LA FAME
E’ come salire
una scala di pane
con un peso di fame sulle spalle
e senza uno scialle
per il freddo di patire.
Ad ogni gradino mi fermo per capire
il sostegno che recede
e divoro il passato
staccandolo col prensile piede,
mentre sosto un poco
per riprendere fiato.
Ora, appollaiato sull’ultima traversa,
ultimo pezzo di pane
e unghiato appiglio finale,
non ho più scampo,
né l’illusione della trappola inversa.
Se con l’ultimo gradino
l’anima l’ultimo crampo
della fame scaccia,
in basso precipito e rovino.
Per allentare la morsa
ho camminato divorando
la strada percorsa
e ora dietro di me,
davanti a me,
insieme alla sua traccia,
disperso è il suo destino.
Solo qualche caccola sparsa
lungo i lati della inconsistente via
è la sola testimonianza
di questa solitaria farsa.
FORSE
Forse,
se avessi detto la parola
che soltanto ora, nel dormiveglia,
sussurro,
se t’avessi presa per mano
o posato il braccio sulla spalla,
se non avessi dimenticato di amare,
o dimenticato di sognare,
se fossi stato diverso,
forse non mi sarei disperso,
inseguendo inconsistenze,
per cercare vie di uscita.
Tra chi non ho amato
e chi ho dimenticato di amare,
tra i paesi perduti
e quelli mai visitati,
ogni volta, come al supermercato
ogni scelta indifferente all’altra,
sono stato un io differente,
con un prezzo diverso da pagare.
LA RIVA
Sulla riva del lago
dai mille riflessi,
dallo scoglio levigato
del tempo assente,
il sasso lanciato,
invece di cerchi, quadrati
dilatava, a centinaia,
che piano ondulavano
galleggiando lontano.
Verso di me, distaccato,
con l’onda uno spigolo bagnato è arrivato.
Appeso a un ramo
per farlo asciugare,
si è innestato e, per decenni, è fiorito:
due odori perpendicolari
come il dentro e il fuori,
il desiderio d’altro,
come altri desideri.
Passato il tempo degli incanti,
della foresta dei rimpianti
lo spigolo secco ormai resta
e rigetto in acqua, obliquamente.
Eccoli allora, illuminati dalla luna,
i mille cerchi concentrici
del fascio reale,
sulla scura superficie del lago
spolverata dalla pioggia silente.
Non ci sono laghi al mio paese,
né scogli,
ma su quella riva, la sera,
quando il giorno annuncia un temporale
o guardo alla stagione inesplorata,
a volte ritorno,
ma il sasso lanciato non dilata
né cerchi né quadrati,
dissolti con l’onda il canto e l’incanto,
rimane la lenta notte profonda,
e l’aria immobile.
IL NIDO
Qualcosa che somiglia a un’ala d’infinito
in un arco dei tuoi occhi mi è parso di vedere
e quando si imposta per un solo istante
sulla soglia che conduce al centro della luce,
come una volpe lestamente si rintana
e nella fenditura s’annida il pipistrello,
così nell’ombra si serra l’anima mia,
ma, come lingua di camaleonte,
il mio cuore dal petto parte come una saetta.
Quando somiglia a un’ala d’infinito…
il pozzo dei tuoi occhi…il nido.
COL CAPO CHINO
Vorrei curare la mia voce al canto…
per cantare.
Ho passato la vita
con la speranza di cantare…
di cantare… di cantare.
Se non mi hai amato in gioventù,
vita cantata,
amami adesso, almeno.
E quando mi toccherà di partire,
che sia una sera d’autunno,
tiepida e senza vento,
con tanti vecchi intorno, e senza gioventù,
io che anticipo la morte del giorno
e i miei amici, muti, in giardino,
col capo chino.
IL POZZO
Il fiume che fu un ruscello
e una rete di rigagnoli
ora corre e poi lento scorre
tra le infinite mammelle della terra,
come un vecchio stanco,
visto dai vetri della finestra,
al di là della strada.
Infine, la sua meta:
il mare aperto e l’onda rada,
alle spalle un suono d’orchestra
e davanti la sua destinazione
non più segreta.
La distanza dalle cose del mondo
è un pozzo dove
l’acqua fresca è in fondo:
senza fune e senza secchio,
non ti disseta
e alla bocca puoi portare
solo l’erba di contorno.
LA VOCE DEL VENTO
E’ la voce del vento
il fruscio delle foglie secche del melo?
Ma il vento non ha voce,
neanche quando sibila di notte.
E’ la notte coi suoi grandi fianchi
che singhiozza cercando la luce:
anche quella delle finestre
che ad una ad una si chiudono
come occhi stanchi.
E così, quando il buio resta solo
intorno al melo
e alla mesta luna,
allora il vento, ladro senza voce,
tra i rami rovista e scompiglia
per rubare i resti del giorno.
VORREI
Vorrei avere tutto il tempo
che mi serve per capire
se ho perso il tempo
che ho visto passare,
se mi son fermato a pensare
inutilmente
al tempo di domani,
che non ha colore,
a ripassare il tempo di ieri,
che non ha odore.
Ho giocato fin troppo con la vita
mai prendendola sul serio,
giorni mesi ed anni
senza scosse e senza affanni
se non quelle di una presa elettrica
o per lo sforzo di una salita.
Per il resto, son rimasto inconsapevole
dietro una macchina da presa
aspettando forse la sorpresa
di un segnale impressionante.
E in questo galleggiare
di flessioni e distrazioni,
ho sentito odori con gli occhi,
gustato amarezze con le mani,
ascoltato rumori con la lingua,
toccato ogni cosa con le orecchie.
Ho conosciuto la vita
attraverso le sere passate,
i tramonti fissati.
le albe non viste.
E poco o niente
che distingua
un corpo che respira
da un’anima che si ritira.
QUELLA VOLTA
Ho trascorso alcuni periodi
all’inferno:
quando ho avuto il cuore gelato
da un abbandono.
Altri periodi ho passato
in purgatorio,
ogni volta che mi son trovato
appeso a un ramo e deriso.
Ma non conosco il paradiso,
neanche visto da lontano.
L’unica traccia
sono quei fischi
alle mie spalle,
e in faccia,
quella volta
che ho alzato lo sguardo
verso la vetta dell’Olimpo.
Ora mi resta un disorientamento mentale,
e la sensazione
di guidare un carro
dalle ruote quadrate,
il giorno diviso
in quattro tempi piatti
che strisciano sull’asfalto colloso,
con gli spigoli e suoi brevi contatti
le uniche emozioni del cuore.
OMBRE DI TRAMONTO
Un mesto canto,
in lingua straniera
e sconosciuta,
è il tempo,
lento, come una sera
che si perde nell’ombra
appena mossa
da lontani rumori
di sottofondo.
Un canto rotondo
è il tempo,
circolare,
come un cielo profondo,
stellato nel deserto,
veloce come ogni tramonto
che si chiude a sera
dietro un sipario trasparente.
L’INCOGNITA
La vita mi precede
come una strada che si perde
all’ingresso del bosco.
E’ inutile cercarle,
la vita e la strada,
tra le notti insonni
e l’erba che dirada.
Niente ventaglio per il caldo
né freno alla discesa.
L’incognita è nel binario
che dietro la curva scompare
o nell’uomo che sul marciapiede deserto
aspetta di vedere qualcuno arrivare?
Io che vivo incerto
e passo giorni ad aspettare treni,
tra l’attesa e appena al di qua della curva,
non so se sto dietro la vita
o inavvertitamente
da tempo l’ho superata,
senza accorgermi del sorpasso.
LA FINESTRA ILLUMINATA
Nella notte scura,
spruzzata di ombre furtive,
in una casa lontana
come una stella vive
una finestra illuminata.
Solo quella luce mi attrae,
per il mondo che c’è dietro,
che c’è dentro,
perché oltre la finestra
vedo un sogno perduto
e l’affollato tempio del passato.
Ho sempre sognato una vita di domenica,
io e il passato e il presente
e il futuro, contemporaneamente.
Ma dietro il ponte crollato
e nel buio sconosciuto
senza sostanza la notte mi appare
quando la finestra si spegne,
quando la luce lontana scompare.
FIORI DI CARTA
Un fascio di rose di carta
ho comprato per Natale,
che profumano di carta,
ma, passate le feste,
non avranno reclinato il capo
per odorare di morte.
Cadono ingannate le foglie
portate via dal vento.
Cade ingannata la notte
travolta dal tremolio dell’alba.
TESTAMENTO
Ho deciso
di fare testamento:
il tempo vi lascio,
tutto il tempo che non ho vissuto.
Finché lo possiedo,
ve lo lascio, perché,
come una grande ricchezza,
sperperarlo potrei, al gioco.
Giorni non ho,
né tenere notti,
memorie e ricordi
non hanno mistero,
persa a tressette
ogni speranza.
Solo il tempo che mi resta possiedo
e quello sfuggito di mano,
e vi lascio.
CE QU’ON DIT A PROPOS DES LIVRES
Dall’alta torre, Scilla innamorata
sassolini versava sulla roccia
dov’era posata la lira di Apollo
e dalla bocca di granito
suoni traeva e spargeva intorno,
come bolle colorate, con eco eterna.
Musica che esalta e deforma
scosse e travolse a Scilla il cuore
e lo infiammò d’amore per Minosse.
Quei sassi sonori ho cercato,
e l’antica impronta della lira sulla pietra
e la traccia dei sandali di Apollo:
come un cane da tartufo,
della musica fiutando l’odore,
con la zampa ho tentato
nel sottobosco delle alte cime
la flebile onda di una nota.
Ma sull’antica sacra sponda
soli son rimasti i fedeli sacerdoti,
chiusa e senza suono
han trovato la porta del tempio,
devastato il simulacro del dio
dai moderni sagrestani,
e un forno nella cella divina
per impastare mille libri al giorno.
Scesa dalla torre, ora Scilla,
con Empusa la puttana, ai trivi sosta
e seduce con occhi senza luce.
Lontana dall’alloro, ignota offerta,
la lira giace e senza sassolini.
Spanetta intanto il forno
mille libri al giorno
di pizzaioli improvvisati,
e in televisione prolificano
le nuove Accademie di Platone
dei direttori di giornale, presenti
o collegati per via satellitare.
Tra le rovine di un tempio
e le pietre di un recinto sacro,
sempre, inesorabilmente,
con gli occhi inquieti
e con la pancia al sole,
sostano e dimorano le lucertole.