Annunziata Brandoni - Poesie

Speranza

 

Piovono lacrime dal cielo grigio,

senza uno spiraglio di luce.

Piove sulle strade deserte, 

sui parchi vuoti di bimbi vocianti, 

sulle bare in fila 

verso cimiteri distanti.

Piove sui nostri cuori

spezzati e sanguinanti  

e ogni goccia aggiunge 

una nuova croce.

Piove su noi, 

che non abbiamo più voce.

Piove, ma una lama di luce 

sbuca improvvisa dalla coltre scura,

lasciando intravvedere uno squarcio d’azzurro: 

tra poco la pioggia sarà finita.

Una voce da un terrazzo intona

un inno alla vita.


I luoghi del cuore

Ci sono luoghi dove non sei mai stato,
ma che ti sembra conoscere da sempre.
Ci sono luoghi mai visti
neanche in cartolina,
ma che sono impressi nei tuoi occhi,
più vivi e veri dei luoghi
che ti hanno visto nascere e crescere,
bambina e donna.
Sono i luoghi del cuore,
quelli sempre sognati e amati.
Li riconosci d’improvviso,
e ti vien voglia di piangere
per la felicità
di aver finalmente trovato
quel che cercavi.


 

A mia madre

 

Primo giorno della stagion novella:

profumano in giardino le viole,

si schiudono al sole le giunchiglie, 

vedo volar la prima rondinella.

Il cielo terso, l’aria frizzantina, 

mi riportano a quando ero bambina.

Ricordi, mamma?

Ero molto piccina, 

quattro anni circa,

tu sedevi davanti al focolare:

le fiamme danzanti sui tizzoni accesi

ti illuminavano il volto dai tratti distesi.

Un fotoromanzo in mano, 

lo sfogliavi attenta

cercando di capire dalle immagini

gli amori, i tradimenti, i dolori.

Non sapevi leggere le parole 

dei tuoi personaggi del cuore.

Nessuno ti aveva insegnato,

in quei duri tempi del fronte.

Ma tu soffrivi per non aver imparato.

E, con negli occhi la speranza, mi dicevi: 

<<Quando finalmente andrai a scuola,

sarai tu a leggermi ogni parola.>>. 

E io che non vedevo l’ora 

di sedere accanto a te

a darti le risposte che cercavi, 

all’asilo, invece di giocare, 

stavo con le alunne di prima

perché volevo fortemente imparare.

Mi consideravano un piccolo genio,

una bimba precoce e dotata.

Ma io imparai a leggere così presto per te,

per vederti finalmente contenta di capire

quelle storie d’amore 

come andavano a finire.

E ora, ne sono certa, in quel paradiso

che ti sei con i sacrifici meritata,

c’è un angelo dalle ali candide 

seduto accanto a te

a leggerti una bella storia d’amore

che ti riscalda il cuore.


Sofia

 

Ho visto la felicità sul volto di Sofia:

una gioia pura, che la fanciulla trasmette

a chi le si avvicina addolorato

per il male che la vita

a piene mani le ha donato.

Sorride a quel mondo che non le è dato vedere.

A quelle corse sui prati che le hanno rubato.

Alle nuvole e al vento, al cielo azzurro,

al sole che il viso le ha riscaldato.

Sofia ama la vita dalla sua carrozzina.

È felice di essere tra le persone care.

Mai una lacrima, un broncio…

Quanto abbiamo da lei da imparare! 


Tristezza

 

Mi rattrista veder sfiorire la rosa

dopo solo tre giorni di splendore:

i petali bramosi di vita

ora afflosciati e spenti

sul gambo irto di spine.

 

Mi rattrista veder spegnersi il fuoco

dopo averci donato il suo calore:

la fiamma rossa e ardita

in un baleno si muta

in fredda cenere grigia.

 

Mi rattrista veder finire il giorno

dopo ore di sole e vigore:

la luce da rossa si fa sbiadita

e dietro i monti azzurri 

pian piano se ne muore.

 

Mi rattrista veder finire una storia

nata e vissuta con amore:

dopo la passione ardente svanita,

parole non dette, noia,

o peggio rancore.

 

Mi rattrista vedere spegnersi la vita

nel volto amico invaso da pallore:

il respiro ansante fatica

in cerca di una parola

che non fa in tempo a dire.

 

Mi rattrista guardare il calendario,

vedere scorrere i giorni e le ore,

accorgersi che gli anni sono volati:

non ho più tanto tempo

e ancora mille cose da fare.


Piove

 

Nella notte nera, senza stelle,

lacrime grondano dal cielo,

risuonano sull’asfalto.

Strisce d’acqua d’argento

tagliano la luce fioca del lampione.

Improvvisa saetta trafigge

il cuore del buio,

lampo di luce che rischiara la notte.

E il rombo del tuono

scuote le case addormentate.

Sagome intabarrate, senza volto,

camminano veloci sotto il diluvio:

cercano inutile riparo

sotto terrazzi e gronde,

scarpe sguazzano nelle pozze.

Anche il mio cuore piange:

lacrime di pioggia amare

rigano il volto triste.

Note di una vecchia ballata

accompagnano i passi lenti.

Non corro a ripararmi.

La pioggia penetra nelle ossa,

avvolge di un velo acqueo

i cupi pensieri. 

E io mi fondo lentamente in essa.


L’attesa 

 

Il rombo di un tuono rotola lontano

nel silenzio del borgo che attende la tempesta.

Una saetta di fuoco, un’altra ancora

squarciano il cielo gravido di pioggia.

Un gabbiano spaventato sbatte le ali bianche

cercando di tornare alla riva.

 

Il mare scuro e immobile, senza voce,

sogna le barche dalle vele chiare,

le voci, i giochi in acqua, le risate dei bimbi

e i richiami delle madri preoccupate.

Sogna e spera che dopo la tempesta

si ritorni presto alla vita.

 

Siedo sulla spiaggia deserta,

mi chiedo quanti amici non rivedrò

in questa estate del Corona virus.

Un brivido di freddo mi percorre la pelle nuda,

penetra nell’anima ancora colma di spavento.

Come il gabbiano, anch’io cerco la vita.


Poesia in dialetto 

 

La vita e il bowling

 

Sopra ‘na strigia roscia ditta cursia,

‘na decina de birilli tutti in fila

Stanne come soldati sull’attenti:

un ragazzo c’ha ‘na boccia nte la ma’,

è un po’ curvo, la faccia seria,

e me pare ch’è pronto a tirà.

Slonga infatti il braccio, po’ se ‘ndrizza

lassando ‘ndà la boccia tutto d’un botto.

Quessa ria davanti ai birilli, li tocca

e tre nte la buga ne fa cascà.

Culaltri sgrullene un po’

ma rmanene in pia.

 

<< Perché quelli scì e culaltri no?

Chi li sceie e perché?

C’enne calche strategia?>>

Po’ penso e me risponno:

<< Nun c’è nisciuna regula fissata,

se tira la boccia a caso:

ndo chiappa chiappa

e quelli ch’è toccati vanne via,

giò, drento la buga nera

e j’altri invece no:

nun sai mai a chi tocca

e quanti ne fa cascà ogni volta>>

 

El buling alla vita de no’ cristià se arsumeia:

el destino è la boccia e no’ i birilli

che devene cascà,

nun sapemo quanno, 

se de bon’ora o tardi,

d’estate o al primo dell’anno.

Nun se pò fa’ gne’, in un baleno

la vita che c’è diventa c’era.

El destino nun guarda in faccia a nisciù:

se sei ricco, famoso o un poro ca’,

se sei giovane e devi ancò fenì de studià,

o sei vecchio, malato e stufo de campà.

Se lassi un fiolo che deve ancora cresce

E c’ha tanto bisogno de te,

‘na moie che piagne sopra ‘l vestito da sposa,

sa i regali de nozze anco’ da scartà,

‘na madre e un padre che se dispera:

 cul  bagio in fronte che nun t’hanne potuto da’.

 

Cuscì è la vita nostra. E allora, gente mia,

finché spettamo la boccia che ce ria,

lassamo perde l’odio, el rancore, l’invidia,

nun ce rabbimo più pe’ na partita persa, un rigore non dato,

pe’ quello che c’ha visto, ma nun c’ha salutato,

pe’ culia che credevi amica e invece t’ha fregato.

Vulemose sempre be’, invece, famo i boni,

e quanno la boccia ria nun disperamo,

pensamo ai giorni, pochi o tanti che sia,

ch’emo vissuto quaggiò come a un regalo:

la vita vissuta, le persone care, le speranze, l’amore.

Chiudimo j’occhi, un suspiro e tornamo al Signore

 

 

 

 

Traduzione

La vita e il bowling

Sopra una striscia rossa detta corsia,

una decina di birilli tutti in fila

stanno come soldati sull’attenti:

un ragazzo ha una boccia in mano,

è un po’ curvo, il viso serio,

e mi sembra che si accinga a tirare.

Allunga infatti il braccio, poi si raddrizza

E lascia partire la boccia tutto ad un tratto.

Questa arriva davanti ai birilli, li tocca

E ne fa cadere tre dentro la buca.

Gli altri traballano un poco,

ma restano in piedi.

 

<<Perché quelli sì e quegli altri no?

Chi li sceglie e perché?

C’è dietro a tutto qualche strategia?>>

Poi rifletto e rispondo a me stessa:

<<Non c’è nessuna regola predefinita.

Si tira la boccia a caso:

dove prende prende

e quelli che vengono toccati vanno via,

giù dentro il buco nero,

e gli altri invece no:

Non si sa mai a chi tocca

e quanti ne farà cadere ogni volta.

 

Il bowling assomiglia alla vita di noi uomini:

il destino è la boccia e noi i birilli

che dobbiamo cadere

non sappiamo quando,

se presto o tardi,

in estate o il primo giorno dell’anno.

Non si può fare niente, in un batter d’occhi

la vita che c’è diventa c’era.

Il destino non guarda in faccia nessuno: 

se sei ricco, famoso, o un poveraccio.

Se sei giovane e devi ancora terminare di studiare

O sei vecchio, malato e stanco di vivere.

Se lasci un bambino ancora da crescere

e che ha tanto bisogno di te,

una moglie piangente sopra il vestito nuziale,

con i regali di nozze ancora da aprire, 

una madre e un padre che si disperano:

quel bacio in fronte che non hanno potuto darti.

 

Così è la nostra vita, e allora cari miei,

finché attendiamo la boccia che arriva

lasciamo perdere l’odio, il rancore, l’invidia.

Non ci inquietiamo più per una partita persa, un rigore non dato,

per quello che ci ha visto, ma non ci ha salutato,

per quella che credevi un’amica e invece ti ha ingannato.

Vogliamoci sempre bene, facciamo i buoni,

e quando la boccia arriva non disperiamo:

pensiamo ai giorni, pochi o tanti che siano,

che abbiamo trascorso quaggiù come a un regalo:

la vita vissuta, le persone care, le speranze, l’amore.

Chiudiamo gli occhi, un sospiro e torniamo al Signore.


Lettera aperta alla mia bambina

 

Ciao, amore!

Ti scrivo per dirti che, nonostante tutto, sei sempre la mia bambina. Quella che con il cuore pieno d’amore ho stretto tra le braccia quindici anni fa, appena venuta al mondo: un pulcino bagnato e indifeso che aveva bisogno di tutto.  Quella che mi guardava con gli occhioni sgranati mentre succhiava avidamente il latte dal mio seno. Quella che muoveva i primi passi cadendo in continuazione sul sederino imbottito da un pannolone più grande di lei. Quella che anno dopo anno cresceva sotto i nostri occhi di genitori attenti: una bambina bella e sorridente, che mi divertivo a vestire con gli abitini più esclusivi, quasi fosse la mia Barbie. Quella che il tuo papà non ha avuto scrupolo di abbandonare per inseguire un sogno che non ti vedeva partecipe. Quella che mi consolava quando avevo tanta voglia di piangere, dicendomi: “Mammina, ci sono io con te!”

Scusami, bambina mia! Chiusa nel mio dolore di donna tradita, non mi sono accorta che stavi crescendo e che qualcosa in te era cambiato: il trucco pesante sul viso ancora infantile, quel trucco che all’inizio prendevi dal mio beautycase e che non ti ho mai proibito di usare nonostante la tua età giovanissima; le gonnelline che ti lasciavano scoperte le cosce snelle e che mi piaceva tanto vederti indossare; il tuo parlare sempre meno con me e il tanto tempo trascorso fuori casa, con i tuoi compagni di scuola media. Quando il tuo papà si degnava di telefonare per sapere come stavi, visto che non gli rispondevi mai al cellulare, gli dicevo che era tutto ok. Che eri una ragazzina modello. Poi le pagelle sempre più brutte. I colloqui con i professori che mi riferivano del tuo scarso impegno nello studio, delle tue assenze e delle mie firme sul libretto delle giustificazioni che sospettavano essere contraffatte. E lo erano. La preadolescenza è un’età difficile, mi dicevo, ci siamo passati tutti. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. A volte i professori esagerano. Non si ricordano di come erano alla tua età.

Quella sera che non sei tornata a casa per la prima volta, avrebbe dovuto far suonare un campanello d’allarme nella mia testa troppo occupata a pensare alle proprie sventure. E invece ho accettato la tua scusa di essere rimasta a dormire con l’amichetta del cuore. Non mi sono permessa neanche di controllare se era vero. Certo, dovevi essere molto affezionata alla tua amichetta se ti fermavi sempre più spesso a dormire da lei. Una volta ti proposi di ricambiare gli inviti e di farla restare a dormire in casa nostra, ma tu mi rispondesti seccata che il suo papà non glielo avrebbe permesso. Lei il suo papà lo aveva ancora. Non l’aveva mica abbandonata!

Doveva anche stare molto bene economicamente la famiglia della ragazzina, visto le costose etichette delle borsette e dei maglioncini che ti prestava. E lo smartphone ultimo modello che ti aveva regalato per il tuo compleanno. Mi sentivo anche in imbarazzo perché sapevo che non avremmo mai potuto ricambiare con un dono di pari valore.

Poi il maresciallo che convoca me e il tuo papà nel suo ufficio. Indagando su un giro di baby squillo, ti avevano trovata in un appartamento con persone anziane e piene di soldi con le quali ti prostituivi. E capii il perché del trucco e da dove venivano i capi firmati.

Perché? Perché bambina mia? Non sapesti o non volesti risponderci.

Da allora ti dovetti tenere sotto stretto controllo, in attesa delle decisioni del giudice del Tribunale dei minori. Anche il tuo papà mi dava una mano: quando non potevo io, era lui che ti accompagnava a scuola. 

Quel giorno, quando rientrasti alterata per una lite con papà che ti negava la possibilità di partecipare ad una festicciola tra amici, corresti subito in cucina e ti chiudesti dentro. Bussai più volte alla porta. Disperata. Temevo un tuo gesto inconsulto. Poi apristi la porta: avevi un coltello in mano e uno sguardo crudele. 

Perché? Perché mi hai ucciso, bambina mia?


Racconto                 

L’amore al tempo dell’Isis: Quel maledetto giorno

 

Che bello, la scuola è terminata per quest’anno! Ora mi aspetta il mare. Penso di essermi proprio meritata la vacanza dai nonni in riviera. E per la prima volta senza i miei genitori, che partiranno per una crociera nei paesi nordici. Avrebbero voluto che andassi con loro, ma mi sono rifiutata. Ci sono i nonni che mi ospitano e papà e mamma possono stare tranquilli. 

Finalmente sola: baci, abbracci, raccomandazioni…non ne potevo più. I nonni non sono così asfissianti, mi lasciano libera di muovermi per le vie del paese: non ci sono pericoli dalle loro parti, mica siamo a Milano.

Mi incammino a piedi verso il mare. C’è vento e il cielo grigio minaccia pioggia. Poche le persone in spiaggia, e gli ombrelloni sono chiusi. I baretti però sono tutti aperti. Quasi quasi mi prendo un gelato…       

Ed eccomi seduta sul muretto del lungomare, con le gambe penzoloni, in mano un cono enorme e davanti le onde che si accavallano sulla battigia. Mentre seguo con gli occhi il volo solitario di un gabbiano, ho la sensazione che qualcuno mi stia guardando. Con insistenza. Mi volto verso il bar e vedo un bel figo di colore che mi fissa sorridendo. È un bellissimo ragazzo: alto, spalle larghe, schiena dritta, vita sottile e fianchi stretti come un modello. I capelli ricciuti sono scompigliati dal vento e una ciocca gli copre un occhio come un piccolo mantello nero che compare e scompare. Gli sorrido. Si alza, e con il passo felpato di una tigre, in poche falcate è accanto a me, seduto sul muretto, ma con le gambe penzoloni dalla parte opposta.

<<Come ti chiami? Da dove vieni?>>

<<Mohamed Alì… io venire dal Ghana>>, risponde in un italiano stentato.

<<Ma vi chiamate tutti Mohamed Alì voi musulmani?>>

Ride, ma non so se mi ha capito. Non fa niente: è così bello che della conversazione poco mi importa…

Intanto che lo fisso, il gelato dimenticato comincia a colarmi sulla mano. Lui ride e sento la sua lingua di fuoco che mi lecca le dita appiccicose. Rido anch’io. Vorrei gettare via il cono, ma mi piace sentire la sua lingua sulla pelle. Alla fine è lui a togliermi quel che rimane del gelato dalla mano. Una corsa e il cono è nel secchio dei rifiuti.

È l’inizio del mio primo amore. Un amore senza confini, che mi fa dimenticare chi sono e cosa voglio dalla vita. O meglio, ora lo so: voglio lui. Solo lui. Per sempre.

Per tutta l’estate non vivo che per quegli scorci di pomeriggio da trascorrere nei paraggi del bar, durante le poche ore di pausa del suo lavoro. Mi ha detto che lavora come lavapiatti al vicino ristorante. Lo pagano bene e riesce a mandare qualche soldo alla sua famiglia in Africa. Ma non parliamo tanto, piuttosto ci appartiamo all’ombra di una cabina per baciarci e accarezzarci come se non esistesse al mondo altro che il nostro amore. E un pomeriggio finiamo dentro la cabina lasciata aperta da un bambino e ci doniamo l’un l’altra, senza remore. Per me è la prima volta. Non avevo mai voluto farlo prima con nessuno dei ragazzi che mi filavano. Aspettavo l’amore. Quello vero. Ed ora era arrivato, e aveva la pelle nera e lucida di Alì.

Terminata la settimana di ferragosto, il mio amore mi annuncia, con il volto triste, che deve rientrare per un po’ al suo paese: il padre è ammalato e la mamma ha bisogno del suo figlio più grande. Inoltre il suo contratto con il ristorante sta per scadere e per il momento non glielo rinnoveranno, visto che la stagione è agli sgoccioli, e il lavoro è diminuito.

Mi metto a piangere come una scema, e lui mi asciuga le lacrime con le sue labbra carnose.

<<Io tornare, appena posso…non preoccupa!  Settembre tu scuola e non possibile incontrare noi tutti i giorni. Provo trovare lavoro Milano>>

Quel giorno facciamo l’amore come se fosse l’ultima volta. E il giorno dopo lui non è ad attendermi al solito posto. Al ristorante mi dicono che la sera precedente si era licenziato e la mattina era partito per il Ghana.

Mi siedo da sola, distrutta, sul muretto che aveva visto nascere il nostro amore. A un tratto penso che non conosco il suo cognome, non ho il suo numero di cellulare, né la mail. Mi risollevo pensando che lui ha il mio numero e senza dubbio mi chiamerà non appena sceso dall’aereo.

Gli ultimi giorni di vacanza bene o male passano nella tristezza più assoluta. Nessuna telefonata da Alì. Nessun messaggio. Niente di niente.  Forse il padre è grave e lui è troppo occupato e disperato per pensare a me

Ottobre. Sono a Milano. Ho ripreso la vita di sempre: casa, scuola, lunghe ore di studio nella mia cameretta, interrotte solo dagli allenamenti e dai sospiri guardando il cellulare muto. Perché non mi chiama? Possibile che si sia dimenticato di me? E chiudo gli occhi per vederlo con le immagini della mente, per sentire le sue labbra sulle mie, le sue mani che percorrono avide tutto il mio corpo. Quando esco dalla camera per una cena che consumo svogliatamente, scorgo gli occhi preoccupati dei miei che si lanciano messaggi silenti. Certamente si chiedono il perché della mia apatia, dello sguardo vuoto, del sorriso che non illumina più il mio viso. Ma non osano chiedermi nulla. Per fortuna. Non posso dire loro del mio amore per Alì.  Con quello che pensano degli extracomunitari, specialmente se di fede musulmana! Li ritengono tutti delinquenti, se non addirittura terroristi.

E arriva dicembre: le strade di Milano sono tutte decorate di luminarie che annunciano il Natale, le vetrine fanno a gara per suscitare l’ammirazione dei passanti. In casa il papà si arrampica lungo la scaletta in acciaio che porta in soffitta per portare di sotto le decorazioni dell’abete che ha già acquistato presso un vivaio e le statuine del presepe. Quest’anno però non avverto nessuna eccitazione in me. Non ho neanche voglia di scartare le palle di vetro e le statuine di gesso. Me ne sto sempre chiusa in camera e, quando i miei mi chiamano, rispondo che ho tanto da studiare.

Ho anche smesso con il basket: è un periodo che non mi sento in forma, mi mancano le forze, ho mal di stomaco, la pancia gonfia. La mamma ha preso appuntamento con un medico specialista; è preoccupata per me, teme che io non stia bene, tanto più che sono stati chiamati dal prof coordinatore di classe perché i voti sono piuttosto bassi. 

<<Eppure studia molto. Se ne sta sempre chiusa in camera immersa nei libri. Non va più neanche agli allenamenti>>, dicono all’insegnante, che cerca di tranquillizzarli accennando ai normali disturbi della crescita.

Il giorno prima della visita, prendo una scusa per farla rimandare: <<Una verifica importante, non posso mancare>>. E l’appuntamento viene spostato a subito dopo le vacanze natalizie.

Un tremendo sospetto mi stringe il cuore: sono incinta? Non si spiegano altrimenti le nausee di prima mattina, di cui non ho mai parlato alla mamma: lei non mi ha mai sentito vomitare, piegata in due, la testa inclinata dentro il water del mio bagnetto personale in camera. E le mestruazioni che non vedo dai primi di agosto, la pancia sempre più gonfia. Facendo i conti, dovrei essere di cinque mesi. E da Alì nessuna telefonata, e non so neanche come rintracciare lo zio che lo aveva fatto venire in Italia e gli aveva trovato lavoro presso il suo stesso titolare, dato che in inverno il ristorante a mare è chiuso.

<<Alì… Alì… ho un figlio tuo dentro di me… nostro figlio… il figlio dell’amore… Torna da me, da noi… ti prego!>> Ma il telefono è muto. Ormai anche le ultime speranze mi hanno abbandonato. Dovrò farmi coraggio e confessare a mamma e papà il mio segreto, che tra un paio di mesi non sarà più tale. Come reagiranno? Potrei non dire loro che è il frutto del mio pazzo amore per un extracomunitario, musulmano per giunta. Ma non posso sapere di che colore sarà la sua pelle: quasi certamente metterò al mondo un bimbo scuro come il padre, con gli occhi neri da cerbiatto. E allora non c’è bugia che tenga.

E intanto i giorni passano ed io non trovo mai il momento giusto per la mia confessione. 

È passato Natale, Capodanno sta per arrivare con la sua finta allegria. Questa sera, subito dopo cena, parlerò con i miei e affronterò le conseguenze della mia insensata passione.

Mangio svogliata, mentre la Tv trasmette immagini spaventose che tengono i miei incollati al video: un nuovo attentato, un’ennesima strage. Questa volta a Londra, davanti a Buckingham Palace, tra la folla assiepata in attesa del cambio della guardia: un kamikaze si è fatto saltare in aria portando con sé una ventina di turisti, tra cui donne e bambini. Tanti i feriti, alcuni gravissimi. I miei commentano. Sono addolorati e insieme arrabbiati: non si può massacrare persone innocenti in nome di un Dio, quale esso sia.

Decido di rimandare la mia confessione. Non è il momento giusto. Anche Alì è musulmano. Anche lui adora quel Dio. E io attendo un figlio suo. A cui non voglio rinunciare anche se ho solo quindici anni e questo figlio cambierà radicalmente la mia vita. In fondo al cuore tengo custodito un filo di speranza: prima o poi Alì tornerà, riconoscerà suo figlio e, quando avrò compiuto diciotto anni, ci sposeremo.

Sono trascorsi quattro giorni dall’attentato: altre persone, che erano in condizioni molto critiche, sono morte. I loro volti scorrono sul video: una giovane mamma, uno studente, una bambina di soli cinque anni con le treccine bionde chiuse da due fiocchetti azzurri… Poi il giornalista annuncia che è stato identificato il kamikaze: un nordafricano con moglie e due figli piccoli, con passaporto vidimato in Italia, dove aveva lavorato per qualche mese. Il cuore mi batte forte mentre il viso di Alì compare sullo schermo. Non può essere lui. Alì è ghanese, non nordafricano. E non è sposato. Solo una tragica somiglianza. Non può essere diversamente. Ma poi ecco la voce dell’inviato da Londra: <<…In estate aveva lavorato in un ristorante sul mare di un borgo vicino a Sestri. Lo aveva ospitato uno zio, ora sparito…>>. L’intervista con il titolare del locale non mi lascia più dubbi. L’uomo riferisce anche di una ragazzina milanese che, alla fine dell’estate, era venuta a cercarlo. No, lui non aveva pensato che fosse un terrorista. Sembrava un bravo ragazzo. Non sapeva neanche che avesse moglie e figli. Era così giovane…e bello come un Dio.

Spengo la Tv con la morte nel cuore. Alì un terrorista. Alì che aveva una moglie e due figli mentre diceva di amarmi, mentre mi stringeva e mi baciava appassionato. Non so cosa mi sconvolga di più, ho la testa che mi martella, il cuore che perde colpi. Penso che porto in grembo il figlio dell’amore e della morte. Lui non dovrà mai sapere chi è suo padre. Nessuno deve sapere. 

A un tratto non sento più niente: mi sembra di essere immersa in un mare di nuvole, lontana da tutti, dalla vita. Vorrei restare sempre cosi, semincosciente, la voce di mamma che mi arriva attutita. 

Un suono di sirena, delle voci che mi parlano, delle mani che mi schiaffeggiano per farmi riprendere i sensi. Ma io non voglio. Lasciatemi dormire. Voglio morire!