Ossessiva oppressione
Gelido vuoto
risata di scherno
sottintesi crudeli
fin dentro l’anima
sfigurata,
La mia essenza perduta.
Son un cumulo di rabbia
ormai, di grida inascoltate
tra le pareti desertiche
isolata e additata folle
profeta di sventure.
La violenza ingoiata
non è stata mai vista,
mai creduta, mai riscattata,
mai liberata.
La ferita scavata
per anni
dal branco osceno
occulto
mi ha per sempre smarrito
su connotati sconosciuti.
Non sarò forse
mai più me stessa,
sfinita da anonime
insistenti incursioni.
La violenza evoca
fantasmi crudeli.
Bo Marzo
Il cinghiale albino fa capolino
nelle praterie sconfinate di sogno
e ghirlande di fiori s’intrecciano
di bellezza a distanza
tra rocce ed acque,
trafitti i draghi di simboli
arcani entro nelle vertigini
di forme e spirali a me note.
Le possenti Veneri Madri
sdraiate col coppo di saggezza
mi presero per mano,
l’antica zavorra può essere
estinta; non sapevo di voi
nobili signori e dame dotte
di misteri e inaudita apertura
in epoche di roghi; fui liberata
dal peso di memorie oppresse,
ispirata al canto del sacro
bosco; tornata nell’ordinario
mondo ancor più distanti
pallidi e deformi gli sciocchi
e disonesti volti noto delle
maligne marionette.
Piango lacrime di sangue
e sale dall’anima strizzata,
trasparente e raffinata,
mai compresa o confortata
dai menzogneri
lontani e vicini.
Ballata al femminile
Bambina spaurita in viaggio
verso un assurdo percorso
insostenibile di notti insonni
e promesse disattese mi trovai,
sentire d’angoscia e pianto
infantile, umidi occhi di terra
e numi tutelari, un pugno di mosche
tra visioni ingenue e beate.
Bella addormentata nel bosco,
il Principe mi svegliò brusco
mentre passavo radiosa l’ago d’argento
nella mia tela notturna;
vergogna, scandalo e censura
la parola al femminile sul desiderio.
Marini abissi verde blu mi avvolsero,
dopo innumerevoli morti amante
e amata mai: sulle carovane ardite
le mani di cristallo giunte,
commossa di melodia e mistero,
antico canto gaelico implorai
sulle sparse isole. Possesso,
colomba agonizzante profanata
sull’altare una volta dal miraggio
sedotta ed uccisa.
Donne che mi consultate,
nel dì della festa delle sorgenti
e delle fontane io nacqui.
Vestali del focolare private,
alla ruota dei miei tarocchi
numerose venite: lancinanti
lamenti senza lui levate,
involucro –noce e seme
incandescente. Donne
che mi consultate,
risalite, risalite,
fino all’ultimo picco innevato.
Celeste e bianca,
nacqui di nuovo.,
con la sferza di ghiaccio
e di fuoco sul viso,
e l’immensa occulta
dolcezza della Dea
nessuno nota nel mio cuore
stanco e pallido barlume
dell’antico fuoco sacro.
Ofelia
Dimmi Ofelia,
quali sono le emozioni estreme
e la follia che si rispecchiano
nel tuo animo coperto
di fiori, gli ultimi donati.
Parla, Ofelia,
dell’acquatica amarezza
in cui tutte le donne
annegano, scivola
nell’oblio che ti destinano
ogni volta.
Fuori, banchettano : i gorgheggi
le ruote, i pavoni in amore;
dentro : le umide mura,
lise lenzuola frugate;
la gelida folata mi porta
via rannicchiata; anche
Colibrì Azzurra, l’ultima
Dea Azteca scomparve
nella tenerezza ripiegata
della sua chioma corvina,
sotto gli zoccoli dei cavalli
di fuoco.
Paesaggi perduti dell’anima
Le ultime stelle tremule
ed i neri alberi ancora imbevuti
di notte segnano la via
in lontananza. E la dolcezza
forse di un addio resterà
incatenata alle montagne complici.
E so che il rosso-arancio
all’alba incendiato mi ripara,
così proseguo nel mio cammino.
E dove sono, distante, ma sorretta,
gente comune non l’intende;
Se in pace il mondo mi fa felice.
Non oserò turbare il raccoglimento
e sfiorare la fronte teatro
delle mie ombre cinesi;
e passo le dita tra le cime
velate dell’estate sottile,
nella radura-culla
smeraldo acceso, sul lago
dove mi ha sorpreso
un lembo sconosciuto
di un’ anima – arcobaleno .
Ascolto l’acqua nivea
in movimento ed il sogno
mi scorre accanto,
profilo scolpito di stupore.
E mi vedo dolcemente adagiata
sulle lastre verde-azzurro
di pastello levigato,
stretta nell’abbraccio
della roccia a strati.
Sola
sconosciuti sguardi
giudicanti
e impossibile
è il rifugio;
incrinata esistenza
da colpi occulti
e sordide inferenze.
Grido di stelle
piangenti
sotto la coltre
di ovvietà insistente,
nutrita di sciocchezze.
mi sfugge ogni presa,
non ho appartenenze.
Non un punto a cui
aggrapparmi,
Vuoto, vuota,
tutti i vincoli spezzati,
aereo pulviscolo
in assenza di gravità.
Languidamente liquida
mi lascio scorrere inutile
nel solco sterile e vano.
Lo strazio d’abbandono:
passo e le acque si richiudono
su di me; tromba,
oboe stonato
e ridicoli carmi solitari.
Le falene intorpidite
della mia sera immobile
ricacciate nell’insondabile
dirupo, sussulto impercettibile.
Solenni ipocrisie
Radiosità negata
ed illuminazioni perdute
tra atti crudeli e
giudizi odiosi;
arcobaleni e ponti spezzati.
Le parole strozzate eco
di monotonia ripetitiva:
non affratellano
violenza, scherno
ed irrisione.
Le complicità amicali
sono ricordi sbiaditi
di un tempo felice.
Occulti giochi
complicità derisorie
disgustose reti
di sottobosco;
amici degli amici
e vischiose mercanzie
di anime e corpi.
Ovali scure menti
allungate sul trono,
ombrose dominanti
insulse e viziose
perverse ironie.
Alberi, montagne sacre
contaminate:
magica luna
ed il volto di Madre Terra
riemersa dai mari
non scorgo,
nella campana di vetro
graffio le pareti
distolta dal
tempio violato
e rattrappita
nel cuore ferito.
Al tempio del sole
alla terrazza sullo smeraldo
prego la libertà
dalla beffa oscena.
Toscana
Terra mia sommersa ti penso,
declivi armoniosi e cipressi,
filigrana di marmo candido,
florida arte, dolce lingua fluida.
Altri giovani ad uno ad uno
passano soli il mio calvario.
La brina intaglia pioppi allungati
per le lande distese: io spendo
il mio amore altrove.
I campi di girasole reclinano
tra i marroni ondulati
nello scialle violaceo
in lontananza
verso il mare cangiante
gonfio di tenerezza.
Montagne amare
mi nascondete lo sguardo
agli spazi lucenti,
la scia sulle onde vive,
il brio delle genti;
vaste, immobili fissità,
vuote di profondità
mutevoli;
il cielo non scende rapido
sulla superficie tiepida,
posando il ventre arcuato
della luna piena
Ultima estate a Meduno
Chiarità specchio e placida
di contorni lisci e levigati
ritaglia il vento dell’ultima
estate, mentre tenere ed intense
incido le sue parole nella mia
nicchia di vetro senza accesso
allo sguardo altrui. Dal rosso
vivo al viola si anima il mio corpo
a ritmi regolari e piani.
Passo le mani su uno scampolo
di firmamento pensato,
forse compreso.
Stella , culla di dolcezza cosmica,
pianto commosso, ianua
spalancata su galassie
di affetti concatenati;
stella pianista sull’oceano
e soffio d’infinito ammutolito .
Immota, il mondo mi giunge come pallida eco
e mi celo a me stessa, smarrita.
E la nebbia acquarello
Dalla pianura a scacchi
Granturco-avana
Sulle case squadrate
Sotto i lucernai
Confonde il mio pianto asciutto
Alla pietraia ingrigita;
le foglie verso Pordenone
son tutte marrone spento,
veneta mestizia.
PROCIDA: CAPTO L’AMORE
Capto amore dai papaveri a strisce
Rosse senza fine, dal grano,
dalle nuvole, dai cipressi, dai colli,
dal volo dei gabbiani intrecciato,
le lacrime sui prati e le zolle
odorose sparse. E il mio scempio
fu compreso; si spreca una vita
esiliata dai cuori. Ed il solco
s’accresce, vivaio di parole,
di forme, paesaggi e colori.
A Procida azzurri è il Maestrale,
roccia selvaggia scavata come
in Capadocia; la scatola dei ricordi
si fa argento e spuma di solitudine.
Il cuore di poeta si scioglie
sferzato dalle corde di violino
delle canne e la macchia d’agavi,
aloe e verde brillante stride.
I segreti tasti mormorano
la nostalgia e l’eco lontano
di un sentire che intenso fu.