietari terrieri e gli schiavi che non insorgono, amerò i mafiosi e gli ignoranti, amerò i truffatori e i visi pallidi, amerò i prepotenti di questo mondo, amerò le principesse ed i nobili imbellettati, amerò chi non vede niente e chi non vuole vedere, amerò gli uomini topi dei bar e degli stadi, amerò tutti, incondizionatamente, senza riserve. Allora un dolce trapasso, una tranquilla passeggiata all’ombra di querce e betulle, in viaggio verso i confini del mondo.

Oh splendenti betulle, cosa non darei per la vostra ombra,

vecchia quercia che fai rumore nella notte,

cosa non farei per accucciarmi tra le vostre possenti grinze,

ma non posso amare così tanto,

cosa direbbe il vecchio gufo,

posso solo ballare sulle loro tombe.

 

Al galoppo di un grifone dannato

costeggio la cortina di stelle e guardo in basso,

sgangherato banchetto di anime perdute e automobili rombanti e slot machine senza denti.

Non vedo diavoli a Loudun,

giacché le fiamme di perpetui roghi mi oscurano la vista,

Baudelaire e i poeti maledetti,

torbidi drogati che facevano uso di poesia,

il diavolo senza posa li giace accanto e li porge un fiore,

San Giorgio ha trafitto il drago,

il ventre squamoso di cristalli e fiamme ruggenti trafitto dalla lancia,

attira turisti e credenti incalliti come sciami di locuste,

li vedo oltraggiare con impeto il magico silenzio delle strade vecchie.

Niente più spade niente più scudi,

sulle bandiere v’è cucito un bidet,

amaro vessillo dell’uomo,

con le chiappe pulite e l’animo lercio,

si imbelletta il viso

nel suo bagno pieno di specchi.

Oh grifone

che mi conduci malvolentieri sopra le terre formicanti,

non guardare giù in basso se non per ghermire un coniglio,

lascia a me tale struggente onore,

lasciami invocare Behemoth

il signore di tutte le bestemmie,

giacché ciò che vedo è un perpetuo calvario,

giacché ciò che vedo è la mia dannazione,

il giusto fio per non riuscire a vedere che demoni affamati.

La notte scaccia via i demoni,

gli amanti fanno all’amore su di un letto candido,

il gufo si getta in picchiata sul topo ignaro,

il netturbino spazza via la merda le strade brillano come serpenti lucenti,

è la madre che rimbocca le coperte è il bambino che senza affanno si addormenta,

il poeta scarabocchia un verso e si riempie il bicchiere,

così fa l’ubriacone, che intona però un ferale canto,

la notte non sfugge alla violenza,

spirati sono i guardiani della notte,

ma quel poco oro rimasto splende nel buio

e appassisce alla luce del sole vermiglio.

La notte d’un tratto incombe sui tetti,

infinite notti di marijuana e di pareti impregnate di acido,

notti di inchiostro e di carta gialla e di whiskey,

notte incorruttibile notte di amore abbagliante,

oh notte oscura , effimero e potente rifugio dalla tempesta umana,

notti nere senza luna, notti solitarie

solo i versi stridenti di sinistri uccellacci, rimbombanti ruggiti di bestie feroci,

notte del giradischi,

notti avide di sonno e parossismi,

notti stanche notti derelitte,

la notte è come un valzer per Rebel Yell,

vorticoso incedere nell’oscurità,

il cuore impazza come rullo di tamburi jazz

non vedo più niente nella notte ribelle

tale è il bagliore della tua luce,

piccola mia,

mia notte di carne e fulgido pelo,

mia amata notte.

Non ci sei mai, la notte,

e così scrivo poesie…

 

Sulle rive di uno stagno d’argento

le ninfe ronfano ubriache e si perdono nell’oscurità…

 

Gli astri decaduti si specchiano senza vanità nel riflesso cereo,

i pianeti rimbalzano come biglie avvelenate,

il sole si barrica contro l’universo in rivolta,

le stelle minacciano il firmamento che indietreggia,

vorrei tornare indietro nel tempo e non essere più testimone di questo scempio,

ma già Schiller, duecento anni prima, rendeva rispettosamente il biglietto a dio.

La tragedia va avanti e non si accorge di nulla,

nessuno si accorge del tumulto nei cieli.

L’uomo topo cammina verso la fabbrica di bottoni e impreca dio senza neanche guardarlo. Sotto il

peso del cappello di feltro, la sua testa guarda in basso, verso l’inferno. Il suo passo pieno di rancore

va avanti senza fare più domande. I demoni lo aspettano e lui lo sa.

Gli alberi invecchiano senza posa, e si trastullano le lunghe radici sulle rive melmose del lago, i

morti risorgono, affamati di carne, la morte cammina e fiuta il passo dei vivi, l’orchestra jazz si allontana alla deriva nel mare in tempesta, sinistri vortici volteggiano negli abissi del sassofono, la

ragazza fugge dal ridente ippogrifo, che il becco lercio vuole inzuppare nell’umida fregna, incantato

regno d’amore prossimo al più brutale saccheggio. La ragazza fugge nei recessi del mondo, e piange e non si avvede della notte schernita e delle palle di fuoco.

Radi momenti di felicità avvolgono il cuore che batte e che imputridisce. Da qualche parte in quelle

grinze palpitanti si nasconde ancora un po’ dell’uomo più puro, l’uomo che avremmo dovuto essere, un piccolo relitto che resiste al decadente squittio del topo. Emarginato e solo, quel pezzo di anima,

capace dell’amore più ancestrale, costretto ora a cercare rifugio nelle colline vischiose, l’anima presa a calci e cacciata via, l’anima fuggiasca.

Oh Dmitrij cosa ti hanno fatto, irruento Karamazov, cosa ti hanno fatto Grusenka e i suoi piedini,

cuore pazzo, riuscirai davvero a fuggire in America? No, non ti riuscirà neanche quello. Tuo padre

è morto, Alesa ed Ivan si aggirano come fantasmi nei tuoi sogni più languidi. Fredda Russia senza

fine, desolante steppa di paglia gelida, mirabolante foresta degli orsi bruni, è lì che ti portano giovane Dimitri, a scontare il parricidio che non hai commesso, e non è giusto, ma sei un parricida lo

stesso, giacché la morte di Fedor Pavlovic l’hai a lungo bramata.

L’aquila psichedelica di Ton Vlasman spiega le ali e si getta a capofitto nel ventre molle del sole sotto assedio, le folte schiere di stelle fredde si disperdono nelle galassie notturne.

Le tigri spariscono una dopo l’altra dalle giungle ormai rade, il suo glorioso manto abbellisce i saloni nelle case dei malvagi e dei boriosi. Il cacciatore si gode la vita nella sua casa solitaria. Con la

mano pelosa e rossa di sangue, conta i soldi che ha guadagnato con l’ardita battuta. C’è ne abbastanza per un bordello, ed una mezza dozzina di bottiglie di champagne, ed una notte senza eguali nelle pozze viziose. Una tigre in meno ed una puttana senza denti. La vita è bella!

La guerra è finita. Sulla terra scrosciano le lacrime dei morti, l’uomo topo rincasa, sotto un grande ombrello nero. È solo pioggia, e smetterà prima di sera. Invano si perpetua il doloroso canto delle sirene stellari, dalla notte imbruttite, dalla battaglia avvelenate.

 

Vecchia fortezza di cosa ti lamenti? Lo stesso delitto infuriava dentro le tue antiche mura, lo scempio che vedi è opera tua. Nella terra degli elefanti e dei machete e dei bambini senza scarpe, hai sguazzato agitando il pugnale lucente ed il cazzo bianco e le folte basette e le uniformi fiere di vacue medaglie. Ti sei presa tutto e te ne sei andata, rigonfia di gemme preziose e galeoni in mezzo al mare, sinistro valzer delle catene, oscuro tintinnio nelle infinite maree. Ora niente è più lo stesso, le

gazzelle si danno la caccia tra loro e i predatori stanno a guardare. Davvero non capisco cos’hai da

mugugnare, dalla terra rossa continui a succhiare diamanti come ignobile talpa, lascia almeno aperta

la tua possente porta!

Mille dollari per una collana di diamanti, la testa è china sulla vetrina luminescente.

L’Amazzonia abbatte i suoi alberi millenari, oh quale sdegno dalla terra vecchia, ma cos’eri tu, se non una grande foresta, Amazzonia delle conifere e dei faggi e delle betulle. Serve spazio per le industrie e le città d’arte, e tu questo lo sai, vecchia puttana. La tua foresta l’hai già tagliata.

Oh vecchia Europa diavolo bianco, ma cos’hai fatto,

vecchio barbogio?

Il pellerossa ulula nella notte illune, le praterie pullulano di bisonti morti.

Proprio non capisco di cosa ti lamenti!

Quanto ancora, semmai, agiterai quel dito maleodorante, antico regno di assassini ed ammaliante

letteratura, angusto teatro di gloriose battaglie e roghi di streghe. L’Europa sfarzosa e piena dei soggetti più strambi.

I mattoni rossi di Torun, le fitte faggete dell’Etna, gli oscuri  castelli della Transilvania, le torri di Tubinga, i draghi di Lubiana,

l’Europa dei villaggi e delle candele, l’Europa degli amanti,

l’Europa senza vergogna,

al diavolo le guerre, al diavolo le cattedrali, al diavolo i suoi topi

ed i suoi

fetidi porci.

È nel ventre pazzo di Werther che voglio affondare le mie radici

flaccide.

 

Suadente seno di donna fatale,

che nell’uomo ispiri le più belle poesie e le più brutali

violenze, i più efferati atti

d’amore

e l’odio più sordido.

Oh figlia mia,

che irradi d’incanto le colline senza alberi,

sin da piccola ti inizierò all’arte della guerra e allora diventerai Clorinda e Giovanna d’Arco,

allora

saprai riconoscere un bacio.

 

Oh giovane penna

che me ne faccio del tuo nero inchiostro

senza veleno

né poesia,

ti vedo arrancare,

come una nave carica di petrolio nel mare di carta,

ti vedo danzare

senza pungere

sul foglio vecchio ed ingiallito,

ti vedo smarrirti in quelle righe senza tempo,

ti vedo arrenderti

a

dolorosi ricordi,

oh dottore, dove te ne sei andato?

torna a splendere pazzo diamante!

La penna piange sulla laguna bianca,

per cento anni si perderà nell’inquieta steppa,

invano il taccuino attenderà il fiume nero delle sue parole.

Non mi importa quando,

sarai una penna vecchia e decrepita,

scriverai del gufo grigio,

del suo angosciante incedere,

scriverai del mondo e delle persone buone,

scriverai della famiglia e degli amici fraterni,

scriverai degli dei e degli artigli del diavolo,

scriverai di Rebel Yell,

giacché è per lei che andrei in guerra

se solo fossi un folle

condottiero,

giacché è davanti a lei che mi inchinerei

se solo fossi un Adone

nel paradiso delle vergini.

Muori in pace vecchia amica,

alla fine hai scritto il tuo celeste epitaffio.

Porgi un bacio alla dolce Carlotta,

semmai la vedessi,

un bacio d’inchiostro su quelle guancia candide,

sperdute,

chissà dove,

nel regno dei morti.

 

Spettrale oltretomba del little big horn,

le patate fritte nel grasso di Custer,

sinistro fantasma che erra,

senza scalpo,

nella frontiera di oro,

abominevoli sarcofagi in cerca di fregna fredda.

Lungo la riva dei morti

passeggio allegro e senza paura,

quando la Germania è impazzita e

persino Hofgen credeva ancora che tutto fosse una finzione,

dopotutto era l’attore, era solo un attore,

ma negli splendenti fasti

del nazionalsocialismo vi sguazzava con ardore renano,

credevi che solo così,

camuffato in mezzo ai porci,

avresti potuto vivere e persino far qualcosa,

ma era il tuo braccio ad avvinghiarsi a quello dell’assassino!

E tu lo sapevi vecchio Heinz, lo sapevi fin troppo bene,

dove sono adesso le lacrime di Angelika.

Angeli e killer vivono dentro noi,

divampa come un fuoco

la tempesta di

Peter Hammill.

Agitato sonno in mezzo al mare,

leggiadro cullarsi del galeone

tra le onde più severe della notte,

dovrei forse preoccuparmi dei pericoli del tabacco?

La riva dei morti è lì davanti,

la costa polverosa e maledetta,

la barca di legno rancido

rovescia le anime morte sulla spiaggia grigia,

come sabbie rosse di Omaha beach

o giubba morta

sulla battigia di Dieppe.

I morti si disperdono verso l’interno,

derelitti e teneri l’uno con l’altro.

Oh quanto diverse le loro sciagure,

morte risibile e tragica morte,

le noci di cocco fanno strage in Mozambico,

le trombe della guerra mai cesseranno

la loro marcia funebre,

che sia per mano di un pazzo

o sotto l’infame giogo della malattia,

non c’è da preoccuparsi,

mi avvicino impavido

al capezzale del gufo grigio,

gli chiedo del fuoco

per il mio ciuffo di marijuana.

Sull’orlo di un pozzo nero

corteggio la morte con sinuose danze

e profondi inchini.

Con fare solenne mi agito in gloriosa vita!

 

Spettrale sambuco sulla riva dell’Elba,

albero incantato,

che sguinzagli i tuoi rami

come serpi verdi,

che ne hai fatto dello studente Anselmus?

Nelle strade di polvere

seguo il passo di Lucien Carr,

derelitto pioniere di sgangherato jazz,

solo due anni di prigione

ed un delitto d’onore.

È festa nelle trincee melmose infestate di topi,

il soldato Baumer annaspa

nell’orizzonte di sangue e fango

e cadaveri risplendenti nella

notte lercia.

Che vadano loro a combattere,

invece di abbuffarsi

nei sontuosi banchetti!

Come porci satolli di vino e

formaggio affumicato,

fumano sigari del miglior tabacco,

giocano a scacchi

con le anime dei

morti!

Il cielo sanguina beffardo sul canto dei soldati morti,

l’ammaliante sinfonia di Tchaikovsky irrompe

come vascello lucente

nelle

terre desolate.

Sul campo di battaglia si levano strazianti

le speranze dei vivi,

è la danza macabra degli elmi tintinnanti.

L’ombra vischiosa della menzogna

incombe come nero mantello

sui racconti del bardo senza denti.

Le polveri di Guy Fawkes cospirano ancora

nei sotterranei di Londra.

La pulce del ratto morto

dilaga come peste nera

nella latrina medioevo.

Solitario sul molo di legno,

l’uomo osserva l’empio mare infrangersi

sulle coste

del cielo.

Solitaria sul molo cosmico,

si consuma senza gloria

la fiaba

del whiskey e del poeta della sciagura.

Come un dolce relitto alla deriva

nell’universo,

il vecchio sognatore

abbozza i passi di una danza spettrale,

a spasso in epoche remote

egli volta le spalle alla città piena di luci.

 

Amaro crepuscolo

di turpe novella,

nero inchiostro senza posa

sulla pagina che non c’è,

mero burro sul pane rancido.

Svanisce infine il sogno del bambino,

dal cielo rosso viene giù la stella cometa,

derelitta e ubriaca,

senza luce né guida per i viaggiatori.

Fatale il canto della silfide,

i boschi incantati avvizziscono,

le barbe dei nani bruciano e si inceneriscono,

l’uomo che ride è solo un ragazzo,

gettato in pasto alle bestie.

 

Cespugli di more avvelenate intorno a me,

il cuore palpita come tamburo di monaca ossessa,

la testa barcolla sotto il giogo di malefico gin,

è buffo come agiti quel dito ripugnante,

credi davvero di essere l’uomo che pensi?

Non ti accorgi della misera pozza in cui sguazzi,

non ti accorgi della sudicia nebulosa che offusca il tuo onore?

La tua penna stridente non è

che vago monologo perso nella nebbia,

gettala via ed impugna la spada gigante,

allora non avrai di che farfugliare

sulla pagina morta.

Oh miserabile vaneggio del poeta!

Rovi di bacche marce,

funghi maledetti

nella foresta verdeggiante.

Bianche candele,

che vivono… e

muoiono

allo stesso tempo.

Volteggia il gufo grigio

sulle piccole fiamme,

con amore consuma

i loro sogni di cera.


Lamento per Rebel Yell

Eravamo amanti,

e strisciavamo come serpenti ebbri nella notte,

a caccia di stelle.

I giorni del vespro erano lontani,

sperduti oltre le fitte nebbie sempiterne,

irretiti nella tela di un futuro distopico senza più lucernai

nel cielo bandito,

non ci importava nulla,

non li scorgevamo neanche dalle impervie scogliere

del nostro letto di piume,

sfrontati come abbacinanti scudi..

..ci facevamo beffa di loro e ridevamo,

al riparo dietro folte mura di calde coperte,

magico forziere delle notti più fulgenti.

 

Eravamo amanti,

e brindavamo alla luna che si scioglieva nella candela

del nostro tavolo,

la sua fiamma, fragile e severa,

illuminava i nostri volti sciocchi,

arrossati dal vino e da scariche elettriche folgoranti.

Sono forse andati quei giorni increduli?

Quando i tasti delle nostre macchine da scrivere

si sono intrecciati come fiori molli in cerca d’amore,

quando avremmo venduto l’anima al diavolo

per un altro giro al luna park estatico,

quando le nostre urla echeggiavano rauche

lungo il viale affollato.

Sono forse avvizziti i nostri baci di ferro?

Si è dunque sciolto il nostro eterno abbraccio,

come il nodo di un marinaio ubriaco?

È stato solo un sogno, nevvero?

 

Eravamo amanti,

e ci stringevamo nella carrozza di velluto,

a spasso nel tempo e nella tempesta,

fianco a fianco nell’intruglio di luci e binari

e scaffali di carne in scatola,

laddove il poeta e l’assassino siedono lungo lo stesso bancone.

Ti vedo navigare sul mare di lenzuola bagnate,

condottiera di mille onde,

pirata dell’incanto e dell’assurdo.

Ho forse dimenticato il dolce incedere del tuo respiro

sul mio corpo che si contorceva..

come un verme beato,

ho forse dimenticato il freddo pungente

dei tuoi piedi candidi nella notte,

i segreti sussurri del mattino,

quando dagli occhi sgorgava ancora il pus.

 

Eravamo amanti,

e ci sollazzavamo nella rugiada e nel crepuscolo,

indifferenti alle macabre sfilate

ed al volteggiare degli avvoltoi,

non avevamo nulla

e ce lo tenevamo stretto.

Oh giorni radiosi,

temevo di avervi per sempre perduto,

fuggiti, chissà dove,

dentro calze a rete di cristallo.

Oh ragazza,

per un attimo ho temuto di rivederti solo nei ricordi

smembrati dalla coltre di marijuana,

nelle fotografie decadute ed ingiallite

che gravavano sulle mie pareti di acido,

su ogni sagoma che le nubi o gli alberi schiudessero

ai miei occhi facili,

ma tu sei rimasta e le pareti mi sorridono amaramente,

il tuo volto tuttavia

allieta ancora il cielo cupo.

 

Siamo amanti,

e le gambe mi tremano come birilli intontiti

al passaggio di palle di fuoco,

siamo amanti,

e la mia danza si perde nella notte senza sonno,

preda dei più lucenti bagliori,

siamo amanti,

e non trovo più l’uscita

dai solchi morbidi delle tue labbra,

disperso e felice nel folto umido

del bosco sacro.

Le sabbie del tempo affogano di nuovo

in torbide pozze di amore vischioso.

Gli angeli cadono

fuori dalla finestra,

oh quale gran clamore dalla strada sconvolta,

non ci importa nulla,

le tende si spiegano verso terra,

la fine del mondo si sente appena

dal salotto di smeraldo,

ove il nostro bacio cosmico si consuma stridente,

come fuoco eterno alla deriva,

una sigaretta jazz tra le dita di una dea.

Nel cielo nero

risplende una luna senza posa,

davanti i miei occhi

la notte avanza, irrequieta e squallida.

Mi verso da bere

e mi chiedo se ciò che scrivo sia davvero il rovente riflesso

del nostro cuore

o solo l’effimero vaneggio

di un sognatore che ha perso tutto e non se ne è accorto.

Comunque vada,

sei la cosa più bella che il mondo mi ha sbattuto in faccia,

tra le mie braccia stupefatte sei caduta,

come da un sogno,

del tuo ammaliante profumo

hai cosparso la mia luce e le mie tenebre,

al mio cuore colto alla sprovvista

hai cospirato poemi d’amore.


Agguato a Walt Whitman

Nella terra fredda

si aggira il fantasma di Walt Whitman,

terra senza confini, terra di fratelli,

piena di vermi.

Vecchio pazzo,

dal passato riemergi come una stella severa,

ma presto ti perdi nel tuo sguardo incredulo,

non trovi più la strada

verso il tuo Long Island che non c’è.

Guarda, il mondo nuovo, nei miei occhi languidi,

guarda bene…

..nel rinascimento elettronico

mi risciacquo la bocca

con le ceneri della monaca ossessa,

soffice erba gialla

che invadi il palmo della mia mano terrosa,

suadente corpo di principessa,

che penzoli leggiadro dal ferale cappio

dei miei sogni più oscuri,

vecchio uomo che muori

davanti i miei occhi di granturco.

Ho visto anche galeoni d’amore

salpare verso la luna,

abbandonare le grigie sponde

di una una fiaba perduta,

senza canto né vessillo.

Era il mio ultimo mozzicone di candela,

l’ho dato via lo stesso,

ho dato via la mia stella

per un gallone di vino rosso.

Questa è la storia, vecchio spettro,

dammi adesso le tue foglie d’erba.