Caffè

La incontrai per caso.
Proprio non mi aspettavo di trovarla lì, ma ne fui prevedibilmente felice.
Pensandoci un attimo, mi accorsi che era già da un po’ che non vedevo la donna col vestito viola; un
mese o giù di lì, ma mi sembrava molto di più.
O era molto di più?
Pigro, mi stancai subito di fare il conto dei giorni e mi sedetti dall’altro lato del tavolino della vineria che
occupava lei.
Iniziammo a parlare.
«Che palle, sta finendo Agosto e non sono riuscita a fare nemmeno due giorni di vacanza».
«Zero? Proprio niente? Ma adesso ricomincia il lavoro, come fai?».
«Eh… Tu che hai fatto?».
«Niente di che. Un week-end con Giulio e qualche giorno sparso ad Ostia. Pure io niente vere vacanze.
Vorrei recuperare facendo quattro giorni a Parigi prima di rientrare al lavoro. Devo fare esami il dieci
settembre. Oddio… ci saranno un sacco di studenti e io ci lascerò la pelle».
«Andiamo».
Rimasi un po’ stupito da quello slancio.
Non era proprio da lei.
Però non chiesi niente.
Anzi, risposi disinvolto, sfoggiando una di quelle facce da poker che poteva benissimo appartenere alla
donna col vestito viola.
«Volevo andare in treno però, mia mamma mi ha fatto venire voglia di provare. Lei è una fan dei treni»,
proposi.
«È perfetto, così posso dormire da mia sorella che abita di fronte alla stazione», rispose.
Lei tirò fuori il suo computer portatile dalla borsa e iniziò a guardare gli orari dei treni.
Ero contento.


Il vestito viola

Mi annoiavo sempre quando ero al lavoro al Dipartimento, ma ormai non ci facevo quasi più caso.
Nei tre anni che avevo trascorso lì a fare il Dottorato, avevo perfezionato la mia conoscenza delle
persone di quell’ambiente, oltre che quella della Filosofia.
Non mi davano più fastidio i colleghi, i superiori, né molte altre cose che forse sarebbe stato meglio
avessero continuato a darmene.
Di solito non vedevo l’ora di uscire di lì e tornare a casa, o vedere i miei amici o, quando capivo che la
giornata sarebbe andata per le lunghe, di concedermi una pausa pranzo abbastanza lunga da poter
andare un’ora in palestra.
Questa tattica mi piaceva: mi piaceva scaricarmi correndo sul tapis-roulant, ma mi piaceva di più fare
una doccia a metà giornata per fare finta che fosse appena cominciata.
Quel lunedì mattina però era diverso.
Un po’ mi piaceva il lunedì mattina, che mi sembrava sempre come il primo giorno di settembre o
come il primo dell’anno; un po’ perché avevo voglia, dopo tanto, di riprendere la stesura di un suo
articolo abbandonato da tempo che parlava di una mia scoperta fatta in un manoscritto antico
appartenuto a un tizio morto da mille anni.
Ogni volta ripensavo all’odore della cartapecora di quel coso mentre lo sfogliavo alla British Library e
sorridevo pensando “Per lavoro studio il libro di un morto fatto di pelle di animale morto… Ottimo.”.
Come ogni dieci minuti schiacciai ‘salva’ sul mio pc e presi le sigarette dalla tasca della giacca appesa
sullo schienale della sedia.
Presi il telefono per controllare se qualcuno mi avesse cercato e lessi: “11:48″.
“Noooo!!!”
Ma lo pensai soltanto.
Ignorando le telefonate e i messaggi che avevo ricevuto, riposi tutte le mie cose, sparse sulla scrivania
nello zaino e corsi nella stanza accanto.
«Professore, io ho un appuntamento dal dentista. Ci metterò poco più di un’ora, è qui vicino».
«Si, me lo aveva detto. A dopo».
Non feci caso al tragitto dal secondo piano della Facoltà al mio scooter, né a quello dal parcheggio del
mio scooter allo studio.
Effettivamente era molto vicino e questa cosa mi era sempre piaciuta tanto.
11:57.
Accesi la sigaretta sospesa da dieci minuti e ne buttai via metà.
11:59, e suonai al citofono.
Salii come al solito per le scale pensando che non avevo mai visto l’ascensore di quel palazzo e, aprendo
la porta già socchiusa, mi sedetti in sala d’aspetto.
Dopo poco entrai nello studio vero e proprio.
«Come stai?».
«Tutto bene, e tu?», rispose lui.
«Bene, grazie».
«Casa? Come va?».
«Al solito, ma bene».
Parlai ancora per un po’, proprio come parlavo con me stesso.
Ad un certo punto ci salutammo.
«No, però ti devo pagare», dissi.
«Oddio, è vero… Una rimbambita…».
Presi il libretto degli assegni.
«Oggi è 27?».
«Si».
Firmai.
«Allora, lo sai. Se hai bisogno ci sentiamo…».
«Si, si, lo so….».
Uscii dalla porta facendo un sorriso appena accennato al paziente in attesa dopo di me.
Lei chiuse la porta augurandomi buon lavoro.
L’ultima cosa che vidi fu un lembo di vestito viola che svolazzava spinto dalla corrente della porta
aperta.
12:50.


 

Nel silenzio

Da piccolo ogni tanto restavo a dormire da mia nonna.
Mi piaceva, allora, perché aveva il sapore di un gioco.
Mia nonna ha sempre avuto l’abitudine di andare a dormire presto e anche quella di svegliarsi ancora
prima. Quando rimanevo da lei, nel famoso lettone, non avevo mai sonno: a malapena era calato il sole.
Quando poi si faceva buio era buio pesto nella stanza.
Se ancora ero sveglio, qualche volta tenevo gli occhi aperti e guardavo dove doveva stare il soffitto. Più
fissavo un punto e più quello mi sembrava buio. Era come se l’insistenza del mio sguardo facesse
diventare quell’angolo ancora più scuro del nero.
Il tutto era accompagnato dal ticchettio di una vecchia sveglia dell’aeronautica Militare italiana, regalo di
pensionamento di mio nonno. Non serviva a scandire il tempo, perché nel buio le lancette non si
vedevano.
Se ci ripenso, però, quel suono era l’unica cosa che dava un orientamento, qualcosa come un’àncora in
una stanza buia e silenziosa.
Una volta la sveglia era rotta e non sapevo cosa sarebbe successo, ero piccolo.
L’ho capito anni dopo e, sorridendo, ho capito che il bambino a volte è come un adulto, ma con meno
paure.