Alfredo Toma - Poesie

LA FAME

 

E’ come salire

una scala di pane

con un peso di fame sulle spalle

e senza uno scialle

per il freddo di patire.

Ad ogni gradino mi fermo per capire

il sostegno che recede

e divoro il passato

staccandolo col prensile piede,

mentre sosto un poco

per riprendere fiato.

Ora, appollaiato sull’ultima traversa,

ultimo pezzo di pane

e unghiato appiglio finale,

non ho più scampo,

né l’illusione della trappola inversa.

Se  con l’ultimo gradino

l’anima l’ultimo crampo

della fame scaccia,

in basso precipito e rovino.

Per allentare la morsa

ho camminato divorando

la strada percorsa

e ora dietro di me,

davanti a me,

insieme alla sua traccia,

disperso è il suo destino.

Solo qualche caccola sparsa

lungo i lati della inconsistente via

è la sola testimonianza

di questa solitaria farsa.


FORSE

 

Forse,      

se avessi detto la parola

che soltanto ora, nel dormiveglia,

sussurro,

se  t’avessi presa per mano

o posato il braccio sulla spalla,

se non avessi dimenticato di amare,

o dimenticato di sognare,

se  fossi stato diverso,

forse non mi sarei disperso,

inseguendo inconsistenze,

per cercare vie di uscita.

Tra chi non ho amato

e chi ho dimenticato di amare,

tra i paesi perduti

e quelli mai visitati,

ogni volta, come al supermercato

ogni scelta indifferente all’altra,

sono stato un io differente,

con un prezzo diverso da pagare.


LA RIVA

 

Sulla riva del lago

dai mille riflessi,

dallo scoglio levigato

del tempo assente,

il sasso lanciato,

invece di cerchi, quadrati

dilatava, a centinaia,

che piano ondulavano

galleggiando lontano.

Verso di me, distaccato,

con l’onda uno spigolo bagnato è arrivato.

Appeso a un ramo

per farlo asciugare,

si è innestato e, per decenni, è fiorito:

due odori perpendicolari

come il dentro e il fuori,

il desiderio d’altro,

come altri desideri.

 

Passato il tempo degli incanti,

della foresta dei rimpianti

lo spigolo secco ormai resta

e rigetto in acqua, obliquamente.

Eccoli allora, illuminati dalla luna,

i mille cerchi concentrici

del fascio reale,

sulla scura superficie del lago

spolverata dalla pioggia silente.

 

Non ci sono laghi al mio paese,

né scogli,

ma su quella riva, la sera,

quando il giorno annuncia un temporale

o guardo alla stagione inesplorata,

a volte ritorno,

ma il sasso lanciato non dilata

né cerchi né quadrati,

dissolti con l’onda il canto e l’incanto,

rimane la lenta notte profonda,

e l’aria immobile.


 

IL NIDO

 

Qualcosa che somiglia a un’ala d’infinito

in un arco dei tuoi occhi mi è parso di vedere

e quando si imposta per un solo istante

sulla soglia che conduce al centro della luce,

come una volpe lestamente si rintana

e nella fenditura s’annida il pipistrello,

così nell’ombra si serra l’anima mia,

ma, come lingua di camaleonte,

il mio cuore dal petto parte come una saetta.

Quando somiglia a un’ala d’infinito…

il pozzo dei tuoi occhi…il nido.


COL CAPO CHINO

 

Vorrei curare la mia voce al canto…

per cantare.

Ho passato la vita

con la speranza di cantare…

di cantare… di cantare.

 

Se non mi hai amato in gioventù,

vita cantata,

amami adesso, almeno.

E quando mi toccherà di partire,

che sia una sera d’autunno,

tiepida e senza vento,

con tanti vecchi intorno, e senza gioventù,

io che anticipo la morte del giorno

e i miei amici, muti, in giardino,

col capo chino.


IL POZZO

 

Il fiume che fu un ruscello

e una rete di rigagnoli

ora corre e poi lento scorre

tra le infinite mammelle della terra,

come un vecchio stanco,

visto dai vetri della finestra,

al di là della strada.

Infine, la sua meta:

il mare aperto e l’onda rada,

alle spalle un suono d’orchestra

e davanti la sua destinazione

non più segreta.

La distanza dalle cose del mondo

è un pozzo dove

l’acqua fresca è in fondo:

senza fune e senza secchio,

non ti disseta

e alla bocca puoi portare

solo l’erba di contorno.


 

LA VOCE DEL VENTO

 

E’ la voce del vento

il fruscio delle foglie secche del melo?

Ma il vento non ha voce,

neanche quando sibila di notte.

E’ la notte coi suoi grandi fianchi

che singhiozza cercando la luce:

anche quella delle finestre

che ad una ad una si chiudono

come occhi stanchi.

E così, quando il buio resta solo

intorno al melo

e alla mesta luna,

allora il vento, ladro senza voce,

tra i rami rovista e scompiglia

per rubare i resti del giorno.       


VORREI

 

Vorrei avere tutto il tempo

che mi serve per capire

se  ho perso il tempo

che  ho visto passare,

se mi son fermato a pensare

inutilmente

al tempo di domani,

che non ha colore,

a ripassare il tempo di ieri,

che non ha odore.

Ho giocato fin troppo con la vita

mai prendendola sul serio,

giorni mesi ed anni

senza scosse e senza affanni

se non quelle di una presa elettrica

o per lo sforzo di una salita.

Per il resto, son rimasto inconsapevole

dietro una macchina da presa

aspettando forse la sorpresa

di un segnale impressionante.

E in questo galleggiare

di flessioni e distrazioni,

ho sentito odori con gli occhi,

gustato amarezze con le mani,

ascoltato rumori con la lingua,

toccato ogni cosa con le orecchie.

Ho conosciuto la vita

attraverso le sere passate,

i tramonti fissati.

le albe non viste.

E poco o niente

che distingua

un corpo che respira

da un’anima che si ritira.


 

QUELLA VOLTA

 

Ho trascorso alcuni periodi

all’inferno:

quando ho avuto il cuore gelato

da un abbandono.

Altri periodi ho passato

in purgatorio,

ogni volta che mi son trovato

appeso a un ramo e deriso.

Ma non conosco il paradiso,

neanche visto da lontano.

L’unica traccia

sono quei fischi

alle mie spalle,

e in faccia,

quella volta

che ho alzato lo sguardo

verso la vetta dell’Olimpo.

Ora mi resta un disorientamento mentale,

e la sensazione

di guidare un carro

dalle ruote quadrate,

il giorno diviso

in quattro tempi piatti

che strisciano sull’asfalto colloso,

con gli spigoli e suoi brevi contatti

le uniche emozioni del cuore.



OMBRE DI TRAMONTO

 

Un mesto canto,

in lingua straniera

e sconosciuta,

è il tempo,

lento, come una sera

che si perde nell’ombra

appena mossa

da lontani rumori

di sottofondo.

Un canto rotondo

è il tempo,

circolare,

come un cielo profondo,

stellato nel deserto,

veloce come ogni tramonto

che si chiude a sera

dietro un sipario trasparente.     


 

L’INCOGNITA

La vita mi precede
come una strada che si perde
all’ingresso del bosco.
E’ inutile cercarle,
la vita e la strada,
tra le notti insonni
e l’erba che dirada.
Niente ventaglio per il caldo
né freno alla discesa.
L’incognita è nel binario
che dietro la curva scompare
o nell’uomo che sul marciapiede deserto
aspetta di vedere qualcuno arrivare?
Io che vivo incerto
e passo giorni ad aspettare treni,
tra l’attesa e appena al di qua della curva,
non so se sto dietro la vita
o inavvertitamente
da tempo l’ho superata,
senza accorgermi del sorpasso.


 

LA FINESTRA ILLUMINATA

Nella notte scura,
spruzzata di ombre furtive,
in una casa lontana
come una stella vive
una finestra illuminata.
Solo quella luce mi attrae,
per il mondo che c’è dietro,
che c’è dentro,
perché oltre la finestra
vedo un sogno perduto
e l’affollato tempio del passato.
Ho sempre sognato una vita di domenica,
io e il passato e il presente
e il futuro, contemporaneamente.
Ma dietro il ponte crollato
e nel buio sconosciuto
senza sostanza la notte mi appare
quando la finestra si spegne,
quando la luce lontana scompare.


 

FIORI DI CARTA

Un fascio di rose di carta
ho comprato per Natale,
che profumano di carta,
ma, passate le feste,
non avranno reclinato il capo
per odorare di morte.
Cadono ingannate le foglie
portate via dal vento.
Cade ingannata la notte
travolta dal tremolio dell’alba.


 

 

TESTAMENTO

Ho deciso
di fare testamento:
il tempo vi lascio,
tutto il tempo che non ho vissuto.
Finché lo possiedo,
ve lo lascio, perché,
come una grande ricchezza,
sperperarlo potrei, al gioco.
Giorni non ho,
né tenere notti,
memorie e ricordi
non hanno mistero,
persa a tressette
ogni speranza.
Solo il tempo che mi resta possiedo
e quello sfuggito di mano,
e vi lascio.


 

CE QU’ON DIT A PROPOS DES LIVRES

Dall’alta torre, Scilla innamorata
sassolini versava sulla roccia
dov’era posata la lira di Apollo
e dalla bocca di granito
suoni traeva e spargeva intorno,
come bolle colorate, con eco eterna.
Musica che esalta e deforma
scosse e travolse a Scilla il cuore
e lo infiammò d’amore per Minosse.
Quei sassi sonori ho cercato,
e l’antica impronta della lira sulla pietra
e la traccia dei sandali di Apollo:
come un cane da tartufo,
della musica fiutando l’odore,
con la zampa ho tentato
nel sottobosco delle alte cime
la flebile onda di una nota.
Ma sull’antica sacra sponda
soli son rimasti i fedeli sacerdoti,
chiusa e senza suono
han trovato la porta del tempio,
devastato il simulacro del dio
dai moderni sagrestani,
e un forno nella cella divina
per impastare mille libri al giorno.
Scesa dalla torre, ora Scilla,
con Empusa la puttana, ai trivi sosta
e seduce con occhi senza luce.
Lontana dall’alloro, ignota offerta,
la lira giace e senza sassolini.
Spanetta intanto il forno
mille libri al giorno
di pizzaioli improvvisati,
e in televisione prolificano
le nuove Accademie di Platone
dei direttori di giornale, presenti
o collegati per via satellitare.
Tra le rovine di un tempio
e le pietre di un recinto sacro,
sempre, inesorabilmente,
con gli occhi inquieti
e con la pancia al sole,
sostano e dimorano le lucertole.