Angela Gervasi

Poesie


Pioggia d’estate

Il cielo s’incupì, rombò sinistro,
e poi fu temporale con gran rabbia
di lampi e tuoni squarciator di nubi
e fitta fitta venne giù la pioggia,
cacciò i bagnanti, inzuppò la rena,
cancellò orme e castelli di sabbia,
smorzò il gran caldo, rinfrancò la terra,
ripulì l’aria, lucidò le foglie,
lavò strade, tetti, ingressi, soglie
e mi lasciò a guardare mogia mogia
dal mio riparo, stizzita e un po’ annoiata,
ché l’acquazzone estivo all’improvviso
mandò per aria la mia passeggiata.
Sperai che fosse di breve durata,
come la bella stagione prometteva,
ma fui io prima stanca di sperare
che Giove di borbottare e lacrimare.

 


 

Siesta

M’è dolce cosa starmene seduta
dietro la casa, bianca e solitaria,
guardare a tratti
la compagna muta,
la mia gatta, che lenta fiuta l’aria
e poi si riciambella sbadigliando
sotto i miei piedi
e tutto il mondo esclude,
torna a dormire e certo va sognando
di caccia e prede,
quando gli occhi chiude.
Sogno pur’io, guardandomi dintorno,
vedo armonia in ciò che mi circonda:
la siepe brilla
allo slendor del giorno
e quel verde riposo par che infonda;
dai gelsomini e dai gerani accesi
mi giunge l’olezzare inebriante
e i rampicanti lungo il muro appesi
riversano colore traboccante.
Le palme nane
ondeggiano al maestrale,
appena, ché son ben piantate in terra,
l’odore d’erba,
che dal prato sale,
m’entra dentro e chiaro
mi disserra l’anelito,
che in tutto m’apparenta
con la natura,
madre dal gran cuore
e perdermi
con aria sonnolenta
in essa bramo,
fuori dal rumore.

 


 

Ultimo attimo

Che limite c’è
all’offesa di un uomo?
La morte!
Non è poi l’estremo danno,
poiché il vinto,
che così soccombe,
nel trapassar la soglia dell’eterno
s’erge ad eroe
e il suo uccisor sconfigge.
Privarlo di certezze
e di valori,
ferirlo nell’onesto
amor di sé,
smarrirlo nella fede
verso i simili,
prosciugargli la fonte di speranza:
ecco il fondo più turpe
dell’offesa.

 


 

Invecchiare

Voglio diventare vecchia!
Non temo capelli bianchi, né rughe sul volto,
non pavento spalle curve, né incedere incerto.
Sarà bello vivere più adagio, quando la corsa cederà
al passo lento,
l’ansia alla rassegnazione,
il vigore alla dolcezza,
l’entusiasmo alla saggezza.
Sarà bello invecchiare,
ma insieme a te,
sentendoci dentro
i quindicenni innamorati
di tanto tempo fa.
Forse solo di ieri.
Grande fortuna è la vita,
compiuta nella sua interezza.

 


 

Cari pensieri

Il tempo ammucchia
ricordi.
In tanti s’affollano ormai,
la mente fatica a tenerli:
malessere
dell’età che avanza,
benessere,
forse, del cuore,
stanco di rimpianti.
Sempre presenti e vigili
però
occhi di bimbi sognanti
e piccole mani
protese all’abbraccio
m’appaiono innanzi:
caldi soli consolatori
per le rughe
del mio volto.

 


 

13 anni di Teresa

Ora che il tempo mi invecchia,
nei lunghi giorni di noia,
la mia mente si specchia
nei ricordi che mi danno gioia
e le mie rughe spianano in sorriso.
Ho 13 anni in questo dì di festa
e chiedo e ottengo il primo ballo
ambito, con pochi coetanei
e con quel dolce amico che non dico.
In casa, sgomberata una stanza,
il giradischi andava a più non posso,
coi twist e, soprattutto, con i lenti,
che, in una mattonella,
racchiudevano quattro piedi
in due corpi abbracciati
e mi sentivo dire ch’ero bella!
Primi palpiti, care emozioni,
gli stessi che oggi provi
per i tuoi 13 anni, anche se
ti scateni in altri balli,
con trenta e più compagni,
in una sala ch’è da me lontana
per vastità, per musica, per stile.
A te, che sei ragazza del tuo tempo,
i miei auguri di una vita leggera,
che sia bella e che a lungo duri!
Ma lasciami un momento accarezzare
quella bambina tredicenne che,
cinquant’anni fa, ebbe il suo primo ballo,
povero, semplice, non certo da sballo,
ma che le spalancò la felicità.

 


 

Compagna

La viltà del vivere, mi dicono,
mi cuce addosso una gabbia invisibile
di ansie,
mi inchioda a terra,
che volar non posso,
mi isola,
nelle mie mentali stanze,
da tutto e tutti:
sono un’incompresa, una stramba,
si sa, una fissata!
Ma non mi dolgo,
né certo mi pesa,
avermi per compagna scompagnata.

 


 

Isolato 38

E c’è ancora il giardino, ch’è una serra
per i bei fiori da man gentil curati,
ed il grande cortile che v’ha visto,
par ieri, bambini spensierati,
certo per gioco intenti a farvi guerra,
correndo intorno liberi e sudati.
“Pippo, Santino, Placido e poi Ambrogio”
le madri vi chiamavano a distesa
ed alla fine ognun tornava mogio
verso la casa: lo studio avanzava la pretesa
di avere a sé vostra attenzione tesa!
Ma quel cortile, stregone, v’aspettava
e presto tornavate trionfanti
perché il sapere appreso vi bastava
per esser bravi e per andare avanti.
E avanti andaste, lontano da quel posto
dove non ritornate quasi più:
diventare più grandi ha sempre un costo,
si paga in fantasia e in gioventù!
Io, che non sono cresciuta mai abbastanza
e che mi ostino a ricercare il sogno,
vado talvolta, spinta dal bisogno,
per vedere se oggi, alla distanza,
ancor si gioca nel cortile antico,
che ha il volto familiare di un amico.
“Marco, Luca, Veronica, venite,
la tivù dei ragazzi è incominciata,
e tu, Mirko, il computer è già acceso,
non va nel gioco tutto il tempo speso!”
Sì, di bambini ce ne sono ancora,
un po’ diversi forse, un po’ cambiati,
le mamme pure non sono come allora,
pronte al progresso, ai nuovi ritrovati.
Per fortuna, però, mago cortile
li attira raccontando la sua fiaba,
lui, che conosce l’animo infantile
e attende, senza fretta e senza rabbia,
di riempirsi di piedini lesti,
di vocine argentine, cinguettanti,
né teme il saltellar che lo calpesti
chè ha cuore aperto a sopportarne tanti!

 


 

La fuga

Penelope la dissi ed in quel nome
racchiudevo il destino che serbato le avea,
da sua signora,
di farla stare sempre a me vicino,
affezionata alla casa, alla poltrona,
dove passava ore sonnolenti,
sdraiata a pancia in su o acciambellata,
offrendosi alla vista dei miei occhi, beati
per la grazia gentile che emanava.
Della gatta io padrona? Fu follia!
Saper dovea che mai sarei riuscita
ad imbrigliar lo scatto di un felino,
che scappò via di casa un bel mattino,
punendomi così di mia stoltezza,
che più di bocconcini e cuscinotti
di vera libertà potè l’ebrezza!

 


 

Simili

Mio padre guardo
e in lui ravviso il figlio,
mio figlio, che sì tanto
gli somiglia, nei modi,
negli accenti, nei sorrisi
e fra il giovane e il vecchio
un ponte getto
che li unisca idealmente:
questo ponte è la vita.
Quella del padre
ormai quasi finita,
quella del figlio
tutta da inventare,
fortemente simili
per l’ironia leggera
che affiora sulle loro labbra
nell’incontrarla
e farsela compagna
ogni giorno che viene!