Tears’clown
Un clown, un clown che ride,
non c’è un angelo che sorride,
una lacrima gli riga il viso,
nera come quella di un pirrotte…
Lacrime di un clown
tristi gocce salate
e voi? voi cosa pensate?
con quel ghigno disegnato,
scherza come un acrobata,
con quel muso bagnato,
solo una lacrima… amara…
che scivole malata….
Lacrime di un clown,
amare gocce malate…
e voi? voi cosa guardate?
tra piroette e scenette,
continua a giocare,
tenta solo di scherzare,
il suo animo è senza manette!
Guerriglia
Sotto un solo nero
ed una luna d’argento camminano.
Senz’anima e senza speranza
continuiamo a combattere.
Senza riposo il nostro sonno.
Il nostro braccio prima o poi,
cederà il suo vigore
al tempo del tamburo spento.
Riti funebri, urla strazianti,
di pure vesti copri il capo,
di chi non vede lontano,
ma quando il nostro incedere
verrà interrotto dal fato clemente?
Quando la bruma pietosa coprirà il nostro corpo?
Fresco e gentile tocco.
Tra la fine e l’inizio
Il profumo si spande
insieme alla luce,
le forme non più indistinte riacquistano nuova vita, vibranti e lucide riflettono.
Di fronte a noi si apre una citta che dorme,
ogni mattone ha quel qualcosa di diverso.
Non più notte, non ancora giorno
un momento mai uguale a se stesso,
ma sempre lì.
Sospesi attendiamo che tutto riparta,
che il nuovo inizio cominci.
Resti
A terra l’uno verso l’altra,
occhi negli occhi,
il riso.
Non ancora adulti,
non più bambini…
Giochi spensierati poi…
In un istante un lampo,
la pupilla si dilata,
il panico di fronte alla consapevolezza.
Così come l’uomo che scopre
con orrore l’orlo del precipizio
bloccando la corsa del cuore, delle gambe,
il fiato si mozza in gola…
Indietro la testa allontanandoti dal pensiero.
Il sorriso muta.
Rialzandoti sembri uomo
in quel momento
un istante veloce…
per poi tornare il solito tu.
Bambolina
L’aria notturna era calda, il vento leggero sembrava una coccola prelibata. La cena era andata bene, il ri-storante era familiare e il servizio era veloce. La compagnia era la solita, ormai i sabato sera erano quasi sempre i soliti, con i soliti problemi. Il dopcena era sempre la solita passegiata digestiva, anche se ormai i pasti erano diventati sempre più leggeri visto che a trent’anni suonati da un bel po’ il terrore dei rotoli-ni di ciccia, era onnipresente in tutti. Sedendosi sul muretto difronte al pub, avvertì il cemento grezzo sotto le cosce, la gonna del vestito forse era troppo corta… “Mi ritroverò il sedere a buchi!” pensò tra sé e sé “Era meglio che mettevo i jeans…”
Si era estraniata da tutti, persa nel suo lamentarsi con se stessa, che quasi non si accorse che si era già ai saluti.
«Quanto sei distratta stasera, Anna! …Anna!» richiamandola dai suoi pensieri «Maria e Mimmo vanno via! Che fai saluti o rimani là a fare la statua?»
Senza degnare di risposta Stefano, si alzò e andò a salutare la coppia di amici. Si voltò e chiese «Mi porti tu a casa, Ste’?»
«È mi sa tanto di sì, che avrai da pensare tu! Sei l’unica che si può dire non avere problemi… Sono stan-co ragazzi! Buona notte!»
«Notte a tutti, Brontolo ha sentenziato!» canzonandolo.
Tra baci ed abbracci e risate per le ultime battute improvvisate si separavano, avviandosi verso l’auto.
Per lo più in silenzio.
«Ma dove cavolo hai parcheggiato?»
«Più avanti, tranquilla. Poi non eri tu che sta sera dicevi che camminare fa bene?» «Sì, ma tra un po’ arriviamo sotto casa mia se continuiamo così.» «Eh! Adesso non esagerare! L’inferno è lontano!»
«Io non sto all’inferno!» ribeccò stizzita dal commento acido «certo non abito in centro.» «Che permalosa! Eppure non si direbbe, sta sera ti sei anche vestita come una donna!» «Sei pessimo! Ed io che ti concedo di accompagnarmi!» prendendolo in giro.
Stefano si mosse veloce si parò di fronte a lei, fermandola. La guardava dritto negli occhi e con un sorri-setto beffardo, gli fece un inchino plateale.
«Se sua signoria vuole darmi questo onore, come posso esimermi…» tirando su il capo per guardarla di nuovo, prima di scoppiare in una risata.
Tornarono a camminare in silenzio, fino all’auto. La Fiesta nera era parcheggiata al lato del marciapiede, Stefano aveva già preso dalla tasca le chiavi, quando si accorse dell’eco di passi pesanti dietro di loro. Voltando leggermente la testa, vide che era un ragazzo alto, ma sembrava andarsene per i fatti suoi. Sen-za darci peso si accostò alla portiera, mentre Anna faceva il giro. «Ehi! Tu! Bambolina!»
Anna fece finta di nulla.
«Ehi! Bambolina già vai via?»
Stefano rinunciò ad aprire la sua portiera, girandosi per guardarlo in faccia. Anna era già arrivata alla portiera, quando altri due ragazzi l’afferrarono per le spalle costringendola a girarsi. «Che fai non rispondi?» uno.
«È da maleducati non rispondere» l’altro.
«Lasciatela!» intimò Stefano «Non vogliamo guai.»
«Ecco, appunto, fai un favore: togliti dalle palle!» rispose il primo, poi continuando verso i due compari «Non è una bambolina? Sentiamo un po’ se ha voce?»
Come risposta uno dei due, le prese il braccio e glielo girò come a spezzarlo. Un lamento di dolore scappò dalle labbra di Anna, che cercava di divincolarsi. «Allora parla, la bambolina!»
Ormai era vicinissimo all’auto e mostrava l’intanzione di arrivare da Anna e dai suoi amici di ventura.
Stefano s’intromise nell’avanzata.
«Forse siete sordi, ho detto: Lasciatela!»
«Forse il sordo sei tu! Forse semplicemente le tue parole sono aria per noi. Ora vai via coso!» Gradando gli amici e guardando Stefano indurendo lo sguardo, per poi dargli dei buffettini in faccia.
Digrignando i denti, Stefano non aveva alcuna intenzione di spostarsi.
«Bimbo! Vai a casa!» avvicinandosi ancora di più, quasi petto contro petto, Stefano poteva sentire il puz-zo del suo alito, ma non si muoveva. Risentito da quel comportamento, gli diede un pugno in pieno sto-maco, facendolo piegare, spingendolo a terra per poterlo prendere a calci. «Basta! Fermo! Fermo!» urlava Anna.
«Ah! Bambolina, voglio vedere se lo griderai ancora quando sarò da te!» prendendolo ancora per un’ulti-ma volta a calci. «Allora, a noi bambolina! »colmando la distanza, i suoi amici la tenevano ancora ferma. Con lo sguardo la percorse tutta.
Quello sguardo carico di libido la stava già violando. Voleva sottrarsi, ma le mani che la tenevano erano come delle morse d’acciaio. Fu sbattuta con la schiena contro l’auto, quando sentirono Stefano che tos-sica e bofonchiava.
«Pezzi di merda! Lasciatela!» mentre tenedosi la pancia con un braccio, tentava di alzarsi, sputando il sangue che aveva in bocca. I due gli furono accanto e approfittando della posizione continuarono quello che il loro amico, prima di loro stava facendo con lui: pestarlo. «Non parli più bambolina?» appoggiando entrambi i palmi all’auto.
Le finestre dei palazzi intorno a loro erano come occhi atterriti, la maggior parte erano chiuse, ma le serrande no, nemmeno quelle con le persiane, le luci erano tutte spente, anche in quelle poche aperte…
Stefano le fissava mentre cercava di riprendere fiato tra un calcio e l’altro, cercando di scorgere la spe-ranza di un aiuto, ma in quelle bocche aperte si poteva scorgere solo l’indifferenza della paura. Qualcuno però c’era, piccolo e piegato dal tempo, ma non meno incattivito di un buono che per anni aveva subito troppe brutte cose e quella sera come il chiodo che fa cadere il quadro dal muro, aveva de-ciso di fare qualcosa… . Nelle mani artrosiche stringeva il capo di un tubo da giardinaggio, l’altro capo lo aveva collegato ed avviato, mentre avanzava sentiva la pressione stringere. il tubo aveva un modulatore di getto, e lui sapeva che se metteva il getto più stretto la pressione sarebbe stata orribilmente dolorosa, i gatti della strada lo sapevano bene. Ranicchiandosi a terra in prossimità della finestra nessuno avrebbe potuto vederlo da sotto. Gli occhi ancora buoni gli facilitarono il prendere la mira contro la testa del de-pravato che infastidiva la ragazza. L’esasperazione gli allegerì la mente dalle possibili conseguenze nega-tive della cosa.
«Ma che cazzo!» portandosi le mani alla testa e scansandosi per ripararsi, il tempo necessario per per-mettere ad Anna di rifuggiarsi in auto. A turno arrivarono anche le imprecazioni degli altri che si allon-tanarono dal corpo inerme di Stefano, ormai svenuto.
Velocemente Anna chiamò il 118, ma nel panico ci vollero minuti per dire cosa e dove.
L’ambulanza ci mise un po’ per arrivare con tanto di volante dei Carabinieri.
Stefano era ancora steso a terra, il sangue aveva disegnato un ricamo tra i sanpietrini, non si muoveva. Il viso nonostante tutta quella violenza insensata sembrava che dormiva, come se i tagli e le tumefazioni che irrompevano prepotentemente distruggevano i lineamenti conosciuti.
Velocemente costatarono l’incoscenza, e con un cuore che batteva a malapena fu impacchettato e porta-to via. La sirena che le luci attirarono persone alle finestre, ma sempre ben attenti a non farsi vedere… solo il vecchio con il tubo in mano ben dritto, il viso solcato dalla tristezza.
I due carabinieri vestiti di nero, gli stivali al ginocchio lucidi, tentavano di capire tra i frammenti scon-nessi, tra le lacrime, cercando di essere umani in un dovere di protocolli. Senza fortuna. Neri corvi che dovevano tentare di sapere per tentare nel possibile di portare giustizia in un mondo senza Dio e dove la legge è appannaggio di pochi.
Estratto dal Cumulun:
La luce del giorno inondava quella che poteva sembrare una radura di un campus immerso nel verde, ma i personaggi che nelle graziose movenze la popolavano, possedevano quel fascino romantico e dolce, mentre tra loro a coppie si scambiavano gesti d’amore… tutto sembrava troppo bello per essere vero, così luminoso, così calmo e rassicurante, e Diana cominciò a crogiolarsi in quell’atmosfera distesa. Una coppia attrasse il suo sguardo più di ogni altra: lui baciava le gote di lei, mentre la teneva stretta tra le braccia. Il viso trasformato in una maschera putrida e grondante, mentre tirava indietro il cranio quasi completamente scarnificato, stringeva tra i denti aguzzi brandelli di pelle e l’occhio di colei che teneva stretta bloccata tra le braccia, il nervo ottico fu l’ultimo a staccarsi dalla sede e ciondolava, oscillando con le stesse mosse di un elastico ormai rotto -il volto perfetto di lui si distaccava dalla lattea pelle di lei, tutto era esattamente perfetto, intatto -la testa orripilante distolse lo sguardo da lei per poi fissare Diana, fiera e ghignante come si fa tra belve della stessa specie, con spavalderia e sfida ad imitare…-lui nella sua bellezza bionda, dai lineamenti morbidi e nel contempo decisi, la fissava con amore e curioso interesse, gli occhi color nocciola l’osservavano, cercando di carpire ogni dettaglio senza impudenza.
Voltandosi mentre indetreggiava Diana, cominciò a sentire che qualcosa decisamente non andava in quel posto. Lentamente girandosi, un piede davanti all’altro, si allontanava, alzò lo sguardo davanti a lei: un ragazzo come lei, vestito come gli altri, anche lui bellissimo e perfetto, le porgeva la mano con un mezzo sorriso e con lo stesso mezzo sorriso: «Unisciti a noi.»
I piedi affondarono leggeri, sempre più veloci, sfiorando quell’essere immateriale, verso il fitto della boscaglia, dove la luce ingannevole non c’era più. Il buio artificale del tetto fitto di foglie e rami pullulava di animali rumorosi, più si addentrava più il rumore sembrava assordante.
Improvvisamente di nuovo nella luce della stessa radura, gli stessi ragazzi, in piedi, raggruppati che la guardavano.
«Unisciti a noi.» Lo stesso di prima, avanzando con quella mano protesa. L’invito era goloso, istintivamente si morse il labbro, censurandosi e facendosi forza.
Diana fece nuovamente dietro front e corse. Corse. Una volta dentro, tra gli alberi attese. Gli animali non facevano più rumore. Scrutò il tetto muto e verde scuro. Non un movimento, non un suono, non un raggio di luce. Guardava verso l’alto, si chiese se magari l’uscita fosse proprio quella, ma quando si avvicinò all’albero con i rami più bassi sembrò che la terra sotto i suoi piedi diventasse estremamente morbida, allungò la mano e invece d’incontrare il ruvido della corteccia, la mano penetrò il vuoto. Perdendo l’equilibrio incredibilmente finì in quel vuoto… l’assenza di luce più totale, il silenzio assoluto. Non provava paura, non si sentiva disorientata, inesorabilmente in lei, si faceva strada un senso di pace, ma allo stesso modo l’oblio stava avvolgendo la sua mente, cancellando tutto di se stessa. Senza nome, senza storia, senza destinazione. Assorbita in quel vuoto, parte di quel vuoto.
«Unisciti a noi.» all’improvviso. Maschile e suadente, quelle parole non ricordava più dove le aveva sentite, invitanti, si ripetevano. Ogni fibra del suo essere sembrava non esistere più, ma qualcosa cominciava a bruciarle. Un filo di fuoco che la costringeva a tornare indietro.
Riemerse infine, confusa come se fosse scesa da una centrifuga, non ricordava bene come era finita nell’albero, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine… .
«Oh eccoti! Finalmente!» Ales la fissava con il suo solito sguardo di disapprovazione, scuotendo in modo appena percettibile la testa.
«Sai bene che non è mia volontà finire ogni volta in questi alberi!»
«È colpa tua, se te ne vai per i fatti tuoi, e non solo ti perdi, ma ti cacci in situazioni assurde e pericolose!»
«Chi… cosa erano?»
«Cosa? Non so di preciso, ma illuduno tutti con quell’aria da santarellini» «A me non sembravano tanto santi.» «Spiegati.» Sorpreso.
«Be’ all’inizio mi sembravano perfetti, bellissimi, poi… non so spiegare quello che vedevo e se era “reale”…»
«Mostrusi?…» chiese, vedendola sgranare gli occhi, quindi se ne era accorta. «Andiamo è meglio.» Abbracciandola prima di scomparire.
«Comincio ad apprezzare il fatto del teletrasporto.» Staccandosi da lui.
«Sei l’orgoglio di ogni guardiano, guarda…» con sarcasmo.
Era arrabiato.
«Ora che lo hai detto, ti senti meglio?»
«Quante volte ti si deve ripetere di non girovagare per il parallelo da sola? Dai da fare come un infante, ed io ne ho avuti di fratelli piccoli a cui badare!»
Ormai la storia era quella, le solite parole, il solito lamentarsi. Diana era stata risucchiata nel parallelo, ma alla fine era sempre stata una sua creatura. Ales continuava a comportarsi come se fosse ancora una sua protetta, ma sapeva che non era umana e non avrebbe potuto fare ritorno. Non voleva mettersi nei guai ogni volta, ma non ne poteva più di stare nella casa di Dominique. Non capiva, perché ogni volta finiva per incappare in qualche essere strano ed inquietante, questa volta è bastato uscire dalla piana e fare pochi passi superato il fiume per perdersi. Troppe cose non sapeva di quel mondo, troppe cose che potevano ucciderla, o intrappolarla per sempre. Doveva trovare il suo posto.
«Hai ragione, non dovresti occuparti di me in questo modo. Il tuo compito è terminato da tempo, perché continui?»
«Tuo padre. Il mio migliore amico, ti ha affidata a me. Devi imparare. Poi potrai andare e fare il tuo comodo.» Stanco e malinconico.
«Ti ricordo che ho l’età per bere e per decidere della mia vita.» Risentita.
«Non qui. Qui sei appena una bimba, e considerando il tuo comportamento… » «Non ti azzardare!» Arrabiandosi.
«Sei una bambina.» Sapeva bene che la mandava fuori dai gangheri, ma era vero. Avrebbe dovuto rendersi conto che quel posto, non era come quello in cui era cresciuta. Diana entrò in casa e sbattendo forte la porta, chiuse fuori Ales.
«Dove eri finita ‘sta volta? » Dominique era seduto al suo tavolo e continuava a lavorare senza guardarla. «Non saprei dirti di preciso, ma avevo superato il fiume. Poi una foresta e una radura con un gruppo di strani esseri, ho provato a tornare indietro, ma tornavo sempre nella radura ed infine sono finita di nuovo in una albero… »
«Per te tutto è strano, devi imparare a distinguere i vari esseri che popolano il parallelo, altrimenti non imparerai a difenderti o a conviverci. Dovevi avvisare che ti allontanavi, comunque.»
«Imparare, aspettare, avvisare. Vivere? Essere liberi? » Sbuffando, certo che tra Dominique ed Ales, era come avere di nuovo madre e padre, gli mancavano i suoi genitori, ma con loro non c’erano mai stati problemi.
«La libertà costa. Vivere costa.» Intromettendosi tra i due.
«Ales allora addrestatemi! Non posso continuare così, non posso stare tutto il tempo china sui libri e basta!»
«Prima devi acquisire abbastanza nozioni. Sai mi sembra che nei testi, che ti ha dato Dominique, ci siano anche gli esseri che hai incontrato oggi… » Era davvero stanco della sua pigrizia. «Merda! » Girandosi esasperata.
Dominique sobbalzò sulla sedia, irrigidendosi. Non riusciva ad abituarsi a quel linguaggio, in fondo era finito nel parallelo quando ancora si portavano corsetti e parrucche. Diana apparteneva a tutt’altra epoca.
Ales, più a contatto con gli umani, era del tutto a suo agio. Aveva anche lui i suoi secoli alle spalle, ma comprendeva che l’assenza di tecnologia e l’anormalità di quell’esistenza stava avendo un brutto risvolto su Diana: si stava rifiutando di capire come sopravvivere. Non andava bene. Per nulla. «Erano Meth, ipnotizzano e si nutrono. Non sono astuti, ma sono ostinati. »
«Mi chiedevano di unirmi a loro, sembrava tutto troppo perfetto, troppo belli, troppo felici… »
«Però hai visto anche la realtà, quello che sono e come si nutrono. Finire assorbita dall’albero non va bene, prima o poi ti perderai e non né uscirai mai più.»
«Penso di poter trovare una soluzione per entrambi, in modo che io possa lavorare senza essere disturbato, e voi due non litighiate, mi auguro, più! » Intromettendosi stavolta lui, prima che come al solito uno dei due dica la frase sbagliata e di nuovo porte sbattute, voci troppo alte per poterle ignorare, ed insulti di vario tipo.
I due si girarono a guardarlo in attesa.
«Ales potresti fargli da guida, lasciandole libertà d’azione. In modo da poter valutare tu quali situazioni farle incontrare e piano piano che impara… »
«Però è l’unica cosa sensata che oggi sento.» Riflettendo a voce alta, toccandosi la barba, continuò «Effettivamente non sarei costretto a saltare qua e là a tirarti fuori dai guai. » «Magari le verrebbe più voglia di sapere e tutto diventerebbe conseguenza.»
«Hai ragione Dom. Forse non ci sono solo intrugli sotto sotto. Per oggi ho dato!» Scomparendo.
«Bestia! » Urlandogli dietro.
«Vorrei che la smetteste di litigare, avete entrambi torto. Tu sei una giovane donna e dovresti comportarti in modo diverso.»
«Ti stupiresti di come si comportano le giovani donne nella mia epoca. Fuori di qui il mondo è davvero distante da come lo ricordi! » Tristemente ripensando a tutti quelli che si era lasciata dietro, ma soprattutto le mancava la libertà.
«Forse rinuncerei a tutto pur di vivere anche nei tuoi tempi, anche solo per un giorno! »
Riscossa dai suoi rimuginamenti, si accorse che non solo a lei pesava stare nel parallelo. Guardandolo si rese conto che erano almeno quattro secoli che era in quel limbo, dal quale non esisteva nessuna porta con la scritta “exit”.
«Ma davvero non c’è modo di andar via? Perché solo gli Hardest e i custodi, forse se cerchiamo… » «Fermati! Davis ha distruttto il manoscritto, quindi più nessuno potrà entrare, i custodi ora possono unicamente controllare loro stessi. Come sai gli Hardest non esistono più. Tu certo sei una discendente, ma non era qualcosa dentro di loro che gli dava questa possibilità, e il portale che usavano è stato distrutto, Gene ha fatto il possibile per evitare di lasciarti vie di fuga. Purtroppo siamo prigionieri, e fino a quando non saremo uccisi o non ci suicidiamo, non moriremo mai… » Rimettendosi a lavorare. «Esco. » Aprendo la porta e uscendo.
«Si arrabierà davvero. Sappilo. » Senza nemmeno alzare la testa.
La porta si accostò piano allo stipide, ma non si chiuse del tutto. Quella era l’inezia che più di tutto lo disturbava. Spazientito si alzò, a passi lunghi raggiunse la porta, afferrando il pomello chiuse forte la porta, così forte che il rumore riecheggò nella casa. La mano ferma afferrava ancora il pomello, in piedi, maledicendo se stesso per essere incappato nel triste destino.
Fuori la piana era inondata dalla luce del giorno morente, il dorato era scuro, ma baciava il verde e le poche rocce grigie, Elka era accovacciata a terra e a testa alta guardava il tramonto, come se avesse trovato chissà quale verità. Diana si avvicinò, nonostante la posizione il rapace era alto quanto lei, magnifica e mortale, si ripeté più volte mentre l’accarezzava sul collo. Le piume erano come nastri di seta sovrapposti, morbidi, e così lisci da non avere paragoni. Salendo a cavalcioni sulla sua schiena, si acquattò lasciando cadere le braccia, appoggiando il viso su quel cuscino meraviglioso. Corpo a corpo, riusciva a sentire il suo cuore battere, la serenità e il calore la pervase. Lentamente Elka si drizzò e spiegò le ali enormi, e con un balzo fu in volo. Il fresco le colpì la schiena, ma sapeva che lei non l’avrebbe fatta cadere, né l’avrebbe mai lasciata. In alto, sempre più in alto. Sorvolava la casa di Dominique, anche lui aveva sperato, quando aveva trovato il portale, di poter tornare a casa, vivere e morire come tutti. Mancava anche a lui, la mortalità. Si toccò istintivamente il medaglione, infondo era una chiave, apriva il portale del lago, forse oltre a quello ce n’erano altri, avrebbe solo dovuto trovarli.
La speranza in quei pensieri la rincuorò. Elka rispose gridando come se avesse capito, e cominciò a scendere planando, le ali si spiegarono appena in tempo per attutire l’atterraggio, gli artigli protesi afferrarono la terra, voltò la grande testa per guardare Diana, che pigramente scivolava giù, e si riappoggiava addosso, per tenerla ancora tra le braccia. «Dobbiamo parlare. » Comparendo come al solito dal nulla.
«Non mi va, dovrai trovare un altro momento. Non voglio discutere di nuovo con te. »
«Forse sarebbe il caso, che mi ascolti. So bene che ti pesa stare qui, ma devi accettare il fatto che tu sei parte di tutto questo. Non sei mai stata umana, non potevi scegliere, non potevi tornare, e se miracolosamente tu trovassi un portale, non devi attraversarlo. » «Lo hai fatto. Ancora! Quando imparerai a rispettare la mia mente? »
«Non posso, tu non capisci, se torni là metteresti in pericolo tutti gli altri, le persone che ami. » «Secondo me ti diverti. »
«No. Tu credi che a me piaccia stare qui? Pensi che Dominique sia soddisfatto di essere prigioniero qui? La maggior parte di noi è come te: prigioniero… tutti abbiamo perso, tutti isolati nel loro dolore, tutti uguali. Tu fai la star e l’incompresa, ovvio tu che hai il sangue degli Hardest… povera bimba! Eh no cara! Potresti trovare un portale e tornare a casa, magari poi ti trasformi e distruggi la vita di qualcun’altro, ma imparare a controllarti? Fuori discussione. Sei una piccola egoista e pure egocentrica!» Diventando rosso come non mai.
«Sei duro…non pensavo, sembrate tutti voi “trasportati” qui, accettare tutto questo, l’unico che ho visto di creato qui è Dwight…»
«Che vorresti dire… » interrompendo infuriato «Dwight?! » facendo un sorriso tirato e guardandosi intorno esasperato «Certo che verrai pure da un’epoca più avanzata della mia, ma sei proprio cieca! Dwight è tuo padre e se sta così è per quello che è accaduto, ed ora che ti aveva ritrovata, non si sa per quale sadico scherzo deve starti lontano… è come perdere di nuovo. Probabilmente di noi è quello che ha perso più di tutti…» la mano lo colpì forte, non se lo aspettava.
«Non una parola in più. Ora mi ascolti: mi parli come se non fossi in grado di capire, mi tratti come se non avessi sentimenti. M ’insulti. Forse voglio solo vivere! Vivere per davvero, non così. Stammi lontano!» Rimontando sul dorso di Elka ed incitandola ad alzalsi «Non mi cercare.» Istigando con le gambe a spiccare nuovamente il volo. La rabbia le scorreva bruciante nel sangue, non voleva perdere il controllo, allontanarsi era l’unica soluzione.
Ales rimase impietrito, nessuna tranne sua madre gli aveva mai dato uno schiaffo. Indomabile e pestifera, non trovava altri modi di definirla. “Al diavolo!” pensò tornando verso la casa. «Dov’é? É tardi, il sole è calato. »
«È andata via. »
Ho perso
Ho perso… forse l’anima, forse l’argento…
Ho perso… forse il romanticismo,
Ho perso… quell’attimo di vita… .
Non mi pento. Anche se ho perso!
Schiudermi, affacciarmi in quel sogno di noi,
scommettere,
azzardare quel poco in più di quello che bastava,
saltare nel vuoto…
dove la vera oscurità era l’ignoranza dei nostri spiriti!
Ho perso… è vero…
ma Dio se ho giocato!
E l’ho fatto!
Non ho tentato… l’ho fatto davvero!
Mi sono lanciata nel colore dei suoi occhi,
ho danzato non per sfogo o per me stessa.
Ho gridato, ho esultato
e ho riso della gloria… che seppur passeggiera era mia!
Ho perso…ma non mi pento di nulla,
Se non di aver avuto troppa paura!
Sì… sì, troppa paura che fosse vero!
Ho perso.
Io e quella mia dannata sete di libertà
che non perderò mai,
Che sogno ancora di sciogliermi nel calore di quel che non c’é più, Io che combatto a modo mio
E sono ancora qui in piedi che aspetto.
Visione d’inverno.
Oh Dolce!
mesta grigia amica,
che brandisci i resti della mia anima lesa,
raccogli i lembi e i vetri infranti del cuor mio.
La casa all’aria,
sotto un tetto di stelle,
la luna è il mio invito,
il suo cuore rosso palpitante come cena.
Verdi sono i suoi occhi,
segnati dal nero della notte, dove,
Dio si è dimenticato di Misericordia.
Balla su pattini sollevati dai sogni di infanti stroncati, dal distante sguardo di spettatori, isolati nel proprio tormento.
Sopravvivenza
Inutile che la corda tendi,
perché uragani più tremendi,
imperversano nell’animo umano,
anche il più sano.
Tutto quello che accade in natura,
buono o cattivo, non importa,
di che colore o suono,
sia… basta tenersi stretti alla corda,
e non fermarsi mai di aggrapparsi,
anche se questa è una speranza sorda,
e dal fuoco dell’animo veniamo avversi.
Inutile che tendi la corda.
Prima o poi questa di spezzerà,
E perderemo la nostra libertà.
Straziandoci in un unico istante,
anche il corpo più aitante…
verrà piegato e spezzato.
Inutile che tendi la corda,
perché è solo una speranza sorda,
un’implorazione di un’ultima azione
per salvare la nostra libertà,
da una sicura dannazione,
che ci porterà alla morte,
da cui non risorgeremo
e ad un’ultima speranza ci aggrapperemo.
Illusion under moonlight (Illusione sotto la luce lunare)
Pensavo che solo nei miei sogni,
avrei avuto quelle due stelle nere,
avrei potuto godere di quel dolce suono,
avrei potuto ritrovare un sogno…
Ormai svanito.
Mi scuoto e mi accorgo
che non era che un riflesso nell’acqua,
mi guardo nel riflesso,
come se sentissi ancora…
il tocco,
lo sguardo,
la voce,
sulla mia pelle,
ma ormai tu
non sei che un sogno,
perso, nei meandri di un mondo gelido,
fatto di marmo e vetro.
Eppure ‘sta notte
sotto questo cielo nero
sotto questa luna pallida
che illumina tutto
ti vedo là sotto la grande Quercia.