Anna Ferrazzano,

Poesie


Lo zio Umberto

Lo zio Umberto, fratello di mio nonno Filomeno, me lo descrivevano slanciato, di corporatura media, con spalle larghe, occhi verdi come il mare (tipici dei Ferrazzano), capelli mossi castani; aveva modi gentili e si relazionava agli altri con affetto e con delicata riservatezza; gli piaceva studiare le materie letterarie e leggere romanzi di avventura; era molto bello: le fanciulle del paese impazzivano per lui.
Aveva circa ventitrè, ventiquattro anni, all’epoca dei fatti che andrò a raccontare.
Da quasi due anni era fidanzato ufficialmente con una ragazza del paese, chiamata da tutti Sisina (Tommasina Pelosi): una ragazza alta, dalla bellezza austera e provocante. In famiglia, i genitori di lui inizialmente cercarono di ostacolare il fidanzamento perché a loro pareva che, il carattere riservato e forse un po’ timido di lui, non potesse collimare con quello sfrontato e un po’ ribelle di lei;
dovettero, però, accettare di buon grado per l’insistenza di lui il quale, invaghitosi della bella Sisina, si dichiarò follemente innamorato “E’ la donna giusta per me, io con lei sto bene e ci amiamo”.
Il loro amore era nato in maniera esplosiva un giorno che era la festa di S. Lorenzo, a Canale; lui era sotto al palco sul quale la
“Bandapiccola” intonava l’allegra tarantella serinese (adattata su musica di Rossini).
Lui stava tranquillamente gustando la “subretta”, tipico gelato che si fa a Canale con la neve della “nevera” (una grossa buca dove, con il ghiaccio, si conserva la neve), lo zucchero e il limone.
Sisina gli si avvicinò e, con tono malizioso e un po’ provocatorio: “Uè Umbè, lassa sta sta subretta e abballa cu mme”.
Si lanciarono in una sfrenata tarantella e, saltellando, sembravano dirsi:” Mi piaci ”- “Mi piaci”-“Ti amo”- “Ti amo”.
A quei tempi era impensabile una frequentazione assidua tra innamorati; non si poteva stare insieme da soli (oggi i fidanzati dormono insieme, vanno in vacanza insieme, vivono anche nella medesima casa…); occorreva tassativamente la presenza di un familiare: un genitore, uno zio, un fratello minore…
I due innamorati, comunque, avevano trovato il modo per incontrarsi almeno per pochi attimi da soli: quando lei si recava alla fontana di S. Lorenzo con un’amica, per attingere l’acqua o per lavare qualcosa in uno degli antichi lavatoi (peccato! Oggi il Comune li ha fatti rimuovere, erano così belli!), lui la raggiungeva percorrendo una sorta di sentiero impervio, ciottoloso (che oggi non c’è più), pungente a causa della folta vegetazione; da quel percorso lo zio Umberto poteva accedere dietro al muretto che sosteneva i lavatoi. Con la complicità di un’amica di lei riuscivano ad incontrarsi proprio dietro a quel muretto, lì dove pietre secolari potrebbero, ancora oggi, parlare di effusioni e languidi baci.
Quegli attimi di passione, riecheggiavano, con struggente nostalgia, la notte, nei rispettivi giacigli, una sorta di adrenalina irrorava tutte le parti dei loro corpi.
Purtroppo il loro folle amore, nato, forse, troppo in fretta, iniziò a dare frutti acerbi e indigesti: zio Umberto si ritrovava spesso a litigare con la sua Sisina che, spesso, si relazionava in termini prepotenti e forse anche un po’ aggressivi, con lui che aveva un carattere dolce e pacifico.
Un giorno, ai primi di ottobre, i due andarono con i genitori di lui alla selva di proprietà di questi ultimi, a raccogliere le castagne che ponevano nei rispettivi “panari”.
Umberto che era simpaticamente geloso, ebbe l’impressione che Sisina facesse gli occhi dolci – era capitato altre volte – e ammiccanti a un “parsonale”, un giovanotto di Volturara Irpina.
Quando si ritrovarono da soli lui le disse, a chiare lettere, che quel suo modo di fare, forse ingenuo e senza malizia, a lui non piaceva.
“ Ma che dici, tu suoffri e fantasia “ disse lei con tono di voce forte e risentito; gesticolando con le mani continuò:” Sta gelosia nun cià veru propriu, tu lo sai ca moru pe te”.
Bisticciavano spesso, sia nei pochi momenti in cui si trovavano da soli, sia davanti a chi controllava i loro incontri.
Forse i genitori di lui avevano ragione, i loro caratteri, molto differenti, non potevano collimare.
Umberto, i cui occhi verdi “parlavano”, incominciò ad essere sempre più nervoso e pensieroso; quella voglia matta ed irrefrenabile di vederla stava scemando, anzi era timoroso d’incontrarla.
Lui l’amava ancora, però si stava rendendo conto che Sisina non era, per lui, precisamente la donna giusta da condurre all’altare.
Un giorno, mentre la rugiada si adagiava triste sui prati, lui le fece recapitare, da un latore, una lettera in cui spiegava, con le parole più giuste possibili, i motivi per i quali il loro fidanzamento non poteva più avere ragion d’essere.
Gli occhi verdi e penetranti di zio Umberto, divennero sempre più spenti e fuggitivi.
Per svariati giorni, si rifiutò di uscire onde evitare di incontrarla; la intravide un giorno dal finestrone di casa, mentre andava alla fontana, con in testa la “secchia“ piena d’acqua, adagiata sul “curuocchio”, una sorta di panno arrotolato ben stretto che attutiva il peso e favoriva l’equilibrio.
“Sisina, ti amo ancora e non posso vivere senza di te” sussurrò, e, porgendo la mano destra sulle labbra, le inviò un amorevole bacio, accertandosi di non essere visto; Sisina sentì, probabilmente, sulla gota, un delicato soffio di vento che le accarezzò le guance?
Lo zio cadde in una profonda crisi esistenziale: da una parte la convinzione di aver preso una saggia decisione, se pur lacerante, dall’altra si ritrovava sopraffatto da un irrefrenabile desiderio di riabbracciarla, colmarla di baci e carezze.
Per un bel po’ di tempo se ne stette chiuso in casa; se ne stava steso nel suo letto in compagnia di fantasmi che gli si affollavano alla mente penetrando nel profondo della sua coscienza: vedeva la sua anima svuotata riflettersi, stanca, inutilmente, sulle pareti della sua camera da letto.
Dormiva molto poco e si alimentava anche poco, giacché gli era passato l’appetito e il gusto del cibo.
Un mattino, all’albeggiare, si recò alla fontana di S. Lorenzo per bere acqua pura e sorgiva, ma, soprattutto, con l’inconscio, struggente desiderio di incontrare Sisina che, solitamente, proprio a quell’ora vi si recava.
Giunto, nello scendere, al terzo scalino (rimasto impresso nella memoria dei Canalesi; (ancora oggi, da quache vecchietto/a si sente dire. “Il terzo, maledetto scalino”) un colpo di pistola lo colse di spalle, a sorpresa, lasciandolo esanime al suolo, giù a pochi passi da quella fontanella che scorreva immemore di ogni cosa; aveva gli occhi sbarrati di un verde ancora più intenso, quel verde mare, quando il mare si rotola nei flutti tempestosi.
Era rotolato per la scalinata e si era schiantato al suolo, in una pozza di sangue.
Sisina affrontò giusto qualche anno di carcere, giacché l’avvocato difensore (noto penalista di Napoli, incaricato dal facoltoso fratello di lei, “Vitiello”, Vito Pelosi), dimostrò che si era trattato di un delitto d’onore; all’epoca il disonore era considerato motivo valido per compiere un delitto.
In pratica Sisina era stata “sedotta e abbandonata”.
La pistola gliela aveva data proprio suo fratello “Vitiello”, giunto dagli Stati Uniti d’America – dove aveva fatto fortuna – il quale, nei giorni precedenti, le aveva fatto fare le prove per poter sparare a colpo sicuro a Umberto e “ lavare l’onta della vergogna”.
Sisina, quando uscì dal carcere, dopo qualche mese, convolò a nozze con un giovanotto di Canale e dalla loro unione nacquero due figli maschi.
Caro zio Umberto, quando porgo il piede su quel – terzo – scalino, provo un gelido brivido che mi percorre tutte le membra, sento le mie gote bagnate da una lacrima furtiva e recito sommessamente un eterno riposo. “Il tuo riposo sia tenero e gentile come il tuo modo di essere al mondo”.
Quei brividi penetrano fulminei in me, disegnando una sorta di strani geroglifici, incisi da una esperta e preistorica mano, a me ben nota: quella di Adalìn.
A titolo di cronaca: molti anni più tardi zia Teresa, sorella di mio padre (morta tragicamente, come spiegherò altrove), convolò a nozze con Raffaele Pelosi, figlio di Vitiello, quindi nipote diretto di Sisina.
Strani giochi del destino o tragica corrispondenza?

 


 

 

Zia Maria Antonetta

La storia di zia Maria Antonetta, sorella di mio nonno Filomeno, mi risulta non proprio facile da raccontare perché alcune notizie non sono in mio possesso, pertanto mi limiterò a scrivere ciò che so e ad immaginare, in qualche modo, ciò che mi è del tutto oscuro.
Cercherò di compenetrarmi, quanto più possibile, nel suo mondo interiore, nei difficili meccanismi che hanno favorito determinate situazioni e di affondare il pensiero nei tanti pregiudizi e tabù dell’epoca (ormai pienamente superati) con l’intento, anche, di riscattarne la figura, alla luce del tempo che è.
Se la vicenda fosse accaduta oggi, zia Maria Antonetta avrebbe denunciato, con il sostegno dei familiari, colui che l’aveva violentemente conculcata; oggi si sarebbe dovuto sottoporre all’esame del D.N.A. che avrebbe dimostrato, se fosse stato uguale a quello della nascitura, la paternità di una figlia concepita con un vergognoso, deplorevole, schifoso atto di violenza.
Quella vita di assoluta miseria ed abbandono, alla quale fu costretta, sarebbe potuta essere diversa; il nobile e ricco signore, sposato e con figli, che l’aveva posseduta con la forza, avrebbe dovuto riconoscere la figlia e sostenerla economicamente, per lo meno fino a quando non fosse stata maggiorenne.
La sua, forse, avrebbe potuto essere una vita serena, sia dal punto di vista pratico che affettivo.
Entrando nel vivo della storia, troviamo zia Maria Antonetta (sposata e madre di due figli: un maschio e una femmina) che andò per un periodo a fare da balia (“mamma di latte”) in una nobile, ricca e potente famiglia di Atripalda, un lavoro che proprio suo marito le aveva trovato, dal momento che a lui i soldi non bastavano mai.
Un giorno le fu chiesto di fermarsi anche a dormire a casa loro, perché dovevano partecipare ad un ballo in maschera e, ovviamente, non potevano lasciare i figli soli, considerando anche, che la governante, febbricitante, doveva starsene a letto.
Il nobile signore, padrone di casa, quella notte rincasò, insieme alla moglie, piuttosto brillo; la consorte salì per la lunga scala di marmo pregiato che conduceva in camera da letto, si spogliò del sontuoso abito e dei preziosi gioielli e, stanca, si coricò.
Lui, invece, si attardò al piano sottostante, in cucina, e canticchiando, bevve un bel po’ di quel vinello rosso spumeggiante, frutto del suo vigneto; bevve anche qualche bicchierino di rosòlio, preparato da sua moglie, fino ad essere ubriaco fradicio.
Non sappiamo se distrattamente, o di proposito, entrò nella stanza da letto posta sullo stesso piano, dove dormiva zia Maria Antonetta, in un caldo lettone a baldacchino: era sprofondata in un sonno profondo, adagiato su alcuni premurosi pensieri rivolti ai suoi figli, rimasti a casa con il padre per l’intera giornata: “Avranno mangiato? Avranno giocato con il papà? Lui avrà raccontato loro, come faccio io tutte le sere, qualche filastrocca o qualche racconto popolare?” e poi: “Saranno stati bravi?”.
In punta di piedi il nobile signore, tappandosi la bocca per non emettere alcun suono, si infilò nel letto di lei; tutto il resto lo si può immaginare.
Lei, a primo impatto credette di sognare ma, poi, sentì tanto dolore,
si rese conto che era tutto vero e cercò di respingerlo con tutte le sue forze, invano!
Quando lui ansimante e grondante di puzzolento sudore, si alzò dal violato giaciglio, con totale indifferenza, colmo d’orgoglio per l’impresa, andò via nella camera da letto al piano superiore, dove la moglie dormiva beata ed ignara.
La zia basita, tremante, schifata, impaurita e con dolori al basso ventre (sentiva la natura bagnata e, forse, lacerata e sanguinante), cercò di cancellare con un fazzoletto i segni di quel “peccato” non voluto e si vergognò immensamente, sentendosi responsabile dell’accaduto: questo è il sentimento che raccontano, anche in T.V., tutte le donne vittime di violenza.
Si alzò e, con le mani tremanti, si rivestì, prese le sue poche cose e scese rapidamente, con il cuore palpitante, per lo scalone in pietra viva che conduceva al portone d’ingresso.
Si ritrovò in strada, sola e disperata, sotto una luna piena sovrana, che stava a guardare maestosa e indifferente; a lei parve, invece, che furtivamente piangesse le sue stesse lacrime.
Camminò speditamente per un bel tratto, finché vide una carrozza con due signorili figure le quali, nel vederla, ordinarono al cocchiere di fermarsi; Maria Antonetta non raccontò nulla dell’accaduto e pur volendo, sentiva un blocco alla gola che le rimandava indietro le parole impedendole di proferirle.
Il signore e la bella signora, si offrirono di accompagnarla a casa.
Quella notte stessa, giunta a destinazione, con i suoi splendidi occhi verdi e vergognosi, abbracciò il marito agghiacciata, si sciolse in un lungo pianto e, singhiozzante, tutto d’un fiato, gli raccontò ogni cosa, cercando di rimandare indietro quel groppo alla gola che le avrebbe impedito di parlare; era certa che il suo amato sposo l’avrebbe capita, si sarebbe sicuramente compenetrato nella sua disperazione, l’avrebbe rassicurata, difesa e, soprattutto creduta sulla parola.
“ Sei una puttana, sto schifu ch’e fattu te l’e circatu”.
Emise un urlo bestiale, lanciò una sedia per aria e aggiunse:” Sei una zoccola, hai un giorno di tempo, ed è già assai, per lasciare questa casa, da sola, senza i tuoi figli che anna sta ccà, cu mme!”
La zia trovò ospitalità, per un po’, dalla perpetua di don Antonio (curato del paese nella frazione Ferrari, Serino) che era una sua cara amica.
Dopo circa un mese non si verificò il rituale, tutto al femminile, del sangue mensile e capì di essere gravida.
“Che cosa fare? A chi rivolgersi? Mamma e papà mi hanno fatto riferire che non vogliono assolutamente sapere più niente di me; per loro sono e sarò sempre la vergogna della famiglia”.
In seguito don Antonio le fece assegnare, dal podestà, una piccola ed umile casa popolare, dove lei andò ad abitare e dove partorì, con l’aiuto della “mammana”, la sua bambina, a cui diede nome Ines, la quale crebbe senza padre, né fratelli e sorelle, con l’unico sviscerato affetto di sua madre.
Il marito si accordò con il nobile signore che aveva violentato sua moglie, giurò che non avrebbe mai raccontato nulla della vicenda e il suo nome doveva restare anonimo. Ricevette da lui una cospicua somma di denaro che gli consentì, oltre che una vita agiata, di affrontare, con i due figli, un lungo viaggio per gli Stati Uniti d’America: di preciso dove? Non si è mai saputo!
I genitori della zia, i miei bisnonni, oltre a non voler più sapere nulla di lei, si rifiutarono di conoscere la piccola creatura innocente, disarmante, ignara di ogni cosa; decisero di diseredarla e con tono tassativo, imperioso, minaccioso diedero ordine perentorio al figlio Filomeno (mio nonno, l’altro figlio Umberto, era morto sparato, a tradimento, al terzo gradino della fontana di S. Lorenzo) che, assolutamente non doveva mai più vedere la sorella e dimenticare di averne una: sarebbe stato da loro maledetto per tutta la vita e , nel testamento, inserirono una clausola in cui si diceva che lui si impegnava a non donare, in seguito alla loro morte, nulla alla sorella della sua eredità; se lui non avesse rispettato tale importante clausola, tutto sarebbe dovuto essere donato alla parrocchia di Canale.
Una vecchietta che si riteneva saggia ed astuta, un giorno disse a zia Maria Antonetta: “ Si stata propriu na storda, si non evi rittu niente e ti stivi accorta nisciunu s’accurgeva e niente e nisciunu sapeva niente, mo stivi bona: tenevi marito, figli e pure e proprietà, si stata na stùpita, nun evi ricere a verità”.
La vecchia disse che anche altre amiche, sagge ed astute, avevano detto la stessa cosa confabulando con lei.
Zia, nel mentre le offriva una tazzina di ottimo caffè, la guardò a lungo in silenzio tra il serio e il faceto e non rispose nulla, poi cambiò discorso: “Che cosa hai preparato oggi per pranzo?”
Alla morte dei miei bisnonni, nonno Filomeno, che io personalmente, ricordo tenero ed affettuoso (sebbene alcuni lo considerassero piuttosto burbero per certi aspetti) si disinteressò totalmente della sorella, almeno così mi è stato detto.
Con il trascorrere del tempo, volle conoscere la piccola Inessa
(così veniva chiamata da tutti Ines)che aveva circa sei anni; mio padre, con la sua auto andava ogni tanto a prendere la bimba per farla stare un po’ con lo zio.
Lui, mio nonno, a volte, porgeva tra le piccole mani, qualche regalo in denaro (allora c’era la lira); quando divenne adulta il nonno le procacciava il lavoro: raccogliere le castagne nella selva di lui, fare alcune ore di pulizie in casa di famiglie per bene di sua conoscenza…
Inessa convolò a nozze con zio Adolfo (che si interessava di riparare le biciclette); i due andarono ad abitare con zia Maria Antonetta, nella piccola ed umile casa popolare di lei.
Zio Adolfo umiliava spesso la suocera e le rinfacciava sempre quel “fattaccio”, causa della loro miserabile vita.
Suocera e genero litigavano sempre per la medesima faccenda; zia Ines assisteva muta e timida, cercando di evitare traumi ai figli: Maria Teresa e Raffaele.
Mio nonno era proprietario di castagneti, frutteti e terreni coltivabili tramandatigli, in eredità, dal fratello del suo bis nonno, di nome Umberto.
Quest’ultimo aveva sposato una nobile e ricca signora vedova, senza figli, “ronna Ngiulina”, cioè donna Angelina; la loro unione non diede alcun frutto e il mio bisnonno, di nome Gabriele, come mio padre, già di condizioni relativamente agiate, alla loro morte ereditò tutti i possedimenti che poi, giunti prima a mio nonno, poi a mio padre, ancora si tramandano nella famiglia Ferrazzano.
Il mio bisnonno ricevette dalla cognata, oltre ad alcune selve e appezzamenti di buona terra, anche un palazzo gentilizio, di cui ancora oggi campeggia uno stemma di famiglia, posto sul massiccio portone di pregiato legno intarsiato.
Il palazzo è stato riedificato e sostituito da una bella palazzina con due appartamenti in cemento armato, costruita con criteri antisismici; a questa nuova costruzione si accede regolarmente dalla strada principale; comunque c’è ancora la corte, dove si erge il maestoso portone con lo stemma gentilizio, da cui sarebbe anche possibile accedere.
Nel palazzo gentilizio siamo nati: mia sorella Vincenza, mio fratello Filomeno ed io, Anna.
Tutte le domeniche, o quasi, con Luigi si va alla chiesa di San Lorenzo per ascoltare la santa Messa; la chiesa si trova proprio di fronte alla fontana omonima, da dove si può vedere “il terzo, maledetto scalino”.
Ogni volta che passo dinanzi alla nuova costruzione, guardo le finestre chiuse e, come in una sorta di moviola, rivedo i tanti momenti belli e spensierati, trascorsi durante l’infanzia; avevo cinque anni quando ci trasferimmo a Salerno e al paese tornavamo spesso per le festività e durante le vacanze estive: quel piccolo borgo mi piaceva tantissimo ed ero sempre stra felice di ritornarvi.
Nonno Filomeno, negli anni, ha subito svariate disgrazie: l’omicidio del fratello Umberto, la morte di un figlio piccolo di nome Gerardo, poi la perdita della prima moglie, nonna Vincenza, mamma naturale di mio padre, la quale decedette nel percorso di una gravidanza difficile.
Il nonno si risposò con la cognata, Anna (che io chiamavo nonna Nannina), sorella della moglie deceduta, anche lei vedova, ma senza figli.
Nacquero, in seconde nozze, tre figlie: Vincenza, Maria, il cui gemello morì dopo tre giorni, e Teresa.
La prima trapassò ad altra vita, all’età di vent’anni anni a causa di un male all’epoca incurabile; sulla bacheca che esponeva i risultati del concorso magistrale, si poteva leggere a chiare lettere: Ferrazzano Vincenza: deceduta.
In un tiepido mattino i raggi di un caldo sole rapirono quel giglio favoloso che chiuse dolcemente i suoi splendi occhi verdi; col suo bell’abito bianco andò via lasciando ovunque un indefinito profumo di umide violette appena colte.
Al funerale si intravide quel giovane di Ferrari a cui aveva promesso ufficiosamente il suo amore, piangere come un bimbo a cui era stato strappato un qualcosa di molto, molto prezioso.
A questa zia che non ho mai conosciuto ho dedicato una poesia (finalista al premio internazionale città di Gozzano), inserita nella silloge edita: Vita e poesia.

 


 

 

Dolore allo specchio

Quando sei morta io non c’ero ancora
ma ti conosco,
ti conosco bene dai racconti di mia madre,
dal dolore immerso negli occhi di mio padre.
Io ti conosco tra le rughe di mio nonno,
dai suoi silenzi strani,
dal suo dolore muto,
dal suo saper sviare il tuo nome, il tuo ricordo,
dalla sua camicia nera,
ch’era ormai la pelle
sua vera.

Cara zia io ti conosco,
eri giovane, eri bella
coi tuoi capelli neri,
con quegli occhi come il mare.

Avevi solo diciott’anni,
avevi i sogni
e l’amore dentro al petto.

Ma quel morbo
senza rispetto
di te s’innamorò:
rubò i tuoi capelli neri,
rubò il mare nei tuoi occhi,
ti rubò quel corpo bello
e ti fece sua sorella.

Un mattino c’era il sole,
pure lui s’innamorò
il suo raggio antico e puro,
lontano ti portò. . .

ma il tuo anelito d’amore
si fermò sopra al soffitto,
tra le mura, il pavimento,
sopra i tetti, sui balconi,
sugli oggetti della casa,
quella casa
che ancora ti aspetta.

La terza figlia, Teresa, trapassò molti anni più tardi, quando suo padre, mio nonno, non era più in vita.
Zia Teresa portò, nel partire per un lungo viaggio, anche il suo secondo figlio, il piccolo Vito (l’altro, per fortuna, non era in casa ma a scuola) e l’amichetto di questi, Vittorio.
In pratica ci fu lo scoppio di una bombola di gas, almeno così risultò dalle perizie e dagli accertamenti giudiziari; il valente e noto avvocato penalista, zio Giovanni Battista Ferrazzano_- zio Tittino – cugino di papà, dimostrò che si era trattato di una inevitabile tragedia e che non sussisteva alcun dolo da parte di qualcuno.
Sono certa che nonno Filomeno, da lassù, assistette impietrito a quella ennesima disgrazia che ancora colpiva la famiglia Ferrazzano; il giorno del funerale, il venticinque dicembre 1971, mi sembrò di udire, mentre si seguivano i feretri, muti e a passi lenti, calpestando un tappeto di neve fresca, un fortissimo urlo di lancinante dolore, come quello che avevo sentito un giorno mentre ammazzavano il maiale che i miei avevano cresciuto con tanta cura: quell’urlo di disperazione, era proprio quello di nonno Filomeno, io lo sentii pienamente, e non solo con le orecchie.
Quando mancò zia Vincenza, il nonno per molto tempo, si isolò in una sorta di soppalco chiuso (“a suppigna”) a cui si accedeva dalla cucina, attraverso una botola con annessa, lunga scalinatella di legno; per svariati giorni, si rifiutò di mangiare e forse anche di bere.
Da allora prese ad indossare, in qualsiasi occasione, solo camicie e cravatte di colore nero, segno di un lutto infinito; il nonno aveva sulla gota destra, una profonda ruga che a me, già da bambina, non è mai sfuggita: quella ruga raccontava un profondo dolore, una storia di cui lui non parlava assolutamente mai, ma che serbava gelosamente nel profondo del suo lacero cuore.
Ricordo bene che zia Maria Antonetta, quando nonno Filomeno era via per tutto il giorno (per affari relativi al commercio agricolo), di nascosto, veniva a casa nostra (l’andava a prendere mio padre con la sua auto) e si fermava a pranzo da noi insieme alla figlia Inessa. Poi, quando papà la riaccompagnava a casa, riempiva il porta bagagli di viveri, tra i quali, a volte, nascondeva una busta contenente del denaro e nonna Nannina (Anna) le dava sempre il pane da poco sfornato.
Credo che nonno, inconsciamente avesse sentore di questi movimenti, perché capitava sempre più spesso che andasse al mercato, anche quando non c’era una vera necessità.
I miei genitori, entrambi insegnanti, soffrivano del fatto che nonno Filomeno avesse del tutto rimosso dalla sua vita la sorella e facevano, quanto possibile, per convincerlo a voltar pagina e riallacciare i rapporti con lei.
Forse, io che ero ragazzina, se avessi all’epoca saputo, avrei potuto parlare affettuosamente con il mio adorato nonnino che a noi nipoti voleva un bene immenso, e, forse, sarei riuscita a convincerlo a mutare atteggiamento e donare alla sorella quell’affetto che lui, vi assicuro, era capace di dare.
Ho un vago ricordo di zia Maria Antonetta: una vecchina sempre vestita di nero, delicata, di media statura, con gli occhi verdi scintillanti, vispi ma sempre un pochino malinconici.
La zia trapassò all’età di settantatré anni in un letto del vecchio ospedale di Solofra, mentre la sventurata figlia, Inessa, era impegnata per le pulizie a lavare l’androne di un antico palazzo.
Prima di esalare l’ultimo respiro certamente rivolse il suo pensiero alla figlia Inessa e ai due figli, Pasquale ed Angela, che vivevano in America con il padre e di cui non ebbe mai notizie; ripensò ai suoi disgraziati trascorsi e si abbandonò dolcemente tra le braccia di un angelo che le sussurrò, amorevolmente:” Vieni, troverai finalmente la pace, vivrai in un mondo più giusto e più bello!”
Sulle ali di un rinnovato, dolce pensiero, partì per un luogo molto lontano, a me ancora sconosciuto.
La zia diceva spesso ad Inessa: “Se fosse stato in vita mio fratello Umberto, sono certa che mi avrebbe compresa e sostenuta, la mia vita sarebbe stata diversa! Lui mi voleva un sacco di bene!”.
Io personalmente sono rimasta esterrefatta del comportamento assunto da nonno Filomeno nei confronti della sorella.
Io, che lo ricordo buono, amorevole, affettuoso, non riesco a capire.
Mah! Troppe sono le cose non dette, le verità nascoste, ciò che non possiamo del tutto comprendere di questa storia.
Forse nel percorso della nostra vita, ci sono momenti in cui una traiettoria lineare, assume un percorso sbagliato e fuori luogo; un meccanismo legato, evidentemente, ad una sorta di fragile filo del destino, un ingranaggio innaturale che soccombe e travalica i nostri pensieri, i nostri respiri, i nostri soliti modi di essere e di fare.
Quando in età molto avanzata, è morta zia Inessa, mentre ognuno in silenzio pregava intorno al feretro, ricordo che una giovane signora chiese alla nuora della defunta, con voce squillante: “Ma non capisco, come mai Inessa portava lo stesso cognome della madre, Ferrazzano?”
Colsi la nuora un po’ in imbarazzo e risposi, con estrema calma e risolutezza: “Semplice, la madre di zia Inessa aveva sposato un lontano parente che portava il suo stesso cognome”, la signora, semplicemente, tacque.
Non riesco a capire come una persona, in un momento così doloroso, possa preoccuparsi della faccenda del cognome, mah! A volte noi esseri umani siamo proprio strani!

LA CADUTA E LA RISALITA
Nel mese di aprile del 2021, sono caduta da un marmo posto sul forno della cucina, su cui ero (forse imprudentemente) salita per completare la pulizia dei pensili; se fossi caduta con la testa, a detta del medico, sarei sicuramente trapassata nell’altrove, senza neppure un vero funerale a causa della Pandemia – dovuta al Coronavirus – che vieta ogni forma di assembramenti.
Per molti mesi precedenti la caduta, sognavo spesso di precipitare da un grattacielo o da una lunga scalinata; forse segni premonitori?
Sono stata ricoverata in ospedale dove mi praticavano le flebo per calmare i lancinanti dolori e le siringhe sulla pancia per scongiurare l’alto rischio di trombosi; nel reparto in cui mi trovavo, c’erano tutte persone molto più anziane di me e anch’io mi sentivo come una donna di novant’anni (ne avevo sessantasei appena compiuti), con le stesse paure e le medesime esigenze; c’erano per lo più vecchietti/e che continuamente si lamentavano specie di notte, parlavano da soli/e a voce alta, scambiando il giorno per la notte e viceversa.
“Signora, domani la operiamo in anestesia locale, il suo femore destro è fratturato in mille pezzi, quindi le impianteremo una protesi di titanio, un intervento ormai diventato di routine ma, come tutte le operazioni chirurgiche, anch’esso comporta dei rischi, quindi deve firmare il suo assenso, l’intervento durerà non più di un’ora e mezza, due ore”.
In ospedale nessuno, neanche i familiari più stretti, poteva venire a trovarmi (anche per il ricovero partii da sola sulla barella della Misericordia e fui sottoposta subito a tampone), l’unico conforto erano le video chiamate (con mio marito, i miei figli e i miei splendidi nipoti) e le telefonate per sentire una voce amica.
Sono stata ricoverata dieci interminabili giorni, in una stanzetta da sola: un po’ di compagnia mi veniva dal piccolo schermo della T.V.
Gli infermieri, tranne qualche mosca bianca, erano tutti gentili, cordiali, professionali, almeno in quel reparto di ortopedia dell’ospedale Moscati di Avellino; si prodigavano con amore per tutti, specie per i più vecchietti; credo che a queste figure sanitarie si debba la nostra gratitudine, riconoscendone la dedizione, quasi eroica, in tempo di Pandemia: rischiano in prima persona, il pericolo di un contagio, spesso mortale.
Sono ritornata a casa con l’ambulanza, sola, così come ero partita; trovai mio marito Luigi, mio figlio Francesco, mia nuora Patrizia e la mia bella nipotina di sette mesi, Annalisa (ha il mio stesso nome) che mi abbracciarono forte ed applaudirono al mio arrivo.
Mia figlia Antonella, che vive in Calabria, mio genero Massimo e i miei nipoti Gianluca e Martina, li ho rivisti dopo tre mesi, quasi a guarigione avvenuta, giacché erano vietati gli spostamenti tra regioni.
Luigi, a modo suo, seguendo le mie istruzioni, faceva un po’ di tutto: preparava da mangiare, ripuliva la cucina, metteva la lavatrice e stendeva i panni….
Sono rimasta per un bel po’ immobile nel letto, ho fatto più di quaranta siringhe sulla pancia; poi ho camminato per più di un mese con il girello “Guardatemi”, dicevo, “Sono ritornata una bambina che muove i primi passi nel girello”; lo dicevo a mio marito, a mio figlio, a mia nuora (che spesso mi mandava il pranzo e/o la cena) ma a nessun altro perché erano proibite le visite a casa e poi, se qualcuno voleva venire a trovarmi, io stessa dicevo:” No, stai a casa perché uscire è pericoloso”, eppure avrei tanto voluto la compagnia di una persona amica.
Per quasi un mese, poi, ho camminato con le stampelle; a casa veniva il terapista incaricato dall’A.S.L. che, gradualmente mi ha rieducata ad usare le mie gambe camminando con le stampelle per alcuni tratti, scendere e salire per le scale con quei sostegni.
Ho sofferto di solitudine e di noia, una noia che smorza il cuore e il respiro; trascorrevo il tempo tra il letto e il divano, davanti alla T.V., giacché occorreva ancora un lungo intervallo affinché potessi uscire di casa e/o guidare l’auto.
La mattina mi svegliavo con un senso soffocante di vuoto in gola, un senso di smarrimento, a volte sentivo in petto come una bomba che doveva di lì a poco scoppiare, a volte sentivo anche una corrente elettrica invadermi il corpo.
Quando mi svegliavo all’alba, mi toccavo per vedere se ero ancora viva o se per mia fortuna o sfortuna, fossi volata in cielo “Oh! “dicevo con rammarico, “Sono ancora viva, il mio cuore ancora batte, le mie membra sono attive, oggi sarà un altro giorno inutile, noioso, interminabile, speriamo faccia presto sera”.
La mia vecchia amica “depressione” venne presto a farmi visita, così, all’improvviso, in un giorno cupo e piovoso; ero diventata inappetente, mi sentivo vuota, inutile, dipendente dagli altri, non avevo assolutamente voglia di uscire, neanche quando mi fu detto di poterlo fare.
Vedevo la mia anima svuotata riflettersi in un tempo senza tempo, in uno spazio senza spazio, in un futuro stupido, sospesa come una foglia al vento disposta a staccarsi quanto prima.
Nel tunnel buio in cui ero silenziosamente sprofondata, come in un non comodo divano, non ritrovavo neanche per un attimo il desiderio o la voglia di un impegno a me molto caro: lo scrivere!” Che cosa scrivo? Che cosa ho da dire? A che cosa serve? Nulla serve a nulla!”.
Non avevo neanche un briciolo di ispirazione né letteraria, né poetica e tutto mi pareva inutile e senza alcun senso: era un non vivere nel vivere.
Forse la mia musa ispiratrice, ebbe compassione per me e in un giorno tiepido e luminoso, bussò e parlò al mio cuore: “Prendi la tua bella bic nera e un foglio bianco: inizia a scrivere ciò che ti passa per la mente…io guiderò la tua mano”.
Ho iniziato a scrivere e, tra una parola e l’altra, spesso ancora odo il respiro di Adalìn che mi effonde, come un gustoso elisir, l’impulso irrefrenabile di tracciare i grafici giusti per comporre parole, e poi frasi.
I miei nipoti mi hanno dato la carica giusta per ritrovare la voglia di vivere, di ridere, di uscire, di incontrare volti nuovi, di guidare l’auto, di abbracciare Luigi con slanci giocosi.
Non nascondo che ho anche fatto una cura per superare la depressione, cura che ha dato ottimi risultati, dopo circa un mese; io, comunque, resto della convinzione che in primis i miei adorati nipoti siano stati l’input più valido e birichino, più utile alla mia guarigione.
Nonostante oggi ci sia la possibilità di scrivere al computer, il mio modo di comporre resta legato alla scrittura con la penna (quella nera, più elegante) che mi consente di scrivere di getto, proprio come piace a me; quindi ogni mio lavoro, che potrebbe essere molto più velocizzato con l’uso delle nuove tecnologie, comporta un doppio o triplo lavoro: prima scrivo di getto (con una grafica rapida e forse poco chiara), poi ricopio con una scrittura meglio definita, onde consentire a “Pierino” (il prof. Pietro Pelosi, mio eccellente maestro) di operare una sorta di “supervisione critica “; successivamente digito al computer, per poi passare alla fase di pubblicazione vera e propria.
Lo scrivere è sempre stata la mia passione, la mia linfa vitale che che desidera infiggere le radici nel tempo, quello migliore.
La Pandemia, che ha colpito il mondo intero, non è ancora del tutto passata. Io, personalmente, essendo ancora convalescente, sono andata a fare il vaccino sulla sedia a rotelle, ritenendolo necessario per me stessa e come un dovere civico; certamente sottoporsi alla vaccinazione è di per sé un rischio ma rischiare di infettarsi e di infettare, mi è sembrata un’ipotesi da scartare.
Nel mio paese, Serino, sono decedute più di dieci persone tra le quali vari amici e un cugino di Luigi, a cui era molto legato.
A Canale di Serino anche Virgilio Polifonte ha spiccato il suo volo, a causa del terribile “Coronavirus”.
La messa a Canale, da quando lui è dipartito, non è più proprio la stessa, nonostante la bravura di don Gianluca nel celebrarla e nonostante la sua encomiabile ed impareggiabile omelia; Virgilio suonava l’antico organo a canne e cantava brani religiosi da sopra al soppalco posto nella controfacciata della chiesa.
La sua musica e il suo canto armonioso e melodico rendevano più solenne la funzione religiosa e riuscivano a penetrare l’anima e porla a diretto contatto con Dio sacramentato.
Noto che, a volte, don Gianluca guarda proprio lì dove era posizionato Virgilio, aspettando che suoni e canti, ma Virgilio tace e lui allora intona il brano con la sua voce comunque intonata, senza accompagnamento musicale.
Caro amico Virgilio, ti auguro di suonare e cantare sereno lì nell’altrove, tra uno stuolo di angeli festosi.
Che dire delle strazianti immagini viste in T.V.: migliaia e migliaia di bare infilzate in camion dell’esercito: persone morte sole, tra tubi e tubicini, persone che non erano più persone, individui morti quasi nell’anonimato, storie di uomini e donne, vecchi e giovani che mai sapremo, bruciati e riposti in un rozzo contenitore, emblema di un eccidio che richiama antichi e tragici momenti della storia.
Speriamo che tutto passi al più presto!