Antonella Bruno - Poesie e Racconti

SILLOGE AD ASHRITA

(la mia figlioletta adottiva indiana)

Il principio di un cammino (novembre 2004)

 

Occhi neri

di profondo consapevole.

Turchese intenso

per la mia anima ferita.

Delizia di un braccialetto vezzoso.

Alba di un giorno nuovo

e denso di promesse,

spero,

mai disilluse.

Non nata dal mio grembo,

ma dal bisogno avido

di un amore senza ritorno.



Il profumo dell’India (dicembre 2007)

 

Piccoli chicchi teneri

tra le labbra di rugiada.

Carezza di riso candido

come giunco sottile

scivola leggera.

Danza di colori in festa.

Un piccolo tuo lembo,

mamma,

si schiude tra le sue manine

e mi sorride.


 

Nella luce di una candela (dicembre 2007)

 

La vedo camminare nel sole,

riverberi d’argento sulla seta nera dei capelli

e sulle piccole caviglie tintinnanti.

Delizia di profumo bianco e dolce

che m’inebria la gola.

Calmo discende,

caldo s’espande

e mi accarezza il cuore.



SILLOGE AL MIO AMORE INDIANO

( Murahari Chandi)

Praga

 

Svettano queste guglie,

gridano avide ad un cielo dimentico

il negletto loro splendore.

Al mio negletto grido

sola risposta

è la tua seta d’avorio,

solo conforto

il tocco caldo di una carezza scura.


 

Ad un bisogno antico

 

Ambra di seta

avvolgimi ancora.

Quanta misteriosa sapienza

annega

nel lampo scanzonato

del tuo sorriso.


 

Ad un’illusione

 

Un solo tuo sorriso

per rianimare il passo stanco.

Mandorle d’ebano,

il tocco morbido

delle tue dita

per attraversare

il guado.


 

A me stessa

 

L’eco delle memorie tace,

l’urlo delle emozioni negate

trascolora e muore.

Non v’è illusione

che mi colori il canto,

né brezza lieve

che mi sostenga il volo.

Non v’è più inganno

che m’incateni

ai suoi fantasmi.



IL SOGNO (1996)

(Ai miei molti padri)

 

Lampo d’ironia arguta,

seta di sorriso avvolgente,

vividi frammenti

di una ricerca antica e mai compiuta.

Gocce preziose

di un sogno senza tempo.

 


 

 

IL NON VISSUTO (2002)

(A Francesco)

 

Corolla di intensa,

malata bellezza,

quella ch’io ti ho profuso

nel mio malato batter d’ali.

Non ti sei schiusa alla mia linfa,

avida l’hai bevuta

spezzando il volo.

Ora è l’inespresso,

l’inimmaginabile,

che muore bruciando

senza aver bruciato,

senza aver ritagliato i contorni

di una disossata,

eppur vissuta bellezza.



OCCHI  (2006)

(A Stefano)

 

Occhi strani

di un verde cangiante,

come i tuoi guizzi teneri,

e le tue impennate

di furore minaccioso.

Lacrime coagulate nel profondo

di una ferita mai sanata,

di un amore sempre rincorso,

giammai trovato.


 

TRA LE PIEGHE DELL’ANIMA (2014)

 

Dove cercarti,

mio Dio,

dove toccarti?

Tralcio di sete ribelle,

tra l’immenso lontano e l’immenso vicino

la mia inquietudine corre febbrile.

E sulla groppa di un’asina mite,

lacrime senza riposo

cercano avide

la tua carezza infinita.



LIBERO (2004)

(A Luigi, il mio paziente schizofrenico)

 

Libero infine.

Dai fantasmi terrifici

della mente prigioniera.

Dall’amore e dall’odio

del condiviso.

Dallo struggimento

del non condiviso.

Adagio dolce il mio sollievo

sui tuoi fantasmi in fuga,

come ghirlanda rosa di fanciulla,

che poté appena

affacciarsi alla vita.



SEGRETI DELL’ANIMA

(All’amico Giuseppe, morto suicida)

 

Chi mai poté discendere

nel silenzioso tuo tormento?

Timido il gesto,

ed impacciato il tratto,

negli occhi della mente

trascolora

il mesto specchio

di una fragilità pensosa.

Non urlasti il tuo sgomento,

non chiedesti aiuto!

Cedesti il passo

all’inquietante mistero

di un’umanità non dischiusa



CASA (2008)

 

Addio casa,

amata e a un tempo odiata.

Casa intessuta di oggetti preziosi,

di densi significati

nel cuore

di chi li ha conosciuti.

Casa colorata di affettività creativa,

casa buia di dolorose assenze,

di voci rarefatte e di silenzio.

Casa di amori rincorsi invano,

di sguardi liquidi

e di guaiti affamati di carezze.

Casa esplosione,

casa prigione,

accesa di vivide passioni,

spenta di nemiche memorie.

Casa,  casa, casa …

… casa ti lascio

e ricostruisco

il mio cuore,

l’anima inquieta rivesto

di significati ignoti,

di forme attese

e di memorie nuove


 

NEFELE E SUA SORELLA NASTRO

 

 

C’era una volta una splendida nuvola, un’immensa ostrica d’argento che vagava libera nel cielo, signora della Notte. Il suo nome era Nefele.

Ma un brutto giorno, anzi una brutta notte, il re della Notte, vedendola così bella, se ne innamorò e, non volendo che gli fuggisse via, la cucì fitto fitto nel cielo. Nefele, imprigionata, cominciò ad essere molto triste e nelle notti in cui non ne poteva più piangeva, piangeva. E il Mare, pietoso, raccoglieva tutte queste gocce di pianto nel suo grembo e le rilanciava a lei, perché le irrorassero le labbra inaridite dal dolore e dal vento. E la Luna, protettrice di tutti gli spiriti amanti, l’avvolgeva dei suoi fasci di luce perché sembrasse ancora più d’argento. Ma il ristoro dei suoi amici durava poco, e lo spirito libero di Nefele sempre più si prosciugava. Finché, una notte di luna piena, Nefele, sentendosi prossima a morire, cominciò a singhiozzare senza fine; ma neanche i singhiozzi le riuscivano bene, trafitta com’era dai mille fili che la cucivano in cielo. Allora il Mare, mosso a compassione, raccolse le sue cento e cento lacrime che colavano giù, rapide e calde, e fondendole con i raggi della Luna, quella notte più grande e luminosa che mai, modellò un lungo nastro d’argento. Il nastro dalla riva si protendeva fino all’orizzonte ed ondeggiava anch’esso al ritmo del mare, come una sinuosa danzatrice che disegna le sue volute senza posa. Incuriosito da tutto quel baccano di singhiozzi che sentiva provenire dall’alto, il Nastro guardò in su verso Nefele:

“Chi sei? “

“Sono una nuvola disperata perché non posso più volare libera nel mio padre Cielo … ma tu … chi sei?”

“Non mi riconosci?! Sono tua sorella Nastro!”

“Sorella! Ma io non ho mai avuto una sorella, solo adesso ti vedo!”

“Perché hai sempre avuto gli occhi troppo pieni di lacrime. Cosa posso fare per te?”

“Nulla. Non c’è nulla che tu possa fare per me!”

“Ne sei proprio sicura? Osserva la mia danza: quando mio padre Mare s’infuria io sprofondo in esso per danzare il mio canto di Morte, ma, appena si calma, io riemergo per danzare il mio canto di Vita.”

“E … allora?”

“E allora … se hai così tanto a cuore la tua libertà … devi sprofondarti insieme con me negli abissi di mio padre. Ce la puoi fare, sei così grande! Guarda, ora chiedo alla Luna di allentarti un po’ i fili che ti tengono cucita.”

E … poi?”

“E poi … vedrai!”

Nefele indugiò a lungo, tremando tutta di paura, ma infine pensò:

“Cosa ho da perdere? Se ho da vivere così sempre e sempre è meglio che io muoia!”

E chiudendo gli occhi per farsi coraggio, e raccogliendosi tutta in un profondo respiro, si tuffò: subito l’acqua la ghermì e la risucchiò nel suo vortice giù, sempre più giù …

“Oddio, non ho più fiato! Muoio muoio … meglio così!”

Ma un braccio amoroso della Luna l’agguantò dal fondo del mare e la riportò in superfice, appena in tempo. Nefele sputò e tossì e trasse un immenso respiro:

“Ma … sono qui, sono ancora viva!”

”Certo che sei ancora viva! Ora stiracchiati come se ti fossi appena svegliata …

… ma …

… stiracchiati ti dico! Non ti fidi ancora di me?!”

Nefele provò a stiracchiarsi: poteva a stento muoversi ma continuò a protendere braccia e mani con tutta la forza che le rimaneva …

“… brava, così, di più sempre di più … !”

Finché, con un ultimo potente strattone, Nefele sentì rompersi i fili ad uno ad uno e cominciò a volare, incredula, pazza di gioia!

“Ehi tu, lassù! Visto che voli? Ma … ora te ne vai così, senza nemmeno salutarmi?!”

Nefele si tuffò in picchiata fino a raggiungere la cresta del mare:

“Grazie, grazie sorella!”

“Ci rivedremo ancora?”

“Sicuro! Quando sarà di nuovo luna piena tornerò da te e ci abbracceremo ancora, prometto!”

Quindi volò in alto, sempre più su, fino alle stanze più alte di suo padre Cielo, scomparendo.

E così da allora, ogni notte di luna piena, Nefele e sua sorella Nastro s’incontrano sulla cresta del mare e si scambiano una lacrima: una lacrima calda, gioiosa. Una lacrima fatta d’amicizia.


 

I LIMONCINI DI LUCIGNOLO

 

 

C’era una volta … non è forse così che cominciano tutte le fiabe? Ebbene, miei cari bambini, c’era una volta un gatto nero piccino piccino, non più grande di un minuscolo schizzo d’inchiostro, un piccolo gomitolo morbido di argento vivo che con animo intrepido s’inerpicava sulla pancia placida e devota di mamma gatta, sgomitando tra i fratellini avidi quanto lui di latte e di vita. Il più delle volte ruzzolava giù a precipizio ed era costretto a ricominciare daccapo; ma lui non si scoraggiava, non si arrendeva. Mai. Piuttosto, dopo un breve momento di sconcerto e di disappunto, si lanciava nuovamente alla riscossa, più caparbio che mai, fino a conquistare la vetta dei suoi desideri: una piccola mammella turgida di latte tiepido e profumato, cui si attaccava voracemente, succhiando con tutte le sue forze e premendo ritmicamente con le zampine, prima l’una poi l’altra in rapida alternanza, per favorire la fuoriuscita di quel nettare delizioso. Infine si addormentava stremato ma sazio di beatitudine.

E c’era una volta Ilaria, la sua padroncina, un giunco sottile e nervoso dalla pelle diafana e dagli occhi di perla: immensi, su quel faccino delicato, profondi, mobilissimi. Occhi che, con il rincorrersi di stati d’animo sempre nuovi e mutevoli, cangiavano continuamente colore, con rapide scorribande da una sfumatura all’altra di grigio. Di piombo scuro, quando la piccola era triste o assorta, si accendevano di bagliori chiari di tenero avorio nei momenti di allegria, allorché il sorriso li riduceva a due fessure di luce, arricciandole il nasino impertinente e spruzzato da una generosa manciata di efelidi. Con quegli occhi, sempre un po’ velati e come incantati, Ilaria dipingeva magie di colori e di atmosfere, e tutto quanto era intorno o dentro di lei si trasformava, grazie alla potenza della sua fantasia, mescolando le tinte decise della realtà con gli arcobaleni sfumati della fiaba e del sogno. Ilaria non si stancava di contemplare quella meravigliosa cucciolata, ed in particolare le prodezze del suo piccolo schizzo d’inchiostro a cui non aveva ancora dato un nome. Solo Ulissea, la sorellina grigia tigrata dai bellissimi occhi bistrati di rimmel, riusciva a tenergli testa. Era stata lei ad escogitare la tecnica per catapultarsi fuori dalla cesta ed andare ad esplorare il mondo più vasto intorno a lei, tornando poi al nido sicuro con un rapido balzo delle sue zampine felpate. Ben a diritto, dunque, si era conquistato il suo nome. Gocciolo, invece, che nel disegno delle chiazze bianche e nere del suo mantello rassomigliava a sua madre come una goccia d’acqua, era il più timoroso ed inafferrabile dei quattro. Quanto a Castagnola, l’altra femmina tigrata, lei se ne stava più appartata nella sua aura indipendente e selvatica, quasi orgogliosa della sua deliberata solitudine, splendida nelle fini striature ocra e mattone del proprio mantello, un caldo bagliore di sfumature autunnali sotto la carezza del sole. E così, a sole poche settimane di vita, ognuno di loro mostrava già in bozza le linee decise del proprio temperamento.

Ilaria non riusciva a decidersi sul nome da imporre al suo piccolo schizzo nero: accadde tutto all’improvviso, quando lo schizzo spodestò impunemente il fratello dalla vetta del piacere con un colpo secco della sua zampetta. Ilaria rise divertita: “Un diavolo sei, proprio un piccolo diavolo, che nome dovrò darti?”

“Beh! – proruppe inaspettatamente il grillo sulla parete di fondo della sua cameretta – se è un diavolo non può che chiamarsi Lucifero!”

“Lucifero?! Che orrore! – protestò la piccola con una smorfia di disgusto – Dare un nome del genere ad un povero gattino, come ti salta in mente grillo sconsiderato?!”

E fu a questo punto che la colse una felice ispirazione: “Ci sono, lo chiamerò Lucignolo! Somiglia a Lucifero ma è molto, molto più gentile!”

“E già! – sghignazzò il grillo con il suo solito sussiego da sapientone – Lucignolo, capirai, l’amico perdigiorno di Pinocchio, un nullafacente con le orecchie d’asino! Ma lo so io perché ti sta così simpatico, perché da quando sono nati questi mocciosi tu non fai che perdere il tempo con loro e non studi più! Male molto male! Ma prima o poi lo dirò al papà e alla mamma, ed anche alla tua maestra, ah se lo dirò! È per il tuo bene perché stai prendendo proprio una brutta piega!”

“O fammi il piacere lasciaci in pace! – sbuffò Ilaria seccata – Se non la pianti di predicare ti lancio anch’io un martello su quel muro così ci rimani morto stecchito!”

So quello che vorreste dirmi, cari bambini. Che sto rubando a piene mani da un’altra fiaba! Ma in fondo, se ci pensate, non è poi così grave come sembra: tutte le fiabe sono collegate l’una all’altra da fili misteriosi e sottili, perché tutte s’incontrano nella regione incantata del sogno.

E così le giornate di Ilaria scorrevano serene, tra gridolini di gioia e di sorpresa per i continui progressi dei suoi piccoli. Ormai tutti e quattro abbandonavano la cesta con disinvolta agilità, producendosi in flessuose acrobazie, rotolandosi l’uno sull’altro o balzando all’unisono per incrociarsi a mezz’aria. Era arrivato il momento dei giochi e delle lotte, il tempo dei primi rudimenti delle tecniche di avvistamento, puntamento e rincorsa della preda: topolini, talpe, piccoli uccelli sfortunati caduti dal nido di mamma chioccia, lumache e lucertole erano i loro bersagli preferiti. Eh sì, bambini miei, che ciò non vi meravigli! Anche i gatti, nel loro piccolo, sono dei predatori e per di più particolarmente agili e raffinati; il che non impedisce loro di tornare improvvisamente cuccioli bisognosi delle coccole della loro mamma. Fra tutti proprio Lucignolo era quello che mostrava una particolare predilezione per la sua padroncina. Crescendo aveva smussato le sue iniziali angolosità, rivelando una singolare dolcezza, ed anche il suo aspetto non era più nero inchiostro perché sempre più evidente diventava ormai la radice bianca del pelo che donava al suo mantello una tonalità nero – grigia antracite, facendo di lui uno splendido gatto tigrato.

Un bel mattino, però … anzi un brutto mattino, uno spaventoso boato svegliò Ilaria di soprassalto. Il suo primo pensiero fu di correre alla cesta … mamma gatta e tre dei cuccioli erano scomparsi! Solo gli occhi verdi di Lucignolo la fissavano impauriti, accompagnandosi ad un miagolio di smarrimento. Ilaria lo prese in braccio stringendolo forte a sé e corse in giardino ma, fatti solo pochi passi, si arrestò costernata: il boato si ripeteva, un verso terrificante che non era né umano né animale, in qualche modo una sorta di ruggito ma in realtà Ilaria non avrebbe saputo definirlo perché non somigliava a niente di quanto la bambina avesse mai udito in vita sua. Un fumo acre e denso si levava alle spalle dell’alta siepe di recinzione del giardino. Ilaria si stropicciò gli occhi arrossati e tossì più volte convulsamente gridando: ”Mamma gatta Ulissea Gocciolo Castagnola dove siete? Dove siete cuccioli miei non mi fate spaventare tornate subito qui!” Ma non ebbe altra risposta se non il miagolio desolato di Lucignolo che si era ancor di più rannicchiato tra le sue braccia, spaventato. Allora successe qualcosa di straordinario: chiazze luminose e leggere di bianco, turchese ed oro si materializzarono nell’aria, fluttuando sospese, come se fossero sorrette da fili invisibili;  poi cominciarono a danzare l’una verso l’altra e a fondersi, disegnando una forma. Fu così che dal nulla prese corpo una stupenda signora ammantata di bianco, con un lungo, vaporoso strascico di nuvola turchese tempestato di piccole stelle d’oro. I suoi riccioli candidi le incorniciavano morbidamente il volto, perfetto questo, illuminato da due grandi occhi verdi che brillavano come smeraldi nel delicato avorio dell’incarnato.

“Chi sei?!” – le chiese Ilaria, gli immensi occhi sgranati in un ooh di stupore. La signora le sorrise dolcemente.

“Non avere paura sono una fata buona.”

“Una fata?! Allora, se sei una fata, dimmi, per favore, dove sono i miei gattini?” – la supplicò Ilaria con un filo di voce incrinata dal pianto.

“Non temere, i tuoi cuccioli sono al sicuro presso la corte del buon Dio dei gatti.”

Ilaria protestò vivacemente: “Ma io rivoglio indietro i miei gattini perché sono miei! Dì a questo dio di ridarmeli!”

La fata le sorrise compassionevole: “Povera piccola – mormorò – nessuno può opporsi a Dio.”

La bambina pestò i piedi stizzita, il suo volto fremeva, le perle degli occhi scure come non mai.

“Con quale diritto questo dio si è preso i miei gatti, tutto questo non è giusto no non è giusto!” – e finalmente proruppe in un pianto a lungo represso.

La fata le passò teneramente le dita tra i capelli: “Lo so, ci sono molte cose ingiuste in questo mondo. Ma anche se ora tutto ciò può sembrarti crudele e del tutto privo di senso, ogni cosa acquisterà il suo significato un giorno, fidati di me. Ti resta Lucignolo, abbine cura perché ti darà tanto amore.”

Ilaria guardò il suo batuffolo di antracite: Lucignolo mugolò piano e le leccò la guancia con la sua linguetta ruvida, asciugandole una lacrima che ancora le rigava il volto, silenziosa, ribelle; sembrava quasi che capisse la sofferenza della sua padroncina e facesse del suo meglio per confortarla.

“Ma stai attenta e ascolta molto bene quello che sto per dirti! – la ammonì la fata con un’espressione fattasi improvvisamente seria e quasi severa – Questo meraviglioso giardino è prigioniero di un incantesimo da molti, molti anni. A guardia di esso v’è un drago malvagio che uccide ogni essere vivente, umano o animale, che violi il divieto di oltrepassarlo, scavalcandone la siepe come hanno fatto i tuoi piccoli. Sorveglia sempre Lucignolo, vigila su di lui, tienilo stretto a te e non consentirgli mai, dico mai, di avventurarsi dall’altro lato della siepe. La maledizione di questo incantesimo si spezzerà solo quando in questo luogo si sarà compiuta una grande prova d’amore. Allora il drago crudele non potrà più fare del male a nessuno.”

“Non capisco.” – mormorò Ilaria attonita, stringendo ancor più forte a sé il suo micino

“Capirai dopo. Ora debbo andare, ricorda le mie raccomandazioni.”

“Non andartene fata – la supplicò Ilaria – resta qui con me, papà e mamma sono partiti per un lungo viaggio ed io mi sento così sola e piena di paura!”

“Non sei sola, c’è Lucignolo che ha in serbo per te un dono prezioso. Ed io tornerò da te, te lo prometto.”

“E quando, quando?!” – la incalzò Ilaria con impazienza

“Quando verrà il suo tempo.” – si limitò a risponderle la fata. E come dal nulla era comparsa nel nulla disparve, lasciando dietro di sé un profumo intenso ed un fine pulviscolo d’oro.

I bambini stupiscono sempre perché svelano al momento giusto risorse inaspettate. Pian piano la dolorosa ferita di Ilaria si rimarginò, grazie al balsamo del tempo, ma soprattutto grazie al prezioso aiuto di Lucignolo che ormai era diventato il fido compagno delle sue giornate e la seguiva quasi dappertutto come un’ombra, con una costanza ed una fedeltà che ci si sarebbe aspettati da un cagnolino piuttosto che da un gattino. E così il sorriso era tornato sulle labbra di Ilaria e le perle dei suoi occhi si coloravano sempre più spesso di grigi chiari e delicati: come quando, ad esempio, il cucciolo la raggiungeva sull’erba del prato e si stendeva al suo fianco beandosi al sole; o quando la bambina gli raccontava le sue storie e i suoi piccoli segreti, veri o immaginari che fossero. I genitori di Ilaria non avevano potuto donarle un fratellino o una sorellina e così Ilaria si consolava confidando a Lucignolo i suoi sogni e le sue fantasie. Il micio, dal canto suo, l’ascoltava per ore con aria assorta, comodamente acciambellato nel suo grembo, commentando le pause di Ilaria con miagolii teneri come i versi di un bambino. Sembrava capire tutto. Proprio così bambini miei! Vi chiederete come un gatto potesse capire ed assecondare Ilaria in tutte le acrobazie della sua fervida immaginazione. Ma ciò rimarrà per sempre un mistero, al pari dei tanti altri misteri che popolano questa storia. Ilaria comunque ne era persuasa e niente avrebbe potuto convincerla del contrario. Ombre d’inquietudine si allungavano però, di tanto in tanto, su di una felicità che sarebbe stata altrimenti perfetta. Perché Lucignolo, per quanto fedele, era pur sempre un gatto che amava partire per le sue scorribande avventurose e solitarie. Si arrampicava con stupenda agilità sugli alberi ad alto fusto del giardino, mentre Ilaria lo osservava turbata ed impensierita, ben consapevole del fatto che con la stessa leggerezza flessuosa avrebbe potuto scavalcare anche la siepe e … a quanto sarebbe potuto succedere dopo la piccola non osava nemmeno pensare. Oppure Lucignolo scompariva l’intera giornata, riempiendo di sgomento il cuore della sua padroncina che con lo scorrere delle ore sentiva crescere dentro di sé un’ansia quasi intollerabile. Finché con un balzo ovattato e quasi inavvertito il micio le compariva davanti facendole tirare un gran respiro di sollievo; allora Ilaria lo stringeva a sé con tutta la forza che aveva ammonendolo severamente: “ Non devi, non devi assolutamente uscire da questo giardino! Promettimelo!”

Lucignolo le rispondeva con un mugolio che sembrava d’assenso ma Ilaria non si fidava e continuava ad incalzarlo: “Giuramelo!” Solo al secondo mugolio la piccola riusciva a chetarsi ma i suoi sogni continuavano a popolarsi di fantasmi inquietanti, finché il primo raggio di sole del mattino giungeva a dissiparli sulla coda della notte in fuga.

Ma una sera Lucignolo non fece ritorno ed invano Ilaria lo cercò in ogni più piccolo anfratto del giardino chiamandolo a gran voce; dopo un’agonia di attesa senza fine la sua ansia era diventata una frenesia incontenibile. Lei stessa in seguito non riuscì mai a spiegarsi come avesse potuto compiere ciò che in quel momento si accingeva a compiere: aggrappandosi ferendosi scivolando tra i rami aggrappandosi nuovamente con quanta disperazione aveva in cuore, s’inerpicò fin sulla cima della siepe, quasi fosse lei stessa un gatto ma, appena gettato uno sguardo al di là del fitto fogliame, si sentì gelare: Lucignolo era lì. Per quanto piccolo potesse apparire a chi, come lei, osservava dall’alto, ne riconobbe distintamente il profilo tra le forme ed i colori netti dell’imbrunire. Lì tra le grinfie del drago, che si contorceva lanciando fumo e fiamme dalle fauci crudeli, lo stesso fumo denso e mortifero che le aveva aggredito gli occhi e la gola qualche mese prima. Noncurante della sua stessa vita Ilaria balzò giù dall’altissima siepe precipitandosi sul suo piccolo caro e, dopo una lotta impari, riuscì a strapparlo dagli artigli del mostro. Allora il drago si issò sulle zampe posteriori e torreggiò altissimo, riempiendo l’aria dei suoi terrificanti boati, ma in quel momento Ilaria si sentì sollevare sotto le braccia come se queste fossero diventate ali e senza sforzo alcuno si librò in volo, planando al di qua della siepe. E solo a quel punto realizzò l’amara verità: era intervenuta troppo tardi e il piccolo Lucignolo giaceva esanime tra le sue braccia, gli occhi vivaci ormai spenti e abbandonati dal soffio della vita. Ilaria si gettò in ginocchio abbracciandolo forte e singhiozzando: “No no non è vero non ci credo non può essere vero! Lucignolo Lucignolo amore mio piccolo rispondimi te ne prego rispondimi! Non voglio più amare nessuno perché mi sento morire voglio morire anch’io!”

La piccola sentiva il cuore batterle in gola come impazzito, quasi che da un momento all’altro dovesse schizzarle via dal petto, mentre forti singhiozzi le squassavano le fragili spalle e le dita le tremavano nervosamente attorno al corpo del suo piccolo amico. Tutta assorbita nell’impeto del suo dolore, non si accorse dei lunghi riccioli di seta che le sfioravano morbidamente la guancia e la linea del collo e delle mani delicatissime che si erano posate sulle sue spalle per calmarne il tremito convulso; finché un sussurro amorevole le s’insinuò nell’orecchio inducendola a girarsi: nell’ombra avanzata della sera a malapena si distingueva qualcosa ma un profumo intenso le solleticò le narici ed il brillio di un paio d’occhi di smeraldo si riverberò nelle perle scure dei suoi.

“Fata, fatina mia buona sei tu?”

“SI Ilaria, sono io.” – fu la risposta dolce

“Non ce l’ho fatta a salvarlo ho lottato con tutta me stessa ma non ce l’ho fatta e …”

“ssss … abbi pace non è colpa tua.”

Allora la piccola Ilaria si abbandonò sfinita tra le braccia della fata, rigandole il collo di lacrime rapide e calde, che la fata accolse in silenzio perché non c’erano parole che potessero lenire quel dolore inconsolabile.

“Dimmi – le chiese tra un singhiozzo e l’altro – ora anche Lucignolo sta alla corte del dio dei gatti?”

“Si.” – le sorrise la fata nel buio

“E lo tratterà bene?”

“Certamente Ilaria, puoi contarci!”

“Ma adesso chi mi aiuterà a seppellirlo? La terra è dura da scavare ed io non ne ho la forza!”

“Non temere. Ci penso io.”

La fata scosse lievemente il suo strascico di nuvola turchese ed il pulviscolo di stelline d’oro si librò nell’aria, dando forma a sette piccoli gnomi sorridenti ed armati di pala che subito si misero a scavare di buona lena, fischiettando allegramente. Quando tutto fu pronto gli gnomi si sfilarono di dosso i loro mantelli di erba tenera e li deposero con cura nella piccola fossa, avvolgendovi dentro il corpo del gattino, con lo stesso amore con cui il papà e la mamma rimboccano le coperte ai loro bambini. Infine vi piantarono un grazioso alberello che la fata aveva tirato fuori dal suo manto e livellarono con cura il terreno tutt’intorno prima di essere risucchiati nel pulviscolo d’oro.

“Guarda Ilaria – disse la fata illuminando la piantina con il tocco della sua mano – guarda quest’alberello.”

“Il mio Lucignolo è morto – protestò Ilaria desolata – cosa vuoi che m’importi dell’alberello?!”

“Deve importartene invece, devi averne cura come se fosse lui perché questo è un alberello fatato e se lo innaffierai ogni sera ti darà i suoi frutti. Abbi fiducia in me, ti ho mai detto il falso?”

Ilaria scosse la testa stancamente.

“No mai. Purtroppo mai.”

“Ma questa volta il vero ti riempirà di gioia! Innaffia questa piantina con le tue lacrime di gioia!”

Ma la povera Ilaria aveva il petto e gli occhi gonfi di dolore ed in quel momento non poteva concepire che ci fosse altro al mondo all’infuori di quell’aspro dolore.

“Lacrime di gioia?! Che dici fata, come posso mai piangere di gioia?!”

“Allora innaffiala con lacrime di tenerezza, questo non dovrebbe esserti difficile. Sforzati di scacciare dalla tua mente le immagini terribili di questa sera e di richiamare solo quelle dei ricordi più dolci. E innaffia l’alberello. Qualcosa succederà, te lo prometto.”

E svanì dalla vista di Ilaria.

Da quel giorno la bambina cercò di seguire il consiglio della fata: inizialmente non accadeva niente ma, pian piano, frammenti di ricordi, come schegge vivide di colore e di amore, presero a comporsi negli occhi della sua mente, inondandola di un flusso ininterrotto di voci: la propria e quella di Lucignolo che vibravano nel divertimento scanzonato dei momenti di gioia.

Lucignolo, cucciolo di pochi mesi, che con un rapido balzo s’infilava sotto le coperte del lettino di Ilaria ripercorrendolo fino ad accomodarsi nel suo grembo, mentre la coda gli si agitava festosa solleticandole le gambe; Ilaria rideva divertita fino alle lacrime: “Insomma, vuoi piantarla o no?! Smettila che mi fai il solletico!”

Lo scompigliarsi della tenda della doccia finché il musetto si affacciava occhieggiando e Ilaria aveva il suo da fare per impedirgli di saltare anche lui nella vasca da bagno: “Come ti sei permesso di arrivare fin qui?! – fingeva di rimproverarlo – vattene via maschiaccio maleducato, fammi fare la mia doccia in santa pace!”

Al suono delle crocchette che cadevano nella ciotola, Lucignolo schizzava in cucina come un razzo e, quando la ciotola era piena, le accarezzava la mano con un rapido colpetto di zampa in segno di gratitudine.

Ma il momento più magico era quello della sera, quando Ilaria era già coricata nel suo lettino: sapeva che prima o poi sarebbe arrivato ed attendeva. Ormai aveva imparato a percepire la pressione quasi inavvertita delle sue zampette sulla sottile trapunta che la copriva: allungava le braccia nel buio e l’attirava a sé. Lucignolo non si faceva pregare e si raggomitolava prontamente sul suo petto posando la testolina sul guanciale affianco alla testa di lei. Allora era tutto uno scambiarsi baci leccate e carezze mentre il ron ron profondo delle fusa saliva d’intensità fino a raggiungere i toni acuti di un trillo. Lucignolo le accarezzava la guancia con la zampetta, le unghie ben retratte per non graffiarla, e per Ilaria era come sentirsi bagnare la guancia da un morbido lembo di seta; oppure ripescava nella sua memoria felina il rito antico dell’allattamento al seno di mamma gatta, premendo il petto di Ilaria ritmicamente, prima con una zampina poi con l’altra, in rapida alternanza. Ilaria sorrideva nel buio commentando teneramente: ”Eccolo qui, il mio pizzaiolo!” Gli occhi verdi e rotondi di Lucignolo brillavano nella penombra come pozze d’amore profondo, e quando Ilaria fissava le perle dei suoi in quelle pozze le sembrava di annegare in due piccoli laghi di liquida dolcezza.

E così i ricordi scorrevano insieme con le sue lacrime con ritmi e colori ogni volta diversi: talora era un bianco spumeggiare di torrente in piena  che le inondava il volto di gocce rapide e chiare mentre il cuore le batteva forte; talaltra invece era uno stagnare torbido e limaccioso che le ingorgava gli occhi, colando in gocce pesanti, lente e scure, mentre il battito rallentava e con esso sembrava fermarsi anche il respiro. Ogni sera Ilaria raccoglieva diligentemente tutte le sue lacrime in un piccolo annaffiatoio, ne irrorava l’alberello e attendeva, senza sapere bene cosa attendere, ma aveva deciso di fidarsi delle parole della fata, e comunque quello stato di sospensione indefinita la confortava e leniva il suo dolore. Più tardi, quando Ilaria cominciava finalmente ad addormentarsi nel suo lettino, una tenue luminescenza dorata aleggiava nella cameretta, ritagliando le forme e i profili degli oggetti e tenendo lontano il buio della notte con i suoi mostri. Ed ogni mattino un soffice ricciolo candido l’attendeva sul guanciale; la bimba capiva, da questi piccoli segni, che non era sola e che la fata buona vigilava amorevolmente su di lei e sul suo sonno.

Frattanto, con lo scorrere delle settimane, il giardino andava rivestendosi di un caleidoscopio di colori e in ogni angolo era tutto un fiorire di primizie primaverili, dove i rossi e i gialli delle rose gareggiavano con gli azzurri e i lilla delle ortensie e questi con i bianchi odorosissimi delle gardenie. Anche l’alberello di Lucignolo si era addobbato a festa, sfoggiando una veste di profumatissimi fiorellini bianchi. Fra tutti, al centro, spiccava un fiore più candido, più rigoglioso ed odoroso degli altri. Ilaria ne accarezzava a lungo i petali vellutati ed affondava il naso nella sua corolla, come a volersi immergere con tutta sé stessa in quell’aroma intenso: le pareva che qualcosa di Lucignolo e della sua piccola anima si espandesse in quella fragranza e le parlasse come nei tempi felici. Poi, un po’ alla volta, i fiorellini appassirono per dare luogo a piccoli bottoni verdi che stillavano un umore asprigno; unico, al centro, resisteva il grande fiore bianco, che sembrava anzi farsi ogni giorno più luminoso e fragrante, mentre i bottoncini, ingrandendosi a poco a poco, rivelavano la loro natura: erano piccoli, succosi limoni, e più Ilaria ne coglieva più numerosi ne gemmavano, infittendosi tra le foglie lucide dell’alberello. La bambina affondava i denti nella loro polpa per succhiarne l’acre dolcezza, come un miscuglio di dolore e d’amore che le inondava l’anima refrigerandola. Non sapeva perché lo faceva. Sapeva solo che doveva farlo perché l’aiutava a sentirsi meglio.

Un bel giorno, di buon mattino, Ilaria aprì lentamente gli occhi, li richiuse, li aprì ancora, per lasciarsi raggiungere da un delicato raggio di sole che filtrava attraverso le tendine semichiuse della sua cameretta: nel dormiveglia le sembrò che lungo quel raggio si condensasse il sottile pulviscolo d’oro, mentre voci sommesse, quasi sussurrate, mormoravano al suo orecchio. Voci in qualche modo familiari, le ricordavano quelle dei piccoli gnomi che l’avevano aiutata a seppellire il suo Lucignolo: “Psss … psss … Ilaria Ilaria svegliati! Non indugiare corri a vedere l’alberello, ehi … psss … Ilaria Ilaaariaa!”

Ilaria si girò inquieta su di un fianco, non riusciva a capire se si trattasse di sogno o di realtà, mentre le voci si facevano sempre più insistenti ripetendo la stessa esortazione. Infine si decise: tirò via le coperte, balzò in piedi e corse in giardino portandosi diritta verso l’alberello ma … ad un passo da esso si arrestò sbigottita: il grande fiore bianco non c’era più ed al suo posto spiccava, tra il verde tenero delle foglie tutt’intorno, un piccolo limone … nero. Ilaria rimase attonita per un bel po’, finché ad un tratto le parve che il limoncino fosse animato da un leggero fremito, come un accenno quasi impercettibile di movimento. Aguzzò la vista, si accostò ancora un poco ed allungò lentamente la mano, divisa tra incredulità e speranza, finché le dita tastarono … qualcosa di morbido caldo e peloso. Come stirandosi e srotolandosi su sé stesso, il piccolo limone allungò le zampine e scodinzolò con un verso tenue e sottile, quasi più un cinguettio che un miagolio. Ilaria stentava a credere ai propri occhi e contemplava, ammutolita dallo stupore, un graziosissimo micino dagli occhi verdi ed il mantello nero – grigio tigrato.

“Lucignolo! Piccolo mio sei tu sei proprio tu non posso crederci!”

“E’ quasi lui.” – mormorò la voce della fata alle sue spalle. La bambina si girò di scatto: era proprio lei, la sua fata, che le sorrideva con un che di enigmatico nello sguardo.

“Come quasi, è proprio lui, è Lucignolo!”

“Osserva bene una delle sue zampine, questa di dietro, vedi, ha un piccolo manicotto di pelo bianco che Lucignolo non aveva.”

“Non è lui dunque?” – mormorò Ilaria, delusa

“Forse … o forse no.”

“Come sarebbe forse o forse no – protestò la piccola con vigore – è lui o non è lui?! Mi stai prendendo in giro forse?!”

“Questo no non lo farei mai!” – disse la fata, improvvisamente seria.

“E … allora?” – insisté Ilaria trattenendo il respiro

“Sinceramente? Non lo so.” – ammise la fata

“Come non lo sai, sei una fata e non sai queste cose?!”

“Ci sono cose così profonde che nemmeno alle fate è dato conoscerle. Così grande è il mistero che abbraccia la terra e il cielo. Ma comunque sia la cosa più importante è l’amore. E l’amore non ha bisogno di capire, d’indagare fino in fondo. Lui segue il profumo delle cose. Seguilo anche tu.”

“Non sai dunque se è lui o non è lui!” – insisté Ilaria

“Segui quel profumo.” – ripeté la fata con infinita pazienza

Ilaria guardò il gatto piccino piccino che scodinzolava sul palmo della sua mano e il muso imbronciato le si raddolcì.

“Ho deciso. Lo chiamerò Tenero perché ogni sera ho annaffiato l’alberello con le mie lacrime di tenerezza!”

La fata sorrise approvando con un cenno d’assenso.

Fu allora che accadde: un rombo scarlatto di folgore squarciò l’aria fendendo in due la volta azzurra del cielo; Ilaria sentì la terra muoversi e sussultare sotto i suoi piedi e cadde atterrita, stringendo il micino nella mano per la paura di perdere anche lui.

“Che succede?! – ansimò – Fata cosa succede ancora?!”

La bella signora dal manto bianco si chinò verso di lei.

“Non avere paura, vieni a vedere.”

La prese in braccio, insieme con il micino, e volò oltre la siepe: la mole immensa del drago giaceva riversa su di un fianco, immobile, gli occhi di brace sbarrati e vitrei, un rigagnolo di fumo acre gli usciva ancora dalle fauci. Ilaria lo guardò con sgomento stringendosi al petto il suo piccolo Tenero. La fata le lesse negli occhi la paura e la rassicurò: “Non temere, è morto. Ora non può più nuocere a nessuno. Oggi si è spezzato l’incantesimo maligno che imprigionava questo giardino.”

“Quale incantesimo? Che significa tutto ciò?”

“L’antica profezia diceva che la maledizione del drago si sarebbe sciolta solo quando un bambino avesse dato una grande prova d’amore per un altro essere vivente. Ora tutto ciò si è avverato perché tu hai amato tanto il tuo Lucignolo da donargli nuovamente la vita e, insieme, la libertà.”

“Ma perché io?! Perché proprio io fra tanti bambini?!”

“Perché non a tutti i bambini è concesso questo privilegio ma solo a quelli che, come te, sanno volare sulle ali del sogno. E adesso che tutto si è compiuto io ho finito il mio compito e torno nel regno delle fate.”

“Te ne vai?! No non andartene, resta qui con me e con Tenero staremo bene insieme non lasciarci!”

“Vorrei ma non posso. La regina delle fate mi ordina di tornare ed io debbo obbedire.”

“Ma tornerai qualche volta?”

“Chi può saperlo … forse.” – sorrise ancora la fata con fare sornione, socchiudendo gli occhi. Fu solo allora che Ilaria se ne accorse: gli occhi di smeraldo della fata somigliavano incredibilmente alle pozze verdi di Lucignolo, solo un po’ meno rotondi e più allungati verso l’ alto. Ed anche lo sguardo aveva qualcosa di magnetico, di felino.

“Ma … ma tu somigli a Lucignolo!”

“Davvero?”

“Sei una strana fata lo sai? Però sei simpatica!”

“Grazie del prezioso complimento!” – le rispose la fata con un filo di tenera ironia nella voce

“Forse è per questo che sei stata scelta proprio tu dal comitato delle fate!”

La misteriosa signora rise di cuore: levò le mani al cielo e subito le braccia tese si tramutarono in un paio di ali candide e maestose che l’attirarono potentemente verso l’alto: nell’aria, fattasi tersa ed incredibilmente sottile dopo la folgore che aveva ucciso il drago feroce, sostò per un momento il pulviscolo di stelline d’oro, poi anche quello disparve. Ilaria aveva ancora lo sguardo rivolto verso il cielo, quando sentì qualcosa di caldo e di bagnato lambirle le dita e si guardò la mano: era Tenero che la leccava con uno scodinzolio festoso. Mentre lo accarezzava un miagolio la indusse a guardare di fronte a sé: il musetto rotondo di Lucignolo vibrava nell’aria e le pozze d’amore splendevano più che mai.

“Lucignolo sei tu!”  Ilaria allungò la mano per toccarlo ma il musetto non aveva materia e disparve anch’esso come la fata. Allora Ilaria si affrettò ad accarezzare il micino che aveva nella mano, per rassicurarsi che non fosse anche lui soltanto un’illusione. Ma il piccolo schizzo d’inchiostro era lì in carne ed ossa, morbido e caldo tra le sue dita.

“Tenero. – lo chiamò, carezzandolo – Tenero o … Lucignolo? Ma sì, ha ragione la fata, non è poi così importante!”

E una curiosa sensazione le fece alzare nuovamente lo sguardo: la bella coda tigrata di Lucignolo s’inanellava davanti ai suoi occhi in segno di saluto, tracciando come un cuore … anzi no, mi correggo, non come, era proprio un cuore. Si. Un piccolo cuore di antracite.



LA VIAGGIATRICE DELL’ANIMA

 

 

Giulia accese l’ennesima sigaretta per ingannare l’attesa: mancava poco ormai alle operazioni di check – in all’aeroporto di Hyderabad ma lei non aveva fretta: accovacciata sul predellino del carrello portabagagli, contemplava le infinite  sfumature del suo ultimo tramonto indiano e, mentre gli occhi giocavano con l’oro ramato della linea dell’orizzonte, assecondando docilmente l’impercettibile degradare verso il porpora l’indaco e l’azzurro di quel cielo terso e crepuscolare, pensò che, se avessero avuto la consistenza dell’acqua, non avrebbe indugiato a bere quella festa di colori fino ad ubriacarsene dolcemente. Non ingurgitarli avidamente no, piuttosto centellinarli, sorseggiarli con calma, per dare loro il tempo di giocare a rimescolarsi nella sua mente stanca di inutili pensieri, scompigliando la trama ordinata dei ricordi in un momento in cui la cronaca non era ancora divenuta storia ma già invocava la confusione ingannevole della memoria. Due ragazzine si accostarono a lei, catturandola con i ricami impreziositi dei loro variopinti chudidar, i visetti di porcellana brunita finemente cesellati e due paia di occhi che rispondevano con simpatia al suo sorriso: no, era evidente che lei non poteva essere indiana, quella carnagione chiara e quella leggera spruzzata di  efelidi sul volto e sul dorso delle mani tradivano una diversa origine:

(1)   “Hello, where are you from?”

“Italy.” – sorrise Giulia

“Italy?! – le mandorle scure s’illuminarono di curiosità –

It’s very far from here!”

“Yes I know. May I take a picture of you? You’re so nice, very nice      indeed!”

Giulia  estrasse dallo zaino la sua minuscola macchina fotografica e le due bimbe si misero in posa di buon grado, sfoderando i loro migliori sorrisi: erano deliziose.

In una manciata di minuti la coppia di bambine divenne un trio ed il trio un quartetto ed il quartetto un quintetto, e così, in un tempo assai inferiore a quello che sto impiegando io per scrivere, Giulia si vide circondata da una frotta di faccine ammiccanti e di piccoli corpi sottili come giunchi che a turno reclamavano la loro fetta d’immortalità. La giovane donna ci prese gusto, parlottava divertita con quel piccolo stormo che continuamente si scioglieva e si riannodava, ogni volta portando con sé occhi nuovi e costumi nuovi: finalmente poteva rilassarsi e lasciarsi andare a quell’allegro cicaleccio primaverile senza dover temere l’agguato di cipigli aggrottati e di predicozzi stizziti.

“E così sono riuscita a ricostituire una succursale della missione, settore infanzia ed adolescenza, non mi smentisco mai!” – commentò Giulia tra sé e sé, compiaciuta di aver recuperato uno scampolo della sua proverbiale autoironia, al riparo da attacchi inopinati e bizzosità veterocattoliche e senili. Nel lento scorrere di giorni che avevano monotonamente scandito il suo breve periodo di volontariato presso il Centro di Cura Lebbrosi della missione, il festoso cinguettare dei bambini che frequentavano il collegio era stato uno dei pochi provvidenziali sprazzi di luce piovuti non si sa da dove e come per magia, a dissipare qui e lì la lunga ed inquieta penombra di quel suo soggiorno indiano. Non v’era alcun bisogno di orologi, bastava scandire il tempo al ritmo di quei puntuali crescendo e decrescendo di voci infantili: tra le sette e le otto del mattino la colonna sonora dell’inizio di un nuovo giorno di scuola; le baruffe della ricreazione a metà mattinata; i trilli della pausa pranzo; il brusio  incessante delle lunghe code di ragazzini che attendevano il loro turno per il premio della caramella pomeridiana; la monotona filastrocca serale del S.S. Rosario cui, come per incanto, subentrava l’ultimo rapido guizzo di brulicanti sonorità prima della ritirata serale. Giulia li sbirciava seminascosta da un pilastro, in attesa che si concludessero i doveri religiosi della giornata, per gustare l’inevitabile ripetersi del rito: le bastava sporgersi un po’ dal pilastro per rendersi visibile ed occhieggiare nella loro direzione: puntuali, come in risposta ad una parola d’ordine, le sciamavano incontro e le si assiepavano tutt’intorno sgomitando e scansandosi l’un l’altro per cercare di ottenere l’esclusiva della sua attenzione:

(2) “Sister, sister, my name is Rajud, my name is Chorea, my name is Shiva, my name is, my name is, my name, my name, my name…”

cento paia d’occhi e di sguardi vispi, calamitati dalla sua macchinetta fotografica, sostavano brevi momenti, saltellando sgambettando alzandosi in punta di piedi dietro i compagni più alti, e s’allontanavano un attimo per poi prontamente tornare all’assalto, e stavolta era il turno delle verifiche della memoria di Giulia:

“Sister, sister, my name is? My name is? My name, my name, my name…”

“Oh,  I can’t remember each one of you, you are too many!” protestava Giulia con un ’aria di finto disappunto. Altro appuntamento irrinunciabile era quello della doccia comune: piccoli gruppi di esili corpi nudi s’affollavano attorno a due grandi lavatoi, s’insaponavano con movimenti lesti riempendo l’aria delle loro urla giocose per poi bearsi sotto il getto delle pompe e rivestirsi rapidamente, le zazzere umide e la pelle lucida ancora madida di minute perle d’acqua, mentre decine e decine di camicette  gonnelle e pantaloncini stesi al sole asciugavano nella calda brezza del primo pomeriggio; o ancora quello del silenzio del doposcuola: per motivi che lei non riuscì mai a capire c’era un momento della giornata, subito dopo la doccia, in cui i monelli dovevano sedersi in ordinate file sotto lo sguardo severo dell’insegnante che faceva roteare una bacchetta, promettendo di lasciargliela assaggiare. Dietro di lei Giulia ricambiava divertita le loro occhiate d’impertinente complicità: si sentiva curiosamente una di loro, anche lei minacciata da una bacchetta invisibile che rischiava di abbattersi su di lei quando meno se l’aspettava. Talvolta di sera, contemplando la danza natalizia di luci colorate che incorniciavano il tetto del convento mentre s’immergeva nella sussurrante oscurità del boschetto, il silenzio cullato soltanto dal discreto zampillare della fontana di S. Francesco, le pareva di trovarsi al cospetto della casa incantata di Hansel e Gretel; ma non era il caso di lasciarsi ingannare dal marzapane e dal tetto di cioccolata di quella casa da fiabe: come Gretel, anche lei doveva ricorrere a continui stratagemmi per sfuggire agli attentati della strega. La sua strega era Don Luciano, l’attempato padre missionario che non tralasciava di rizzelarsi per ogni nonnulla: il corpo un po’ ricurvo, la camminata lenta ed appoggiata ad un bastone, un biancheggiare di barba e di capelli che lasciavano indovinare di essere stati biondi o rossicci un tempo, e soprattutto quella sua voce profonda, dall’inflessione inequivocabilmente lombarda, che esplodeva in subitanei ed imprevedibili rimproveri: “Cos’è quel fiore tra i capelli? Troppo vanitosa come tutte le donne! Non sei ancora andata a visitare la grotta della Madonna di Fatima? E perché ieri non sei venuta a messa, invece di startene nella tua stanza, cosa fai tutto il giorno?! Avessi avuto una volta il piacere di vederti recitare il Rosario, solo l’altra sera al lebbrosario, ma perché ti ci sei trovata per caso e nemmeno ce l’avevi un rosario, ho dovuto prestartelo io! E perché distrai i bambini? Quelli ti guardano e non pregano più!” Giulia si trincerava in un caparbio ed imbarazzato silenzio, facendo ogni volta il conto alla rovescia dei minuti che mancavano alla conclusione del pranzo o della cena, i due appuntamenti obbligati con Don Luciano, un vero e proprio incubo espiatorio dei propri peccati, non riusciva a capire bene quali. La mite Clara, che serviva a tavola, di quando in  quando alzava gli occhi al soffitto in segno di partecipazione ma era troppo umile e sottomessa per osare di offrirle la propria solidarietà di donna. Quei silenzi a tavola erano densi e scuri come piombo, rumoreggiavano di insidiosi non detti, delle provocazioni irose di Don Luciano e delle corrucciate e sotterranee ribellioni di Giulia. L’uscita dal refettorio e la rapida risalita in camera erano sulle prime un’autentica liberazione ma, con il faticoso passare dei giorni, anche quel sollievo diventava sempre più esiguo e fugace: ormai non c’era più alcun luogo ove la giovane potesse mettersi al riparo dal frastuono delle proprie continue, immaginarie autogiustificazioni, mentre Don Luciano giganteggiava inesorabile sulla sua scena interiore con le sue stizzosità elargite a generose manciate. Avesse almeno potuto godersi quelle aiuole fiorite, la carezza di quel mite sole sul principiare dell’estate indiana, considerava Giulia, stizzita a sua volta, e quasi rimpiangendo il freddo cuore dell’inverno italiano. Che ne era stato di quell’angolo di paradiso della sua memoria, della luce purissima della mattina del suo primo Capodanno indiano che l’aveva avvolta, solo un anno prima, mentre schiudeva pigramente le persiane della sua stanza per gli ospiti e niente avrebbe potuto essere più gioioso di quella profonda pace che sentiva espandersi dentro di lei?

“A volte davvero penso che l’unico fine di questa nostra vita sia quello di veder cadere ad una ad una tutte le  nostre idealizzazioni.” – osservava Giulia con amara ironia, mentre se ne stava seduta a gambe incrociate sull’ampio terrazzo della sua stanza, cercando di respirare  dalle stelle di quel nitido cielo serale il balsamo per l’inquietudine che l’aveva accompagnata tutto il giorno. I grilli scandivano la momentanea tregua delle sere di Giulia e persino la voce di Don Luciano che saliva dalla camera sottostante a recitare l’ultima litania della giornata non la infastidiva più di tanto; la voce sembrava provenire da un luogo remoto ed il nemico era momentaneamente lontano. No, erano piuttosto altre le inquietudini della sera: la lettura di Josè Saramago la intrigava di viva passione ma non si può dire che i rovesciamenti paradossali di quel “O Evangelho segundo Jesus Cristo” la confortassero di qualche certezza nel bel mezzo della tormenta spirituale che ormai l’agitava da mesi; piuttosto quelle righe inquietanti su di un Cristo vittima sacrificale ignara ed immolata ad una  divinità indifferente, non facevano che aggiungere dubbio a dubbio, inciampo ad inciampo sulla via della sua travagliata ricerca. Ma non finiva qui: quasi puntualmente ormai quella lettura serale era interrotta dal ritorno di Father Daniel, il giovane sacerdote indiano missionario in Cile che era momentaneamente tornato al suo paese, ospite della stanza all’altro capo del terrazzo. Era gentile e delicato Father Daniel, il garbo dei suoi modi ben si accordava con la sua presenza di bellezza discreta, non aggressiva, la struttura slanciata e longilinea, il viso dai lineamenti regolari incorniciato da una barba ben curata, gli occhi scuri e profondi. Dopo qualche titubanza Giulia aveva preso ad invitarlo sulla poltrona in vimini di fronte alla sua e trascorrevano un breve tempo così, a chiacchierare, non senza difficoltà per  l’inglese abbastanza arrugginito di Giulia e per quello spedito di Father Daniel dalla pronuncia indiana difficilmente comprensibile. La donna gli confidava qualcosa dei suoi crucci contingenti, che il sacerdote cercava di smussare e ridimensionare, mentre lui a sua volta era alle prese con la difficile risoluzione del rilevamento della proprietà paterna e si sentiva diviso tra i problemi di un cognato alcolista che aveva dissipato tutte le proprie sostanze e quelli di un fratello succube di una moglie ostile.

(3) Ma….”Anyway I’ll cope with all this, God is great!”

– come ebbe a concludere una sera alzandosi ed avviandosi verso la sua stanza. “Beato te che ci credi così tanto!”- pensò Giulia, mentre i suoi occhi seguivano la sagoma scura e sottile allontanarsi nella penombra del terrazzo comune, distogliendoli da lui solo quando  egli ebbe chiuso la porta della stanza dietro di sé.

“Quanto sciupio di ben di Dio in nome di Dio!” – commentò la giovane, soffocando un respiro un po’ più profondo e cercando di spazzare via dalla sua mente la fantasia di ciò che avrebbe fatto quella sagoma una volta chiusa la porta.

“Da quanto tempo la tua gola non conosce altro tocco che non sia quello del colletto da clergyman che ti accompagna ovunque? – soggiunse, sempre tra sé e sé –  Per fortuna ancora pochi giorni ed interverranno migliaia di chilometri a separarci, molto più efficaci di quella saggezza che notoriamente mi fa difetto,“ – concluse Giulia, mentre il ricordo di altre pelli scure le mordeva il cuore cercando la via più diretta per insinuarsi in una ferita ancora aperta. “Chissà cosa prova una donna indiana a veder sciogliere ad una ad una tutte le infinite e complicate pieghe del suo sari … chissà… meglio… non pensarci … meglio non …” – e Giulia cercò di ignorare quel sottile brivido sotto pelle che le  percorreva la schiena e le gambe con sfrontata indiscrezione.

Già, quegli splendidi sari: lei stessa ne aveva acquistato un paio ma              disperava di poter mai imparare ad indossarli: contemplava ammirata il giuoco sapiente delle dita agili ed esperte che drappeggiavano quel complicato abbigliamento, regalandole la fallace impressione di un’operazione quanto mai semplice a farsi. Anche le suore si riaggiustavano addosso con rapidi tocchi i loro sari che differivano l’uno dall’altro solo per le diverse gradazioni dal rosa pesca al rosa antico. Le piacevano  la sobria bellezza di quei sari, i capelli non imprigionati da veli o sottogola ma sciolti liberamente sulle spalle; unico ornamento, nonché indizio del loro stato, un lungo crocefisso di legno al collo. Suor Jasmine, la sola che parlasse l’italiano, mediava con le sue strategie diplomatiche il difficile dialogo tra Giulia e Don Luciano. Per fortuna tutti gli altri erano gentili con lei e mitigavano l’asprezza di quel suo soggiorno. Tutti: dalle suore alle insegnanti, dal guardiano dell’ingresso della missione al Dr. Babu Rao, sempre prodigo di spiegazioni e consigli, dai pazienti ad Ignacio, l’amministrativo, e Mariano, il responsabile del settore riabilitazione, che le facevano compagnia con la sigaretta della pausa lavoro, i “cigarette friends”, come si erano autodenominati.

“Non è poi così male!” – pensava Giulia nei suoi momenti di umore migliore – se solo queste mie benedette dita fossero un po’ più lunghe!”. Proprio così,   quelle sue piccole dita che erano sempre state la sua afflizione per ogni compito che richiedesse una consumata manualità: annaspavano tra le pieghe quando cercava di indossare il sari o bisticciavano con le punte disabitate dei guanti chirurgici sempre troppo grandi e con le bende della  sala medicazioni. Per fortuna c’era la mascherina ad occultare le sue smorfie di disappunto; quanto ai lebbrosi sedevano attendendo pazientemente il proprio turno, le ulcere e le deformità di mani e piedi ben in vista, negli occhi una mitezza che la sorprendeva ogni volta, non sapeva se attribuirla ad una saggezza  ignota e misteriosa per l’occidente o ad una rassegnazione atavica o magari ad entrambe le cose. Comunque fosse erano proprio i sorrisi affettuosi delle lebbrose a regalarle alcuni dei momenti migliori, doveva convenire Giulia, stupefatta lei stessa che un luogo di sofferenza e di emarginazione come quello potesse convertirsi in un luogo di pace e persino d’allegria. Non mancava mai di fare una o due brevi puntate al reparto donne e loro l’accoglievano con lo sguardo che gli si illuminava e con un gesto particolare di benevolenza che non aveva mai visto prima o altrove: stringevano i pugni e se li lasciavano rotolare lungo le tempie. Pur nel loro umile e talora miserevole stato, non mancavano di adornarsi di monili; ce n’era una in particolare che aveva entrambe le braccia completamente inanellate da un’incredibile serie di cerchi di legno bianco, ad una certa distanza si sarebbe detto che fossero fasciate per via delle ulcere lebbrose. Ma era anche un altro il  motivo che irresistibilmente la sospingeva in quel reparto ed il motivo si chiamava Tirupatamma. Giulia ammiccò verso il sole morente come se da quel variopinto tramonto volesse catturare i colori dei chudidar, sempre diversi l’uno dall’altro, che vestivano il corpo esile e snello di quella graziosa ragazzina: quindici anni, non lo si sarebbe mai detto! Quei due minuscoli bottoncini che aveva al posto dei seni a malapena avrebbero suggerito un inizio di sviluppo puberale. Stava lì parcheggiata da tre mesi buoni perché i suoi genitori non si decidevano a dare il loro assenso per l’intervento che avrebbe dovuto riabilitare il piede destro colpito da una malattia ormai più che curabile ai giorni nostri, ma il cui nome non cessa di essere evocatore di sinistri fantasmi e di terribili punizioni divine. Giulia l’aveva conosciuta l’anno precedente e l’aveva presa a cuore; aveva a lungo desiderato il momento in cui avrebbe potuto concedersi la gioia di adornarla lei stessa con la parure di collana ed orecchini rosso granata che aveva acquistato espressamente per lei in un suo viaggio mesi prima. Ogni mattina, al suo arrivo, Tirupatamma le balzava incontro con le movenze agili di una gazzella a dispetto del piede offeso e correva ad aprire un cofanetto con il suo piccolo make up: ogni volta sceglieva meticolosamente il colore del “terzo occhio” che avrebbe adornato la sua fronte, curando che si sposasse bene con le tinte della tunica, dei pantaloni e della lunga sciarpa del chudidar del giorno; oppure Giulia la trovava già intenta a pettinare le sue ciocche scure e setose raccogliendole in due allegri codini, o ancora ad intrecciare con incredibile abilità, nonostante l’amputazione dell’indice della mano destra, una piccola, leggiadra ghirlanda di fiori da appuntare tra i capelli all’uso delle donne indiane. Terminata la sua toeletta, era la volta di Giulia e del suo terzo occhio; ogni volta la giovane donna si chiedeva non senza stupore come facessero le sottili ditine a pescare tra quei frammentuscoli di carta colorata, selezionando puntualmente quello più adatto all’abbigliamento del giorno. La si sarebbe detta una sapienza femminile innata in una fanciulla che non aveva mai conosciuto la scuola e non sapeva né leggere né scrivere, nonostante l’età. Non era molto sveglia nell’apprendere, ad esser sinceri, piuttosto pigra anzi, ed arrivare ad intendersi era ogni volta una scommessa ma in fondo a Giulia tutto ciò importava poco: il linguaggio amoroso degli sguardi e dei gesti era molto più eloquente di quelle poche paroline di inglese stentato e sgrammaticato in cui si esauriva tutto il patrimonio linguistico  di Tirupatamma; la ragazzina si schermiva, commentando ogni inciampo della lingua con un risolino tra l’imbarazzato ed il gioioso, magari un po’ vacuo, è vero, ma che aveva il pregio di scoprire la sua dentatura candida e perfetta e di farle fiorire le guance in due fossette appena accennate, a completamento della sua ingenua civetteria. Nell’andar via dal reparto Giulia lasciava che lei l’ accompagnasse fino al cancello che chiudeva l’ingresso dell’area ospedaliera affacciandosi sul viale che conduceva al convento, la casa stregata di Hansel e Gretel. Prendeva la sua piccola mano nella propria e Tirupatamma ve l’abbandonava docilmente mentre camminava al suo fianco in direzione del cancello, quindi si congedava da lei sfiorandole la tempia con un bacio lieve e seguitava voltandosi per un ultimo saluto A volte Giulia la guardava con una punta di mestizia mentre Tirupatamma si dimenava con grazia al ritmo di una di quelle tipiche melodie indiane, molto modulate e un po’ melense, che risonavano ovunque. Non era riuscita, no, come aveva sperato, a modificare il suo karma: la riabilitazione chirurgica tardava a venire e di istruzione neanche a parlarne; l’unica prospettiva realistica sembrava il matrimonio in giovanissima età, per giunta con un ex lebbroso. Ma forse non aveva ragione di rattristarsi, forse era solo il suo senso di frustrazione, magari era ciò che la giovinetta voleva, in fondo cosa poteva sapere un’occidentale come lei dell’interiorità di una ragazzina indiana povera e cresciuta in un mondo culturalmente deprivato? E così Giulia si rassegnava a trarre un po’ di gioia dai piccoli scambi di ogni giorno: si lasciava tatuare con l’Elnè le dita il palmo ed il dorso delle mani scuotendo il capo in segno di protesta solo quando Tirupatamma mostrava di voler passare agli avambracci. Intuiva che quello era il piccolo, semplice modo che la ragazzina aveva a disposizione per ricompensarla di tutte le sue cure.

(4) “You no Italy … here …. dressing.

– le  chiedeva spesso la giovinetta, pregandola di  non tornare in Italia ma di rimanere lì ad occuparsi di medicazioni –  You and me flight … Italy!”- le propose al loro ultimo incontro, alla vigilia della partenza dell’indomani, quando il sapore ed il profumo delle cose già cominciano a tingersi di nostalgia.

“Magari, chissà … un giorno voleremo insieme in Italia …” – replicò Giulia senza molta convinzione, presagendo che non l’avrebbe più rivista. Anche Tirupatamma andava  via momentaneamente: era venuta a prenderla la madre, una donna ancor giovane, non brutta, no, di aspetto nel complesso gradevole ma come neutro ed un po’ spento, raramente accennava un abbozzo  di sorriso. Giulia aveva intensamente sperato che fosse giunto il momento del sospirato assenso all’intervento chirurgico ma il sorriso di speranza le morì sulle labbra quando Suor Janine, la suora infermiera, le spiegò che si trattava solo di una breve uscita per consentire alla ragazzina di partecipare ai festeggiamenti di una delle tante divinità indù. Suor Janine, ritta in piedi sulla soglia d’ingresso del convento, era visibilmente contrariata, il suo tono di voce era alto ed aspro mentre gridava rapide ed incomprensibili parole all’indirizzo della madre, ma Giulia intuiva che doveva trattarsi di una strigliata, e aveva tutta l’aria di non essere la prima, per la noncuranza della famiglia di Tirupatamma. L’ultima immagine che la giovane portò con sé fu quella di  madre e figlia al cancello, l’espressione triste e mortificata: avrebbe voluto chiamarla e correrle incontro per stringerla in un ultimo abbraccio ma la presenza della madre la intimidiva, sentiva come se quell’adozione a distanza fosse stata una sorta di furto e lei stessa si viveva come una ladra; sapeva bene che erano i sensi di colpa per essersi immaginata come una madre più amorevole e attenta, più desiderabile, una madre migliore. Lasciò dunque che si voltassero scomparendo dietro l’alta siepe. Giulia doveva ammettere con se stessa che quella delicata e sfortunata ragazzina aveva così primeggiato sulla scena in quei quindici giorni da far si che lei quasi dimenticasse il volto della piccola Asritha, il suo primo amore indiano, la bimba che aveva trepidamente adottato anni prima in memoria di sua madre, e che l’anno precedente aveva incontrato per la prima volta. Ora, a distanza di un anno, si era stupita di vederla così cresciuta e quasi diversa, non lo avrebbe immaginato mentre la jeep ripercorreva il lungo tragitto di quasi due ore che separava la missione dal piccolo villaggio in cui Asritha viveva con i genitori ed il fratello minore: adesso, con i capelli  non più a caschetto ma raccolti all’insù a far risaltare meglio le mandorle degli occhi leggermente oblique verso l’alto, sembrava una cinesina di colore. La giovane donna si era accovacciata alla sua altezza, per donarle la seconda bambola di porcellana che aveva fatto parte della collezione materna.

“C’è qualcosa che vuoi chiedere alla signora?”- le domandò in indiano la suora che era andata per fare da interprete.

(5)“Pray for me” – rispose la vocina esile e quasi impercettibile, mentre negli occhi di Giulia le immagini dell’attualità erano prepotentemente insidiate e quasi scalzate da quelle della memoria di un anno prima: lo sguardo rispettoso ma stupito della giovane madre e dei vicini di casa all’arrivo di quella misteriosa signora che parlava una lingua mai sentita prima e recava con sé uno zaino carico di doni; l’allegria scanzonata del fratellino che giocava a rovesciare le ceste in cui belavano i capretti appena nati; il sorriso di Asritha che dopo le prime timidezze era corsa via felice per mostrare alle compagne di scuola la sua bambola, immediatamente naturalizzata indiana con un puntino sulla fronte che la piccola aveva pescato chissà dove; e da ultimo il suo farsi incontro a Giulia con una piccola caraffa piena di latte appena munto ed ancora tiepido …. la vedo camminare nel sole/ riverberi d’argento sulla seta nera dei capelli/ e sulle piccole caviglie tintinnanti/ delizia di profumo bianco e dolce che m’inebria la gola/ calmo discende /caldo s’espande/ e mi accarezza il cuore …. Giulia si riscosse e socchiuse gli occhi sugli ultimi bagliori del tramonto: la sigaretta ormai si era quasi del tutto consumata e la voce impersonale dell’altoparlante annunciava l’inizio delle operazioni d’imbarco. Si alzò senza fretta lasciando che i colori del ricordo sfumassero impercettibilmente  nell’ultima ghirlanda di fumo … .

 

PICCOLO GLOSSARIO

         

  1. “Ciao, da dove vieni?” “Dall’Italia” “Italia? E’ molto lontana da qui!” “Lo so, posso scattarvi una foto? Siete così graziose, davvero molto graziose!”

    (2)“Sorella, sorella, mi chiamo Rajud, mi chiamo Chorea, mi chiamo Shiva,        mi chiamo, mi chiamo….”

“Sorella, sorella, come mi chiamo io, ed io, ed io?”

“Oh, non posso ricordarvi tutti, siete troppi”

  1. “Comunque, verrò a capo di tutto questo, Dio è grande!”
  1. “Prega per me.”


CENERENTOLA

Erano le prime ore di un caldo pomeriggio di maggio inoltrato. Avvolta dal carezzevole tepore di un’estate ormai alle porte, Celeste assaporava intensamente uno di quei suoi rari, provvidenziali momenti di ristoro strappati al caotico susseguirsi dei giorni, delle settimane e dei mesi. Le piaceva lasciarsi raggiungere dalle sottili lame di luce che filtravano attraverso le palpebre socchiuse, ammiccando quel tanto che bastava per intravedere i giocosi mulinelli che l’acqua le disegnava intorno alle caviglie. I suoi respiri, lenti e profondi, assecondavano docilmente il ritmico rumoreggiare della lieve risacca marina mentre, appena più in là, la distesa di liquidi cristalli riluceva quieta e la si sarebbe detta immobile se non fosse stato per le piccole increspature create dalla brezza. Celeste si sedette sui talloni per immergere le mani nell’acqua e, mentre contemplava i fiori di spuma che le indugiavano tra le dita, come per incanto uno di questi sembrò assumere forma consistenza e colore, sfiorandole il palmo della mano destra con il tocco carnoso dei raggi rosso e arancio di una piccola stella marina. Cercò di trattenerla ma la stellina scivolò via navigando verso il largo rapidamente, e poi più lentamente, come a lasciarsi rincorrere.  Celeste rispose di buon grado all’invito e senza avvedersene s’immerse sempre più in profondità, assecondando divertita il giuoco di quella stella dispettosa che ogni volta sostava, lasciandosi appena sfiorare, per poi sgusciare via lesta sollecitandola a una nuova rincorsa.

L’acqua le arrivava ormai quasi alla gola quando, all’ennesimo tentativo di afferrarla, il tocco liscio e carnoso della  stella si tramutò in un bruciore intenso ed acuto.

Celeste cacciò un urlo e ritrasse bruscamente la mano: le dita sanguinavano trafitte dai morsi di un’aggressiva medusa che puntava pericolosamente nella sua direzione per sferrarle un nuovo attacco. Cercò affannosamente di guadagnare la riva ma il corpo, fino ad un attimo prima leggero e gioioso, era divenuto greve come piombo e la distesa cristallina una massa grigia di consistenza densa e compatta, quasi solida, che la faceva ansimare nell’immane sforzo di fenderla. Celeste annaspava ormai stremata, il liquido schiumoso ed amaro che le gorgogliava nella gola tirandola giù verso il fondo, sempre più giù, … finché si rizzò a sedere sul letto soffocando un urlo: sentiva il respiro spezzarlesi nella gola contratta ed un pulsare tumultuoso al collo e alla tempia come di due minuscoli cuori che battevano all’impazzata. La mano destra, trafitta da microscopici aghi, aveva quasi perso ogni sensibilità: la strofinò convulsamente contro il fianco mentre una penosa sensazione di formicolio elettrico le percorreva tutto il corpo, costringendola ad alzare e riabbassare le ginocchia più e più volte nel disordinato tentativo di calmarsi. Rimase così per un tempo quasi immemore, le palpebre pesanti sugli occhi chiusi, lasciando che il respiro ed il battito dei due cuori rallentassero, mentre la morsa  trafittiva degli aghi abbandonava pian piano la sua presa. Quanto tempo trascorse così? Un’ora, mezz’ora, due ore? Non avrebbe saputo dirlo e, del resto, non aveva più molto senso il tempo scandito dalle lancette di un orologio quando la mente era assediata dal rovello ossessivo di pensieri sempre uguali a sé stessi: un turbinare di situazioni paradossali che da tanto, da troppo tempo ormai, la incalzava senza tregua, trascinandola in un ritmo crudele di accadimenti e di tumulti interni. La sveglia sul comodino segnava le due: di quale mese, di quale giorno, di quale anno? Noncurante di qualsiasi risposta ed insofferente di quel letto che, notte dopo notte, testimoniava delle sue interminabili veglie e dei suoi brevi ed angosciati rifugi nel sonno, Celeste si alzò diretta in cucina. Passando lungo il corridoio si sorprese a cogliere la propria immagine nello specchio alla sua destra: scarmigliata, pallida, i lineamenti contratti, due occhiaie livide che parlavano della perdita continua di sonno, un’emorragia che non dava segno di arrestarsi. Chiusa la porta della cucina dietro di sé puntò decisa verso il camino: la calda primavera del suo incubo marino aveva infatti ceduto il passo ad un freddo inverno di fine dicembre. Si chinò sulla grande cesta che fungeva da legnaia scegliendo meticolosamente il ceppo, i rami e da ultimo le più sottili fascine, e disponendoli con cura nel vano del caminetto. In quel mentre sentì un raspare lieve alla porta accompagnato da un guaito desolato.   Le aprì: “Amorevole, tu sei qui, vieni dalla tua mamma, tesoro!”

L’amorevole, ben ritta sulle zampe posteriori, si aggrappava ai fianchi di Celeste come a volerla abbracciare, ricadeva per poi rizzarsi ogni volta, improvvisando un festoso girotondo. Acceso il fuoco la donna si lasciò cadere sul divano  e, con un rapido blitz, la cagnetta le si acciambellò in grembo scodinzolando: le orecchie ritte ed il piccolo muso appuntito posato con un sospiro sulle ginocchia di Celeste, era così bella da sembrare quasi finta se non fosse stato per lo  sguardo liquido dei suoi occhi malinconici.

Come ipnotizzata dal fuoco, Celeste posò la guancia sul pelo morbido della sua Principessa e rimase così, gli occhi socchiusi contro il bagliore allegro della fiamma. Forse qualcosa di simile a quell’avvolgente sensazione di abbandono era ciò che avrebbe provato reggendo tra le braccia la sua bambina perduta … forse … chissà, non lo avrebbe mai saputo. Chissà se avrebbe saputo essere per sua figlia una madre più allegra e solare della propria. Sapeva che avrebbe dovuto sempre convivere con il rammarico di una complicità desiderata e mai vissuta: ancor oggi che la madre incombente e critica della sua infanzia era ormai solo una vecchietta fragile da accudire, Celeste avrebbe dovuto ogni volta riformulare il patto con quanto le era mancato e con quanto invece le toccava ancora rielaborare per sperare di affrancarsene un giorno: poter ricordare la smorfia materna di scontento amaro e di recriminazione immotivata  senza avvertire ogni volta quel pungiglione familiare che le mordeva il cuore. Eppure qualche ricordo tenero riaffiorava, la memoria di qualche piccolo segreto da mantenere tra sé e la mamma: il buondì che la mamma le serbava, ad esempio, raccomandandole di non farne parola con le sorelle più grandi per non suscitare le loro gelosie. Un giorno però Celeste non era riuscita a mantenere la promessa.

“Cosa hai mangiato di buono per merenda?” – le aveva chiesto Dolores, la primogenita, di dodici anni maggiore.

“Il buondì!” – le era sfuggito candidamente di bocca. Ma ogni cosa ha il suo prezzo anche quando si hanno solo cinque anni, e Celeste  pagò la sua ingenuità con un atto di rappresaglia: “Ah il buondì! Bene, prendi queste cento lire e scendi a comprarne uno anche per me!”– le  aveva ingiunto Dolores. Celeste impugnò l’attizzatoio per ravvivare il fuoco: non v’era necessità che serrasse l’impugnatura con tanta foga ma una collera sorda si era impossessata della sua mano prima ancora che avesse il tempo di avvedersene. Ci aveva messo  un bel po’ di anni per riaffiorare, quell’isola di memoria, e forse a ben pensarci il rapporto con le sue sorelle non era mai stato così pienamente felice come la nostalgia idealizzata di quella mitica età dell’oro aveva sempre amato ricordare. E perché aveva obbedito  alla consegna del buondì senza il minimo accenno di protesta, per quanto un vago sentore d’ingiustizia si fosse affacciato alla sua mente infantile?

Perché te lo chiedi, Celeste, come se non avessi già la risposta a fior di labbra? Scendesti perché non avresti mai potuto consentirti di tradire quell’immagine di bambina dolce gentile delicata che tutti coltivavano di te e che tu tenevi gelosamente a perpetuare. La stessa accorata difesa che ancor oggi t’impedisce di uccidere le tue sorelle nella fantasia, sebbene  loro già da un pezzo stiano facendo del loro meglio per uccidere te nella realtà: ucciderti, se non nel corpo, nei desideri nelle emozioni nei pensieri nei ricordi. Soprattutto nei ricordi. Eppure il confine fra tenerezza e rancore è così sottile, una zona grigia di ambivalenza inafferrabile. Si perché non tutto era mito, non tutto poteva imputarsi ad una pietosa ed ingannevole  confusione della memoria. Quei pigri ed assolati pomeriggi d’estate nella casa di campagna, ad esempio, il cicaleccio divertito delle voci adolescenti di Dolores e Selvaggia che si mescolavano con il timbro più esile della sua voce infantile. Ma sì, quel pomeriggio di luglio, quello del trucco, ricordi?

“Guardati allo specchio, Celeste, sei proprio da sballo!” Celeste rimirava i sontuosi baffi di gelato al cioccolato che le sorelle le avevano dipinto sul labbro e che si sposavano assai bene con il biondo cenere dei suoi codini

“Aspetta, non ti muovere che ti trucchiamo le guance con la fragola, ferma ferma ancora un po’!”  Ridevano Dolores e Selvaggia, tra una cucchiaiata di fragola e l’altra, una in bocca ed una sulle sue guance sempre più clownesche: un riso tenero, scanzonato un …. un ghigno sardonico, una risata cupa, astiosa. Celeste si ritrasse dalla navata destra della cattedrale correndo verso la navata opposta ma la risata riecheggiò sulla sinistra bloccandola. nella sua corsa: “E’ colpa tua se babbo mamma e zia stanno peggiorando di giorno in giorno! Tua, di tuo marito e di tuo figlio, bella combriccola di criminali ali ali ali! Con quei vostri cocktail di porcherie che avete pure l’impudenza di chiamare farmaci, roba  da codice penale ale ale ale! Ma guardatela la figlia medico, l’orgoglio di babbo, chi credi d’incantare, carina, ormai lo sa tutto il paese di che panni vesti ah ah ah! Ma non pensiate di passarla liscia tutti e tre, abbiamo capito fin troppo bene le vostre trame ame ame ame! Ma sì, neutralizzarli, i nostri genitori, metterli completamente fuori giuoco per poter fare man bassa delle loro case e del resto dei loro poveri beni, i risparmi di una vita intera, siete di un ingordigia disgustosa osa osa osa! E così, grazie a quelle schifezze che gli fai ingurgitare, mamma non si regge in piedi, zia sta diventando irriconoscibile e babbo farnetica! E’ colpa tua, e tutta colpa tua tua tua tua, ah ah ah!”

Celeste volgeva il capo a destra a sinistra in su in giù, ma non v’era scampo: la risata rumoreggiava da una navata all’altra, pioveva inclemente dalla cupola dell’abside, prorompeva avvinghiandole le caviglie dal basso: come se quel ghigno avesse un volto ed il volto moltiplicasse sé stesso in una fuga infinita di specchi. Cadde in ginocchio premendosi le palme delle mani sulle tempie con quanta forza aveva ma invano, infine sobbalzò: i due minuscoli cuori nuovamente pulsavano come impazziti e qualcosa di caldo e di bagnato le lambiva la guancia: era Principessa che le leccava il viso e capì che aveva avuto un altro incubo, ancora una volta la stella si era proditoriamente trasformata in medusa. La cagnetta le strofinò il muso umido sulle labbra come a rincuorarla, era straordinaria la sua capacità di sintonizzarsi con le vibrazioni più sottili della sua padrona. L’accarezzò a lungo per acquietarsi: i piccoli cuori rallentarono il loro battito ma al panico era subentrato un arcano senso di colpa. Non aveva proprio alcuna ragione per sentirsi colpevole, si diceva, ed era la pura verità. Le aveva tentate tutte, si era imposta di non perdere il controllo e di non reagire, a dispetto di tutte le provocazioni usatele dalle sorelle e dai cognati, delle loro scenate, delle stramberie, delle  registrazioni telefoniche e, da ultimo, delle intimidazioni a suon di avvocati, fogli di carta bollata e diagnosi psichiatriche costruite ad hoc, anticamera di qualche provvidenziale interdizione dei suoi. Aveva tollerato una lunga processione di badanti – spie, emissarie delle sue implacabili sorelle, scelte accuratamente per sorvegliare e riferire sui suoi movimenti e sulle alterne vicende di salute dei genitori. Per tre lunghi anni si era negata pressocché ogni svago pur di assistere loro e la zia materna, prodigandosi in cure ed in attenzioni con la stessa puntigliosa diligenza che l’aveva contraddistinta fin da bambina, il suo antico lasciapassare per l’amore. Ed infine, stremata, si era ritratta in sé stessa per sopravvivere, tollerando di essere sfidata sul terreno più ostico che potesse esserci per lei, l’accettare di non avere più controllo, di sentirsi in balia di evenienze imponderabili, lei, così incline ad organizzare, pianificare, decidere. Eppure il senso di colpa l’assediava, penetrava nelle sue fibre come un veleno sottile, subdolo ma pervicace: intuiva che legali, magistrati, forze dell’ordine si prestavano assai bene a puntellare il suo tribunale privato perché un’istanza giudicante radicata, arcigna, giganteggiava sulla sua scena interiore facendola sentire irragionevolmente impaurita come una bambina colta in fallo. Sospettava che purtroppo dovessero averlo intuito assai bene anche le sue sorelle, ed in virtù di quelle consapevolezze sottili, non dette, che forse si succhiano insieme con il latte materno. Dolores, ad esempio, era una di quelle creature che si sentono sempre in credito con tutto e con tutti, con la vita, con la famiglia, con le ingiustizie che a torto o a ragione ritengono di aver patito; oggettivamente l’esistenza non le aveva risparmiato colpi bassi  ma le traversie dovevano aver trovato un terreno assai fertile se in tempi lontani era stata capace di adombrarsi per la preferenza di un buondì. Però non avrebbe mai accettato di guardare in faccia i suoi fantasmi, preferiva senz’altro rovesciarli sulla sorella, attribuendole tutto quanto di più inconfessato le si potesse agitare nel profondo; per ritrovarsi vittima timorosa di quelle stesse trame che imputava a Celeste. A ben vedere si trattava di un temibilissimo boomerang ma la forza delle passioni era soverchiante e bastava a nutrire sé stessa. Quanto a Selvaggia, la fredda, calcolatrice burattinaia, lei preferiva manovrare dietro le quinte, tirando i fili ora dell’una ora dell’altra ed aizzandole l’una contro l’altra. Celeste non avrebbe saputo se definire privilegio o condanna quella sua fine capacità sensitiva che le consentiva di cogliere con largo anticipo il delinearsi degli eventi, partendo da sottili sfumature, dettagli irrilevanti agli occhi dei più. “Forse sto impazzendo – si era spesso ripetuta in principio – sto seguendo il filo delle mie fantasie malate.” Purtroppo però anche le fantasie più ardite erano state puntualmente confermate dall’evidenza delle cose ed il puzzle si andava lentamente, ma inesorabilmente componendo, una tessera dopo l’altra. Era come un giuoco a scacchi ed ormai le bastava ascoltare le accuse mossele da Dolores per leggere in filigrana la prossima, probabile mossa di quest’ultima, rovesciando le operazioni mentali della sorella e riattribuendo a quest’ultima quanto sentiva riferito a sé.

Celeste sbatté le palpebre nello sforzo di vincere un opprimente bisogno di sonno; la terrorizzava il pensiero di poter scivolare  in un altro incubo, ma i ricordi della veglia sapevano essere insidiosi quanto i sogni: il baluginio della fiamma nel camino ricamava tutt’intorno una danza di chiaroscuri che continuamente si sfilavano e si ritessevano come la tela del mito antico, la tela dell’attesa. Penelope Celeste   attendeva senza sapere bene cosa attendere, non uno sposo perduto comunque, forse la mossa di scacco al re oppure, chissà, l’utopica ricomposizione dei legami familiari infranti. Ma gli aèdi che cantavano alla sua corte, le badanti spie emissarie che riuscivano ogni volta a superare le mille barriere telefoniche escogitate da Celeste, non facevano che riferirle situazioni catastrofiche, vere o molto più spesso presunte, sulla salute dei suoi. Penelope ogni volta si arrovellava chiedendosi quale di quei cavalli di Troia potesse celare l’armata proditoria nel suo ventre: l’accordo di cetra era il clic che distintamente segnalava, all’inizio e alla fine, l’avvenuta registrazione della conversazione telefonica, e diventava sempre più arduo sventare i colpi delle sorelle e degli affezionati cognati, Minosse e Caronte, come li aveva soprannominati, i suoi quattro Proci o forse sarebbe stato meglio definirli i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Celeste socchiuse gli occhi contro il disegno dei chiaroscuri: lentamente, quasi impercettibilmente, gli occhi della memoria ricomposero il mutevole intreccio di luci e di ombre tratteggiato dalla fiamma delle candele, quelle che un mese addietro avevano vegliato la salma della zia Rosalba,  spirata nella notte precedente. La veglia aveva suggellato degnamente un interminabile trascorrere di ore che avevano visto Celeste fluttuare tra realtà ed incubo, tra accessi improvvisi di dolore incredulo che interrompevano, come squarci inopinati, uno stato di indefinita sospensione emotiva. Era cominciata assai presto quella giornata. Il figlio aveva bussato piano alla porta della sua camera da letto, sebbene non vi fosse alcun bisogno di tanta delicatezza: alle sei del mattino Celeste aveva già al suo attivo due ore buone di occhi penosamente spalancati nell’oscurità “Mamma?”

“Che c’è Fabrizio?”

“Ecco … volevo dirti … si insomma …

… Che è successo?!” – lo incalzò la madre

“Ecco … zia Rosalba ci ha lasciato questa notte.”

Celeste balzò dal letto indossando in fretta una vestaglia, ma tutto quello che seguì poi fu una fitta nebbia da cui fiorivano qui e lì isole di memoria dai contorni imprecisi, come sagome cangianti in un teatrino delle ombre: l’arrivo dell’amica Fidalma in risposta ad un suo accorato sos, la sollecita partenza di marito e figlio alla volta del paese di lei, il susseguirsi quasi ininterrotto di telefonate che andavano man mano delineando, come fili spezzati in attesa di essere riannodati, gli stralci di quella giornata da pantomima. Attraverso la porta d’ingresso della casa di campagna, aperta come si conviene alle case appena funestate da un lutto, una processione di parenti, amici, curiosi e conoscenti si snodava sotto lo sguardo vigile e scrutatore di Minosse, il marito di Dolores, il custode indefesso dei disequilibri familiari. Per la mesta occasione aveva tirato fuori la migliore  delle sue espressioni compunte, quella con cui accoglieva ogni nuovo visitatore e si disponeva pazientemente a replicare ogni volta alla rinnovata domanda:

“Ma come è successo?! Stento a crederci, una vecchietta così lucida e arzilla!”

“Lo  dite a  me, lo dite  a me? – sospirava Minosse con gli occhi  lucidi – Stava bene, stava perfettamente bene, che dire? Cosa siamo sulla faccia della terra!” –    concludeva assorto, scuotendo il testone rotondo, mentre la couperose gli disegnava due guance più rubizze del solito.

“Pover uomo – commentava un vicino rivolto al suo compare d’anello – sarà l’emozione, si vede che è affezionato a questa casa!”

“Vero  vero, è  così prodigo di attenzioni, non manca mai di portare a passeggio il suocero per il paese! Stavolta no però, si vede che è troppo impegnato ad accogliere le persone. Chissà come sta il suocero, come ha reagito, certo che deve essere  dura tenere a bada un vecchio ostinato che non ci sta più con la testa, ormai lo sanno tutti in paese che di punto in bianco va in escandescenze senza motivo.”

“Già – rincarava l’altro soffiandogli a bassa voce nell’orecchio – parecchi dicono che in certi momenti diventa persino aggressivo come se vedesse cose che non ci sono!”

“Addirittura! Soffre di allucinazioni dunque?!”

“Ssss … sono cose delicate da tenere in gran segreto!” Dolores si affacciò dalla porta della camera da letto dei suoi esibendo due occhi gonfi di pianto. Alle sue spalle s’intravedeva il vecchio allucinato: non si sarebbe mai detto che un demente aggressivo se ne potesse stare così placidamente seduto, con uno sguardo persino gentile ed un sorriso mansueto, ma si sa che non c’è da fidarsi dei pochi sprazzi di lucidità e di compostezza di un cervello indementito,  c’è sempre da temere che possa esplodere in qualche accesso di violenza inaspettata. Meglio, comunque, mantenere le distanze. Di tanto in tanto qualcuno sostava sulla soglia della camera ardente, rendendo un ultimo saluto all’estinta, per poi riunirsi all’uno o all’altro dei piccoli crocchi che s’intrattenevano lungo il corridoio o nell’ampia cucina, parlottando quasi tra sé e sé senza volerne avere l’aria. Ma le antenne di Minosse erano assai sensibili e poco sfuggiva loro di quel chiacchiericcio incessante mentre si aggiravano circospette tra un capannello e l’altro per cogliere le mutevoli direzioni del vento:

”Dicono che l’ultima figlia, Celeste, non si faccia più vedere da oltre un mese per    non dare nell’occhio dopo tutti i pasticci che ha combinato con quegli intrugli di farmaci!”

La coda di Minosse si avvolgeva in due spire compiaciute.

“Si però in compenso suo figlio Fabrizio e suo marito stanno spesso qui per non lasciarsi sfuggire di mano la situazione.”

“Tu dici che è per questo? Eppure sembrano due persone tanto perbene!”

La coda si scioglieva in un moto subitaneo di dissenso.

“Uhm … meglio non lasciarsi ingannare dalle apparenze! E’ vero che il ragazzo sembra quasi un vecchio saggio tanto ha un’aria pacata e riflessiva, suo padre poi mi ricorda Don Abbondio con quella testa nascosta tra le spalle  ma … sotto sotto … devono essere due marpioni!”

La coda si riavvolgeva soddisfatta.

“Eppure chi l’avrebbe mai detto di Celeste, sembrava una figlia così affettuosa ed un medico così scrupoloso!”

“Però potrebbe darsi che non lo faccia in mala fede, magari è lo stress, dai e dai … … ora che mi ci fai pensare mi è sembrato di vederle uno sguardo un po’ strano … … ssss … abbassa la voce, si sta avvicinando Dolores, poverina, è proprio distrutta! Sedete qui signora, riposatevi un po’ ne avete bisogno.”

“No grazie, siete molto care ma io torno da zia Rosalba, c’è anche mia sorella di là, stiamo dicendo il rosario.”

“Vostra sorella Selvaggia?”

“Sì, lei. Come ha saputo ha preso il primo volo per precipitarsi qui!”

“E Celeste?”

Dolores allargò le braccia in un moto desolato:

“Cosa volete che vi dica, di lei non riusciamo a sapere più nulla di preciso! Dicono che sia malata, possibile che una malattia duri tanto? Ma sarà certamente così, che Dio la illumini e che ci aiuti tutti! – concluse, segnandosi con la croce mentre la sua interlocutrice si affrettava a fare altrettanto, annuendo con un’aria di comprensione interdetta – Ora se permettete torno di là.”

“Prego prego, fate pure, Dolores, e soprattutto fatevi forza!”

“Ci proverò … con permesso.”

E così le trovò Celeste quando a sera tarda si risolse ad andare a salutare la zia per l’ultima volta, percorrendo quei chilometri con il cuore che le batteva in gola … corri corri Cenerentola anche se è passata la mezzanotte e tu hai già perso la scarpina! Entrò nella camera ardente al braccio  di Fidalma e lì le vide: sedevano fianco a fianco le due Parche, i lineamenti da tragedia attica, tesi affilati e come incisi nella pietra. Le dita scorrevano nervosamente sui grani del rosario: “Ave Maria piena di grazia … un rosario sottile … il Signore è con te, Tu sei benedetta tra le donne … un filo che si svolgeva lentamente ma implacabilmente dal fuso … benedetto il frutto del Tuo seno, Gesù .… recitiamo il mistero doloroso?” – chiese una delle due donne all’altra. Donne, Celeste? Donne, non uomini?

Celeste aveva gli occhi troppo pieni di lacrime per distinguere con chiarezza, e la mente affaticata stentava a dipanare la ridda confusa dei ricordi ed a discernere tra realtà e finzione. Gettò nuove fascine per alimentare il fuoco, come se da quel bagliore ravvivato cercasse la risposta ai suoi dubbi. Una delle due, Selvaggia, quella con i capelli corti ed i lineamenti spigolosi, avrebbe potuto anche essere un uomo; quanto a Dolores … chissà … forse non erano le sue sorellastre, forse erano uomini travestiti da grottesche coreute: “Né, ma a quale mistero stammo?” “Oi  nì, io tengo i c. che m’ abballano p’a capa, saccio o mistero!”

La gatta Cenerentola continuava a sedere sulla sponda opposta del letto, mentre le arrivavano confusi frammenti della litania: “Salve o Regina, Madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, salve. A Te ricorriamo noi, esuli figli di Eva … Salve Regina, e chi ‘o ssape chi è sta regina …  a Te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime … si è nobile o signorina, o è ‘na figli’ e mappina!” Però nessun compassionevole monaciello le coglieva orecchini o scarpette dalla piantina fatata; solo Fidalma le avvolgeva le spalle con un braccio, lo sguardo concentrato sulle labbra della morta che sembravano schiudersi in un tenue abbozzo di sorriso vagamente beffardo.

“Possibile?” –  si chiedeva Fidalma. No, non poteva che trattarsi di suggestione, oppure era lo specchio del suo riso inconfessato, il riso che le suscitava quel laboratorio di coltura della follia:  “Padre Nostro, padre Freud che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo inconscio, sia fatta la Tua volontà, comm’annanze accussì arreto, dacci oggi il nostro Es quotidiano, rimetti a noi le nostre psicosi come noi le rimettiamo ai nostri ossessivi, e non c’indurre in depressione ma liberaci dal Superego, così sia.”

Il filo delle Parche si era ormai svolto del tutto e già erano pronte le forbici per reciderlo: “Andiamo via Celeste, ora hai bisogno di riposarti.”

Fidalma si alzò e si fece loro incontro per accomiatarsi: Dolores, dal suo angolo di dolore, le porse una guancia rigata di lacrime mentre Selvaggia, occhi asciutti, colse l’occasione: ”Cerchi di farla ragionare lei che è una sua amica.”

“Faccio del mio meglio – mormorò Fidalma – con un po’ di buona volontà da entrambe le parti…“ soggiunse stizzita  e, volgendole le spalle, non si avvide che Selvaggia la stava fulminando con uno sguardo di riprovazione per il suo audace  scollo, assai poco consono alla dolorosa circostanza. Celeste seguì l’amica quasi meccanicamente ma giunta alla porta della camera da letto dei genitori  indugiò: “Aspetta, voglio salutare i miei.”

Elena e Tranquillo erano ancora svegli e sedevano come attoniti ai piedi del letto: “Ciao mamma, io vado.”

La madre la guardò senza proferire parola: Celeste conosceva bene quell’espressione di disappunto amaro ma almeno in questo caso la vecchietta non aveva tutti i torti. “Babbo ciao.”

Tranquillo volse gli occhi verso di lei: uno sguardo come frastornato ed un po’ perso nel vuoto. Celeste gli posò un bacio delicato sulla fronte.

”Io vado babbo.”

Tranquillo annuì.

“Cosa mai gli doveva capitare alla sua età!” – considerò la figlia tra sé e sé uscendo dalla stanza. Non aveva assistito alla scena ma le sembrava di potersela figurare davanti agli occhi: quella mattina di due mesi addietro Minosse era giunto di buon ora sollecitando il suocero a vestirsi: “Andiamo, ci aspetta una visita importante.”

Dolores attendeva fuori: “Vieni babbo, sali in macchina.” Tranquillo obbedì di  mala voglia. L’auto ripartì quasi sgommando, era chiaro che si trattava di un affare urgente. Poco  dopo Tranquillo sedeva di fronte ad un signore panciuto ed un po’ tarchiato, dallo sguardo severo:

“Si accomodi. – sentenziò l’uomo con una voce stentorea – Dunque .. secondo lei dove ci troviamo in questo momento?”

Tranquillo si guardò attorno: quelle donne che andavano e venivano in camice bianco avevano l’aria di essere infermiere   ma i conti non gli tornavano del tutto perché l’uomo che aveva di fronte, berretto ben calcato sulla testa e portaocchiali appeso al collo, quasi non lo si sarebbe detto un dottore.

“Non lo so.” –  rispose nel dubbio.

“Uhm… – il medico annuì con aria grave – che giorno è oggi?”

Onestamente non lo rammentava bene neanche lui ma gli era di soccorso il piccolo calendario da scrivania che  aveva di fronte.

“Il cinque ottobre.” – replicò Tranquillo

“Bene. Disorientato nello spazio ma ancora discretamente orientato nel tempo – commentò il dottore ai due angeli custodi che scortavano il paziente – E’ in grado di vestirsi e mangiare da solo?”

“Questo sì.” – si affrettò a rispondere Dolores

“Uhm … le prassie sono conservate. Ma urina normalmente?”

“Veramente – intervenne Minosse – qualche volta gli scappa un po’.”

“Ahi, dunque c’è già un principio d’incontinenza degli sfinteri!”

Frattanto Tranquillo ammiccava: lo avevano prelevato in così gran fretta che il pover uomo non aveva avuto neanche il  tempo d’inforcare gli occhiali, ed ora stentava a mettere a fuoco.

“Cosa significherà quello sguardo perso nel vuoto? – si interrogava il medico scorrendo ad una ad una le varie ipotesi diagnostiche – Forse è confuso … no, non è questo … ma sì riconosco quello sguardo! E’ lo sguardo di chi sta  sperimentando allucinazioni che interferiscono con il corso del suo pensiero!” – concluse, compiaciuto del proprio fiuto clinico. “Cosa le dicono le voci?” – gli chiese bruscamente a trabocchetto.

“Quali voci?” – domandò Tranquillo con un’espressione di genuina sorpresa.

“Ci siamo, è anche abbastanza in sé da riuscire a dissimulare – inferì lo strizzacervelli – c’è qualcuno che le vuole male?” – proseguendo nella sua indagine: un delirio persecutorio sarebbe stato l’indizio inequivocabile di una paranoia da innesto su di una demenza grave.

“Nessuno mi vuole male.!” – Replicò candidamente Tranquillo.

“Uhm … non si vuole sbottonare, teme atti di rappresaglia – uhm … a questo punto è tutto chiaro, non è il caso d’insistere … qualche volta diventa aggressivo?”

“Proprio così!” – convenne  pronto Minosse, che possedeva  l’indubbio talento di fare uscire fuori dai gangheri un vecchietto altrimenti mite. Dolores assentiva con un cenno del capo.

“Bene signori – concluse lo psichiatra emettendo il suo ultimo do di petto – anzi, che dico bene? Male purtroppo!”

“E’ proprio così grave?” si affrettò a chiedere Minosse con un cauto filo di speranza nella voce.

“Ebbene sì, purtroppo si tratta di una demenza in stato piuttosto avanzato.”

Gli angeli custodi scossero la testa con un fare desolato:

“Lo dicevamo noi! E  a quanto pare non ci sbagliavamo.”

“Purtroppo no, dovrete armarvi di molta pazienza. Questa è la terapia, qualche goccia in più di questo farmaco in caso di agitazione.”

“Speriamo di no.”

“Lo spero anch’io ma in casi come questi … l’esperienza mi dice che bisogna sempre aspettarsela.” – si alzò imitato dai suoi interlocutori.

“Grazie dottore.”

“Prego e di che? Dovere, qualunque evenienza sono a vostra disposizione. Fatevi coraggio.”

“Dobbiamo assecondarlo?” Il medico allargò le braccia: “Fin quando è possibile sì, ve lo consiglio.”   

Quasi vinta dal sonno Celeste rimase ancora così, seduta, gli occhi accarezzati dai giuochi di chiaroscuri che s’irradiavano dalle braci ancora accese nel camino … come squarci dalle forme cangianti, i fasci di luce emanati dalle torce a muro fendevano l’oscurità dell’ ambiente, strappandone dettagli qui e lì e lasciando  appena intravedere e come indovinare i profili indistinti di altri dettagli subito inghiottiti dai lunghi coni d’ombra. Celeste sostava incerta, attendendo che gli occhi si abituassero lentamente al buio: pian piano le si offrì allo sguardo un ampio ambiente chiuso dalla volta a botte e le mura in pietra grezza; le torce illuminavano una mensa stretta e lunga che correva da un estremo all’altro della sala.

I sedili in legno ordinatamente allineati lungo di essa  contribuivano, con la volta e le mura, a donare all’ambiente l’aspetto di un refettorio di un antico monastero medievale. La mensa tuttavia era riccamente  imbandita e, molto più che una cena di monaci frugali, sembrava suggerire l’imminenza di un banchetto d’occasione alla corte di un re. Vi era ogni sorta di ben di Dio, vino a profusione in larghe brocche di terracotta, cacciagione e, soprattutto, un trionfo d’insaccati di ogni tipo forma e dimensione: larghi prosciutti non ancora disossati, soppressate lunghe e strette, rotondi capicollo, collane di salsicce avvolte in ampie spire. Elena sedeva ad uno dei due capitavola, unica commensale, e la sua figura minuta ed un po’ curva sembrava quasi scomparire in tanta abbondanza mentre lo sguardo vagava intorno come smarrito.  Celeste riconobbe la madre e la chiamò: Elena volse verso di lei un’espressione desolata e scosse la testa mormorando: “Come vedi sto qui.”

“E babbo, zia Rosalba? Dove sono tutti quanti?” – Elena alzò le spalle:

“Ci sono solo io, non è rimasto più nessuno.”

Celeste si guardò intorno e scorse un tenue chiarore ad una delle due estremità della sala. Si avviò in quella direzione e, man mano che camminava, il chiarore diveniva più ampio e deciso, retrocedendo tuttavia in un punto più remoto. Celeste  procedeva un passo dopo l’altro cercando di raggiungere la luce in fondo, finché ad un certo punto, guardandosi attorno, si rese conto che la volta e le mura della sala non c’erano più: era all’aperto ormai, in uno spazio leggero e luminoso. Nel  punto più luminoso all’orizzonte scorse due sagome familiari che le volgevano le spalle: erano Tranquillo e Rosalba che camminavano lentamente, mano nella mano.

“Babbo zia dove andate? Aspettatemi!” Le  sagome si girarono verso di lei, salutandola con un  sorriso: ma fu solo un attimo, quindi le volsero nuovamente le spalle e proseguirono.

“Babbo babbo, dove sei? Babbo!”

Celeste sentì una mano forte posarsi dolcemente sulla sua spalla destra.

“Sono qui, bambina mia, non temere. Rimarrò sempre qui. Con te.”

Un angolo profondo da qualche parte nel suo cervello le suggeriva che il padre non poteva  essere lì da lei, piuttosto nella casa di campagna o forse … chissà dove .. chissà. Ma in fondo non aveva molta importanza: cos’era realtà, cosa finzione? Forse a un certo punto si sarebbe svegliata e avrebbe capito che era stato solo un lungo, estenuante incubo. Celeste reclinò  lentamente la guancia destra sulla spalla, abbandonandola nell’incavo della mano paterna; chiuse gli occhi, li socchiuse appena, li chiuse nuovamente, gli ultimi scoppiettii nel camino cullavano la sua mente intorpidita e l’accarezzavano di un’incoscienza benefica e noncurante. Camminava a passo celere, sempre più celere, il corpo  elastico e leggero, più leggero, ancora di più, ancora più celere … la sua corsa disegnava orme fugaci sul bagnasciuga, accenni di dita subito inghiottiti dalla risacca del mare. Orme leggere. Orme piccine. Saltellava Celeste, divertendosi un mondo a schiacciare i residui delle torri merlate e dei ponti levatoi, tutto quanto  era rimasto dei castelli di sabbia che altri bambini avevano costruito passando prima di lei. A tratti si slanciava verso l’acqua per il gusto di sentire lo splash splash e di commentare gli spruzzi con allegri risolini, poi tornava rapidamente a riva, la piccola mano abbandonata nella mano di Tranquillo, sgambettando felice al ritmo del fischiettio paterno.

“Dai babbo, falla di nuovo  questa musichetta, dai!”

“Ancora?! E  va bene! Taratatà  taratatà taratatatà,  taratatà taratarataratatà….”

Si riscosse appena: il fuoco nel camino era ormai spento ma, alla sua sinistra, un accenno di luce rischiarava il bracciolo del divano, riflettendosi sul pelo lucido di Principessa. Guardò fuori: un  biancore rosato iridescente lambiva i tetti delle case e le cime fronzute degli abeti, ne disegnava i profili strappandoli delicatamente al ventre buio della notte. Poco più a destra, sull’ampio terrazzo, le luci più intense e decise di un albero di Natale sbocciavano improvvise, si ritraevano per poi sbocciare nuovamente e nuovamente ritrarsi, sussurrando nella semioscurità. Gli occhi di Celeste vi si posarono, vagabondando senza fretta tra i rami, ne risalirono lentamente il percorso verso l’alto, più su, sempre più su, fin sulla cima, e su questa si abbandonarono, finalmente in pace: le cinque punte luminose tremavano tra le lunghe lingue rosa dell’ aurora. Avevano la forma di una stella.


 

FORME GOLOSE … PERCHE’ NO?

 

“Basta,  basta, ora veramente basta, piantala con questa ossessione!”

A dispetto dei miei contorsionismi, la lampo della gonna a tubo del mio tailleur verde acqua si era inesorabilmente fermata a metà strada e la giacca, tesa su di un seno da far schizzare via i bottoni, a malapena celava l’invereconda rotondità del ventre.

“Ed è perfettamente inutile che tu ti faccia venire un collasso da apnea! Ti ci vorrebbe la pialla di un falegname per buttare giù questo splendido doppio salvagente!”

Spalancai le ante dell’armadio, fulminando con un’occhiata torva la bilancia che si faceva beffe di me tra la camera da letto e il disimpegno del bagno e, ammassati i capi alla meno peggio, richiusi con furia; infine mi lasciai cadere su una sedia, meditabonda, cercando di mettere a punto una strategia di combattimento: di yogurt magri o insalatone scondite neanche a parlarne, decisamente non ero in vena di privazioni virtuose! Camminate a passo da maratoneta?!

E chi me lo dà il fiato con tutte le Marlboro che fumo?! No, Antonella, non resta che l’ultima spiaggia, innamorarti. Oh, naturalmente deve trattarsi di un amore infelice, così è sicuro che ti si serra lo stomaco per il dispiacere, in fondo sono sempre state le uniche diete serie che ti sia mai riuscito di portare avanti nella vita, ammettilo! Ma come? E di chi? Ci sono … e se contattassi quello strafigo di Luca, ma sì, quel fascinoso tipo che ho incontrato due settimane fa? Non gli piacerò, ridotta così, quindi l’insuccesso è assicurato! Mi faccio animo …

“Pronto, chi è” – mi risponde una voce flautata. – E’ lui!

“Ehm … scusa il di … di … disturbo” –  balbettai – non so se ti ricordi di me … oddio perché dovresti, in fondo si è scambiato due chiacchiere una volta sola … due settimane fa … al Club 55, sì, insomma … sono Antonella!”

Possibile? Non solo mi ricordava ma si scusava di non aver preso l’iniziativa, purtroppo aveva smarrito l’appunto.

“Uhm … diplomatico ma la scusa è un po’ vecchiotta, non avrà voluto deludermi per delicatezza, tutto qui!” – conclusi tra me e me in uno dei miei proverbiali accessi di autostima; comunque, detto fatto, appuntamento per una di quelle barbosissime serate dal vivace piglio culturale, beh, in fondo era proprio una frustrazione che mi stavo cercando! Quello che non avevo previsto, però, era il grazioso pacchettino che mi porse, e tanto meno ne avevo previsto il contenuto: due succulente delizie al limone, dico due! Si perché: ”Scusami, non giudicarmi villano ma è che ne ho perso un po’ il gusto ultimamente”.

Sotto il suo sguardo compiaciuto mossi all’assalto della prima: la delicata glassa di limone e la crema chantilly intonarono un inno alla gioia, indugiando con acuti vibranti tra il palato e la lingua, mentre io cercavo con la forza del pensiero di anestetizzare le mie papille gustative …macché! A mala pena salvaguardai un minimo di decenza, premurandomi di affondare delicatamente la sola punta del cucchiaino nella seconda … veramente  mi sarei fermata lì, ma era proprio per non contrariarlo! La sera dopo fu la volta di un soffice quanto devastante babà proditoriamente imbevuto di rhum.

“Certo che è proprio una soddisfazione vederti mangiare con tanto gusto! Finalmente un’amante dei piccoli piaceri della vita, non ne potevo più di quelle grigie anoressiche ossute  che ti funestano l’umore con le loro eterne, patetiche diete!”

“Beh … però, un po’ di attenzione alla linea – sondai cautamente – io, ad esempio, se cercassi di …

… a che dici! – perentorio – Sciocchezze, stai benissimo così”

Incredibile! Non solo non ero affatto infelice come avrei desiderato, ma era anche un ben singolare modo il suo di esprimermi il proprio interesse, questa era proprio l’apoteosi della sfiga più nera! Ormai nei miei incubi ricorrenti annegavo in un’ orgia di sapori, tra fragranti pastiere e profumate sfogliatelle, assolutamente abbrutita e dimentica di me stessa: dovevo stroncare quell’escalation, gettarmi sull’intellettuale, e se fosse sparito … pazienza, non si può godere tanto, è … è troppo indecente, sì, e poi è anche così …  sconvenientemente inelegante, basta! Così riflettevo, incedendo per via Toledo con passo quasi marziale: guardai con voluta indifferenza il Caffè del Professore … ma sì, giusto concedermi l’ultimo caffè alla nocciola! Un passo dentro e … lì restai pietrificata sulla soglia! Era lui, lo riconobbi subito, sebbene infarinato e congestionato in volto, mentre emergeva dai vapori del laboratorio di pasticceria! Anche lui mi scorse ma non vacillò, anzi mi elargì il più ineffabile dei suoi sorrisi:

“Sì, forse avrei dovuto dirtelo, ma tutto era poi così innocente … ma, ma … dai tuoi discorsi … dai tuoi interessi … non m’avresti mai detto un pasticciere? E perché no! Però, forse, un po’ ne ho da farmi perdonare: che ne pensi di stasera, ho in mente una bella cosa che non ti dico, pizzico di suspense! Ci stai?”



“STORIE DI STRAORDINARIA FOLLIA”

Le avventure tragicomiche di un ambulatorio di salute mentale

 

ATTO COMICO UNICO

 

Personaggi:

Il Prof. De Mentialis:  Direttore del DSM, ordinario della cattedra di psicopatologia clinica dell’Università di un luogo non meglio precisato dell’Italia centrale

La dott.ssa Fiorella Speranza: giovane specializzanda in psichiatria, tirocinante presso il DSM

Antonia: infermiera dell’ambulatorio

Emilio: infermiere dell’SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), il reparto di degenza

Mina: caposala dell’SPDC

Sereno De Lellis: il presunto demente

Addolorata De Lellis e Peppino Machiavelli: figlia e genero del De Lellis

Aldo Farnetico: il querulomane rivendicativo

Il sig. Reale: il delirante di grandezza

Rodolfo Cosanova: il maniacale innamorato

La sig.ra Linda: la psicotica ossessiva

Il sig. Martire: suo marito

Paraguai: l’amministratore del condominio

Infante: il presunto pedofilo

I coniugi Virtuale: La coppia mediatica

Sergio Cosanostra: il delirante di persecuzione (voce supposta al telefono)

L’azione si svolge presso il DSM (Dipartimento di Salute Mentale) di un luogo non meglio precisato dell’interland napoletano, nell’ambulatorio annesso al reparto di degenza.

Il sipario si apre sulle note di “Je so pazzo” di Pino Daniele: l’interno di un ambulatorio medico: pareti di un pallido verde pastello; in posizione arretrata verso il fondo un lettino medico disposto di lungo rispetto al pubblico; sopra il lettino, affissi alla parete, un ritratto a carboncino di Sigmund Freud e, alla sua destra, una foto ingrandita dello psichiatra Franco Basaglia; a completamento dell’arredo della parete diversi quadri con dipinti geometrici astratti, opera dei pazienti del laboratorio diurno di pittura;  in posizione più avanzata, una scrivania disposta di profilo con un completo da scrittoio, due o tre libri, cartelle cliniche e svariati numeri della rivista “American Journal of Psichiatry”; il Prof. De Mentialis siede al centro mentre, alla sua sinistra, quasi all’angolo tra i due lati della scrivania, siede la dott.ssa Speranza: lui, sulla sessantina, pizzetto brizzolato, un po’ tarchiato e leggermente panciuto, portaocchiali appeso al collo, un curioso contrasto tra l’elegante completo in gessato grigio e cravatta blu scuro ed il berretto da scout, ben calcato sulla fronte con la visiera rivolta verso l’alto; lei giovane sulla trentina, bruna, graziosa, ben truccata, un accurato taglio corto dei capelli; nessuno dei due veste il camice, parlano tra loro discutendo di una cartella clinica; alle loro spalle una libreria con numerosi testi di psichiatria, psicoanalisi e neurobiologia; di fronte a loro tre sedie vuote; qualche pianta ornamentale qui e là; in seconda quinta a destra la porta d’ingresso dell’ambulatorio dalla sala d’attesa; da quest’ultima, fuori campo, un brusio sommesso ma incessante; il telefono sulla scrivania squillerà puntualmente nei momenti più critici dei vari colloqui. La base musicale sfuma gradatamente fino alle prime battute del dialogo.

De Mentialis (rivolto alla giovane tirocinante con voce stentorea, baritonale, lo sguardo ed il tono leggermente compiaciuti): Eh mia cara, questa sarà veramente una mattinata campale, si prepari! In compenso avrà modo di fare esperienza su di una variegata umanità, deliranti erotomani, paranoici, ossessivi, ce n’è per tutti i gusti.         |Antonia, fai entrare il primo.

Dalla seconda quinta a destra entra Antonia, in camice infermieristico e zoccoli sanitari, fare garbato ed affabile:

Professore, ci sarebbe quel caso prenotato ieri, quella sospetta demenza …

De Mentialis: Ah si, ricordo, il sig. De Lellis! Chi lo accompagna?

Antonia: La figlia ed il genero.

De Mentialis: Bene, lasciali entrare. (rivolto alla tirocinante) Una richiesta d’interdizione da parte della famiglia per incapacità d’intendere e di volere. Vediamo.

Bussano alla porta: una voce maschile chiede: E’ permesso?

De Mentialis: Prego, entrate pure.

Entrano in tre: in mezzo è il paziente, Sereno De Lellis, sull’ottantina, aspetto distinto e mansueto. Lo accompagnano la figlia Addolorata, il volto perennemente atteggiato ad un’espressione drammatica, ed il genero Peppino Machiavelli, un testone rotondo e due guance rubizze per la couperose. Il paziente si muove con passo un po’ esitante, si guarda attorno ammiccando come se avesse problemi di vista.

La figlia: Di qua babbo, piano piano…

Il genero (strattonandolo furtivamente per sollecitarlo a sbrigarsi): Piano piano, si, piano piano! (abbassando la voce) E iammo bella, (1) (premuroso.) Sedetevi qua papà, ecco, da bravo! Buon giorno professore!

De Lellis (con un accenno di protesta nella voce): Mi avete messo addosso una tale fretta che mi sono dimenticato di mettere gli occhiali e adesso non riesco a mettere a fuoco!

La figlia: Non importa babbo. Buongiorno buongiorno! Babbo saluta il dottore!

De Mentialis: Non vi date pensiero, accomodatevi prego, signor … De Lellis, vero?

De Lellis (timidamente): Si.

De Mentialis: Un gran bella cera! Quanti anni avete?

De Lellis (senza esitare): Sono della classe 27.

De Mentialis: Perbacco, ottantaquattro anni, chi lo avrebbe mai detto! Eh quelle belle tempre di una volta, vero signori?

La figlia: Vero professore.

Il genero (masticando le parole con disappunto): E già, proprio così!

De Mentialis: (a bassa voce, rivolto alla tirocinante) Ancora orientato verso se stesso, si direbbe. Eh, ma non c’è da farsi ingannare da qualche sprazzo di lucidità. Uhm … bene bene. Dunque signor De Lellis, secondo lei dove ci troviamo in questo momento?

De Lellis (si guarda intorno, sempre ammiccando, con espressione perplessa, esita a lungo): Nonn … non  lo so.

De Mentialis (annuendo con aria grave e lanciando uno sguardo al piccolo calendario  da scrivania per aiutarsi a ricordare):

Che giorno è oggi?

De Lellis (senza esitare). Il cinque novembre!

De Mentialis: Bene. Disorientato nello spazio ma ancora discretamente orientato nel tempo. (rivolto alla figlia e al genero) E’ in grado di mangiare e di vestirsi da solo?

La figlia: Questo si!

De Mentialis:  Uhm… le prassie sono conservate … uhm… ma urina normalmente?

Il genero: Qualche volta gli scappa un po’!

De Mentialis: Ahi, dunque comincia già a delinearsi un’incontinenza degli sfinteri! (rivolto alla tirocinante, come a scorrere le varie ipotesi diagnostiche): Dottoressa Speranza, cosa può significare secondo lei quello sguardo perso nel vuoto?

La tirocinante (intimidita, quasi con un filo di voce): Non saprei … forse … è sub confuso?

De Mentialis: Lei dice? Ci pensi bene, osservi bene, uhm … no, ci siamo, credo, osservi bene quello sguardo, cosa le suggerisce?

La tirocinante (sempre più intimidita e timorosa di sbagliare): Ssi … in effetti… non sembra molto presente a se stesso …

De Mentialis: Brava, e secondo lei perché?

La tirocinante: Forse … è assorbito in qualche suo pensiero …

De Mentialis: Ottimo dottoressa, ci stiamo avvicinando! E dunque, le pare che stia davvero comunicando con noi?

La tirocinante: In qualche momento sì ma in altri momenti … si direbbe di no!

De Mentialis: Bene! Magari è impegnato in una doppia comunicazione allora.

La tirocinante (più sicura, come se sentisse di avere imbroccato la strada giusta) Una comunicazione evidente con gli altri e un’altra che non appare … come se fosse privata, interna …

De Mentialis: Bravissima! Infatti lo sguardo del paziente è quello tipico di chi sta comunicando su due piani paralleli, quello normale, condiviso, e quello dereistico, perché sta sperimentando allucinazioni che interferiscono con il corso del suo pensiero! (compiaciuto per il suo fiuto clinico mentre la tirocinante lo guarda ammirata. Si protende decisamente verso il paziente con un’aria complice):

Cosa le dicono le voci? (bruscamente, a trabocchetto)   

De Lellis: Quali voci?! (con genuina sorpresa)

De Mentialis: (quasi tra sé e sé): Ci siamo: è ancora abbastanza in sé da riuscire a dissimulare. (protendendosi nuovamente verso De Lellis): Certo che in questo mondo e di questi tempi non c’è da fidarsi molto del prossimo, non è così, signor De Lellis?

De Lellis : Beh, forse un pochino di prudenza …

De Mentialis (pronto) Infatti, è sempre bene guardarsi le spalle, come si suol dire, la vecchia saggezza popolare che spesso non sbaglia, fidarsi è bene e non fidarsi è meglio, o no, cosa ne pensa?

De Lellis: Si ma …

De Mentialis: Certa gente è cattiva, si diverte a prendere di mira le persone dabbene come lei …

De Lellis: Veramente … non capisco …

De Mentialis: Suvvia signor de Lellis, di noi può fidarsi. C’è qualcuno che … che le vuole male?

De Lellis: (candido): Nessuno mi vuole male!

De Mentialis (sempre più compreso nella gravità del momento): Uhm … non si vuole sbottonare, teme atti di rappresaglia… uhm… qualche volta diventa aggressivo?

Il genero, prontamente: Qualche volta sì!

De Mentialis: Ora è tutto chiaro, non è il caso d’insistere. (schiarendosi la gola) Bene signori, anzi, che dico bene?! Male purtroppo!

In quel momento squilla il telefono: De Mentialis risponde, visibilmente contrariato per l’interruzione: Pronto Antonia che c’è? Chi?! Sergio?! Di già, oggi a primo mattino comincia il tormentone, andiamo bene! Niente da fare, digli che non è il momento, deve chiamare a fine mattinata, dopo le visite! (riattacca stizzito e si rivolge agli astanti come a riannodare il filo del discorso): Dunque … dicevo …

Il genero di De Lellis (con un’aria allarmata): E’ proprio così grave?! (speranzoso)

De Mentialis:  Ah sì!  Ebbene sì, purtroppo! Si tratta di un caso di demenza e anche in uno stato piuttosto avanzato ormai, complicato  da una psicosi d’innesto con allucinazioni e deliri persecutori!

Il genero (pronto) Lo dicevamo noi e purtroppo, a quanto pare, non ci sbagliavamo!

De Mentialis:  Purtroppo no, dovrete armarvi di molta pazienza … questa è la terapia, palliativa ovviamente, qualche goccia in più di questo farmaco in caso di agitazione.

La figlia. Speriamo di no!

De Mentialis: lo spero anch’io ma in casi come questi … l’esperienza m’insegna che bisogna sempre aspettarsela. (si alza, imitato dalla tirocinante e dai suoi interlocutori)

Figlia e genero:  Dobbiamo assecondarlo?

De Mentialis (allargando le braccia) Fin quando è possibile, vi consiglierei di si.

La figlia (ossequiosa):  Grazie professore

De Mentialis (lusingato) E di che? Dovere. Qualunque cosa siamo a vostra disposizione!

I tre escono mentre De Mentialis scuote il capo con aria grave e la dottoressa Speranza esibisce un’espressione dispiaciuta: Peccato, poverino, anzi poverini tutti e tre!

De Mentialis (alzando le spalle) La capisco ma vedrà … col tempo imparerà a mettere i palett … ma che succede là fuori?!

Dietro le quinte, dalla sala d’attesa, il brusio di sottofondo cresce fino a diventare un coro di rabbiose proteste:

“Non vi potete presentare fresco fresco per ultimo e pretendere di entrare prima di tutti gli altri!”

“Ha ragione la signora, rispettate il vostro turno!”

“Se! E con chi l’avete! Ma guardatelo, che faccia tosta! Tomo tomo e cacchio cacchio, non c’è niente da fare, la cazzimma (2) ci vuole!”

Su tutte, però, spicca una voce maschile querula, cantilenante, che trascina le vocali con tono esasperatamente noioso e monocorde: “In galera vi maando! Tuttiii! In galeeeraaa!”

Entra Antonia, visibilmente imbarazzata:

Professore, c’è Farnetico fuori che sbraita come suo solito! Sta facendo una baraonda qua fuori, ho cercato di trattenerlo e di calmarlo ma non c’è stato verso!  

De Mentialis:  Lascia perdere, fallo entrare per carità, o non ne veniamo più fuori con quel grandissimo rompiballe! Ci penso io, gli dirò qualcosa per impapocchiarlo con la speranza che almeno per qualche tempo ce lo leviamo dai … di torno!

Entra Farnetico, un tizio sui trentacinque anni, ma ne dimostra almeno una quarantina a causa dell’aspetto trasandato, la barba incolta, camicia e pantaloni gualciti e fuori misura come se fosse stato vestito con abiti di fortuna, gli occhi alquanto obliqui all’interno e verso il basso, la camminata ciondolante e un po’ sbilenca. In sottofondo la canzone “Soldi soldi soldi” di Ivan Cattaneo

De Mentialis:  Aldo, sempe ‘a stessa capa fraceta tiene! (3)

Farnetico (con un sorriso fatuo che gli scopre i denti guasti e ingialliti dalla nicotina): Pecché, tu no?

De Mentialis abbozza. Rivolto alla tirocinante:

E’ una lunga storia! Da anni ormai va in giro predicando che vuole essere risarcito perché secondo lui, a causa della nostra diagnosi, non ha potuto lavorare e quindi guadagnare.

Farnetico: Secondo mee, secondo mee! Io sto beene, quale schizofrenia, ‘a schizofrenia d’o’ sasiccio! (4) Sono stato alla Procura stamattina!

De Mentialis (con un abbozzo di sorriso ironico):

E ti pareva, ormai sei un afictionado, pure stamane hai timbrato il cartellino!

Farnetico: Ci sta pooco da ridere, in galeera vi mandoo! A cominciare da te che sei il boss!

De Mentialis: E io sono commosso e onorato per il trattamento di riguardo! Si sa che quando sono rogne il primo a salire i gradini  della Procura della Repubblica è proprio il primario! Beh, che ti hanno detto?

Farnetico: Che mi deevi rilasciare un certificato che io sto bene e che mi dovete dare tree miliaardi!

De Mentialis (vergando rapidamente un foglio):

Pronto, a servirti, ecco qui! (schiarendosi la gola scandisce con tono solenne): Certifico che il sig. Farnetico Aldo, di anni 35, nato a etc etc… residente a etc etc… è in perfetto compenso clinico e psicopatologico e pienamente abilitato al lavoro. Pertanto il DSM s’impegna a risarcire il predetto della cifra di miliardi tre per tutti gli anni di mancato guadagno. Si rilascia per gli usi consentiti dalla legge, in fede … (squilla nuovamente il telefono): Che c’è Antonia, ancora?! Macché urgente, le conosco bene io le urgenze di Sergio! Niente, ho detto che deve aspettare e non si discute! (riaggancia e fa per porgere il foglio a Farnetico)

Farnetico (querulo): Il timbro ci vuoole, il timbroo!

De Mentialis: Giustissimo! Dottoressa, ha mica un euro?

La tirocinante: Prego!

De Mentialis (posando l’euro sul foglio e disegnandoci attorno un cerchio): Ecco!

Farnetico (pedante): E faallo beene!

De Mentialis: Come no, guarda tu stesso, è meglio dell’O di Giotto! Ora ce lo scrivo dentro: Dipartimento di Salute Mentale … bene, tutto a posto!

Farnetico (rimirando il certificato con espressione soddisfatta): Ora sì che andiaamo bene, a me nun me faciite fesso! (5)

De Mentialis: Ma non mi permetterei mai! (tagliando corto): Vabbuono,  e adesso lasciaci in pace!

Farnetico: M’a dai ‘na sigareetta?

De Mentialis: Pure?! Eccoti la sigaretta, santa pazienza, e adesso fila!

Farnetico: (alzandosi ed uscendo con la stessa camminata sbilenca con cui è entrato, sotto lo sguardo basito della tirocinante) Me ne vado, me ne vaado!

De Mentialis (rivolto alla giovane dottoressa): Ah ah, lei giustamente non crede ai suoi occhi e alle sue orecchie, ma vedrà, vedrà di quanti trucchi del mestiere bisogna esser capaci! Come con il paziente che deve entrare ora, da anni ed anni è convinto di essere uno dei G8 e che per questo gli avversari gli vogliono far fuori il figlio, una vendetta trasversale! Antonia, fai entrare Reale!

Dalla porta della sala d’attesa s’affaccia Emilio, l’infermiere del reparto): Professore mi scusi ma ci sarebbe Cosanova: sono sei giorni che si rifiuta di prendere il litio e …

De Mentialis (con una punta d’invidia malcelata nel tono sarcastico): Ah sì, il bell’Antonio! Beh, ora sono impegnato, se ne parla dopo!

Emilio: Scusi se mi permetto d’insistere ma io consiglierei di vederlo subito: professò, sta proprio a fronn’e limone! (6)             

De Mentialis (sbuffando): E va bene, fallo entrare. Anzi! (rivolto alla tirocinante) Lasciamo che se ne occupi la dottoressa, io intanto ne approfitto per staccare un momento …

La tirocinante (vivamente allarmata): No professore la prego, proprio Cosanova no!

De Mentialis (tra il bonario e il malizioso): Suvvia che sarà mai, non la morde mica! E poi una volta o l’altra dovrà pure buttarsi a nuotare da sola, tutti abbiamo cominciato così! Comunque non si preoccupi, qualunque dubbio o difficoltà ci sono qua io. (ed esce dalla seconda quinta a sinistra dove è l’altro ingresso dell’ambulatorio)

La tirocinante (rassegnata ma senza celare il proprio disappunto): E va bene, Emilio lo lasci entrare.

Emilio (ancora sulla soglia dell’ambulatorio, volgendosi alle proprie spalle): Cosanova entra e … mi raccomando!  

Insieme ad Emilio entra Rodolfo Cosanova, vestito di tutto punto sebbene sia degente; è un bell’uomo, alto, di aspetto florido, ancor giovane: i baffi ben curati ed i capelli scuri e pettinati all’indietro gli conferiscono un certo fascino di antico stampo, da playboy latino d’altri tempi; in sottofondo il ritornello di “Pazza idea” di Patty Pravo; Cosanova muove qualche passo e si ferma con aria sorpresa e rapita:

Dottoressa Fiorella ci sei tu stamattina, che bella combinazione!

La tirocinante (ironica): Già, una bella combinazione davvero! (cercando di darsi un contegno neutro e professionale ed assumendo un tono di rimprovero): Allora, cos’è questa storia che non vuol prendere il litio?

Cosanova: E perché me lo dovrei prendere, io sto una bellezza! Mi sento ringiovanito di dieci anni, proprio comme si fosse nu guaglionciello! (7) (lanciando alla dottoressa un’occhiata maliziosa e carica di sottintesi)

Emilio (tra l’ironico e il divertito): E come no! Va trillando per tutto il reparto comme nu cardillo, (8) dando fastidio alle pazienti!

Cosanova: Che fastidio, quando mai! E poi io sono un uomo fedele e ho una sola donna nella testa! (guardando la tirocinante con un fare diretto e sfrontato): Dottoressa Fiorella io non penso che a te! Non ci dormo la notte, mi stai facendo murì ‘e passione! Che finezza di modi, che sguardo, e soprattutto che labbra, belle, carnose, sensuali, come piacciono a me! Ogni volta che guardo le tue labbra mi viene voglia di fare l’amore con te!   

La tirocinante avvampa mentre Emilio volge il capo a sinistra, in basso, e poi tutt’intorno, producendosi in una serie di smorfie nello sforzo di non scoppiare a ridere. Quindi, tra il contrariato e il lusingato, con un tono non privo di una punta di compiacimento: Cosanova abbia bontà, ora la smetta! E poi è anche sposato e non sta bene per sua moglie!

Cosanova (genuinamente meravigliato): Sposato?! Quando mai, io sono scapolo e … libero come il vento …

La tirocinante (interrompendo tempestivamente quella che ha tutta l’aria d’essere una nuova profferta amorosa): Che scapolo! Ci ho parlato io con sua moglie proprio ieri!

Cosanova (con un’espressione sospesa, come se cercasse di mettere a fuoco la cosa): Ah, quella donna sempre vestita di scuro! Ma quella non è mia moglie, è mia madre …

La tirocinante: … che sfrontatezza, sarebbe capace di negare ogni evidenza!

Cosanova: Via dottoressa Fiorella, ma poi, sposato, non sposato, quando c’è l’amore! Che ce ne ‘mporta a nuje,(9) fuggiamo insieme!

Emilio (intervenendo in soccorso della giovane psichiatra che ormai annaspa): Avanti Cosanova, ora stai proprio esagerando, torniamo in reparto!

Cosanova (imperterrito, senza darsi per vinto): Fiorella scusami, non è colpa mia, quella è una cosa di famiglia la passione per le belle donne, pure mio padre, è lui che m’ha voluto chiamare Rodolfo, come il grande poeta della Boheme, permettimi di chiamarti Mimì…

Emilio (che non ne può più di cercare di soffocare le risate): Ma a vuò fernì o no?!(10) Andiamo ho detto!

Cosanova (assumendo una posa da spasimante appassionato): Ancora un momento solo (schiarendosi la voce ed esordendo con un bel timbro di voce tenorile): O soave fanciulla…

Emilio: Muoviti!

Cosanova: … o dolce viso, di mite circonfusa alba lunar …

Emilio (quasi trascinandoselo dietro e strattonandolo mentre la dottoressa finge di guardare con grande interesse uno dei quadri alla parete): E dalle! A capa tosta tieni!

Cosanova (volgendosi verso la dottoressa mentre Emilio continua a trascinarselo dietro) … in te ravvisoo …

Emilio (con un ultimo spintone attraverso la seconda quinta a destra): E jamme!

 

Si ode ancora la voce di Cosanova, ormai spintonato fuori a viva forza … il sogno ch’io vorrei seèmpre sognaaar …

La dottoressa Speranza torna a sedersi mentre De Mentialis rientra  in scena dall’altro ingresso dell’ambulatorio, in seconda quinta a sinistra. Il primario si schiarisce la gola con intonazione francamente allusiva; volgendosi a lei, che si sforza di darsi un contegno, apparentemente  concentrata sulle cartelle cliniche davanti a sé:

Ehm … bene dottoressa, questo è un giorno da appuntare sul calendario, la mattina del suo battesimo di fuoco … (con fare malizioso) e che battesimo! Niente male come inizio, un maniacale innamorato!

La tirocinante (quasi paonazza, passandosi rapidamente le dita  tra i capelli corti e ben curati):

Professore, non ci si metta anche lei ora!

De Mentialis (sorridendo) Suvvia dottoressa, in questo nostro mestiere dovrà farci il callo, quindi tanto vale che cominci subito! Gli analisti, con il loro vezzo di psicologizzare anche l’alluce del piede, parlerebbero di innamoramento transferale … non so quanto c’entri il transfert, con buona pace di Freud (lanciando uno sguardo al ritratto sulla parete alla sua sinistra), detto tra noi, (abbassando intenzionalmente la voce) non posso dare torto a Cosanova, anch’io al suo posto rifiuterei il litio, uno che si sente da padreterno non ha nessuna voglia di ammosciarsi! Bene bene, dopo questa piccola parentesi romantica torniamo a noi, c’è il caso del G8, un caso assai istruttivo …

Squilla il telefono

De Mentialis (contrariato): E dalle! Stamattina non c’è verso e sta nu poco quieti! Pronto … che c’è Mimmo? Ah finalmente l’avete individuata! Bene, accostatela con garbo e datevi da fare per convincerla a salire in autoambulanza. E mi raccomando battete sulla questione della casa nuova! Io mi sono già accordato con il direttore sanitario di Villa Sorriso che farà la sua parte. Bene, tenetemi aggiornato. (riaggancia, mentre la tirocinante lo guarda con aria interrogativa) Eh eh (divertito) questo non lo troverà sul Manuale Statistico e Diagnostico delle malattie mentali, nemmeno sugli ultimi aggiornamenti, ma sarebbe il caso di proporre a quella commissione di professoroni la nuova area emergente della psichiatria condominiale …

La tirocinante: Condominiale?! Non capisco!

De Mentialis: Proprio così, eh eh, la psichiatria del pianerottolo!

Eh dottoressa, lei non può averne un’idea, ma lo imparerà subito con un po’ di pratica, dicevo, non ha idea di quanti condomìni si rivolgono a noi per le loro beghe, sono di una litigiosità inaudita! Ci arrivano sempre più segnalazioni di psicopatici, veri o presunti tali, che turbano il quieto vivere condominiale e, a chi la girano, secondo lei, la patata bollente? Ma a noi naturalmente, a questo grande porto di mare, a questa specie di Fatebenefratelli che è la nostra psichiatria, chiaro no?! Adesso è la volta di una petizione di firme contro una vecchietta che sembra abbia l’amena abitudine di rovesciare olio, acqua, farina, riso o quant’altro per le scale mettendo a repentaglio l’incolumità sua e quella degli altri! Dopo un sacco di tentativi a vuoto perché la vecchina se ne sta barricata in casa e non apre quando bussano, eh eh, pazza sì ma scema no, e dopo un attento studio delle abitudini di vita, siamo riusciti a rintracciarla nella piazza principale dove si reca tutte le mattine, a fare cosa Dio solo lo sa, ed ora la si sta conducendo a Villa Sorriso dove il collega, già avvertito della cosa, si presterà a far la parte dell’assessore comunale per l’assegnazione delle case popolari. La vecchietta ci tiene così tanto a cambiare casa che sicuramente abboccherà all’amo e accetterà di ricoverarsi e poi … e poi Dio pensa!

La tirocinante: Poverina però! Prenderla in giro così!

De Mentialis (alzando le spalle): Eh, purtroppo non c’è altro da fare, a mali estremi estremi rimedi! Dunque, le dicevo del caso del G8 (compone al telefono un numero interno) … Antonia, fai entrare Reale.

Bussano alla porta

De Mentialis: Avanti!

Entra Reale, un ometto sulla sessantina, piccolo di statura, abbigliamento modesto e portamento dimesso, un cappello in mano; in sottofondo l’attacco strumentale e la prima strofa della  “Ballata di Carlo Martello” di Fabrizio De Andrè

De Mentialis: (con un fare ossequioso del tutto incongruo alla situazione ed all’aspetto del suo interlocutore): Prego, signor Reale si accomodi!

Reale (umilmente): Posso?

De Mentialis: Certamente! (con tono deferente) Lei mi consente, ho interpellato anche la dottoressa qui presente per avvalermi della sua esperienza, è molto approfondita in casi come il suo!

Reale (porge la mano alla tirocinante, quindi siede mantenendosi sul bordo della sedia e rigirandosi il cappello tra le mani) Piacere, Reale.

La tirocinante: Piacere.

De Mentialis:  Ho avuto occasione di parlare con suo figlio, e per questo ci siamo permessi d’incomodarla … (come a sondare il terreno) … bravo giovane …

Reale (senza sbilanciarsi):  … si, non mi posso lamentare…

De Mentialis: … certo è una situazione alquanto delicata …

Reale: … si tira avanti come si può …

De Mentialis (insistendo sul tono sottinteso): … ma comprendo che deve essere complicato giostrarsi …

Reale (senza darsene per inteso): Ci siamo abituati ormai.

De Mentialis:  Anch’io al suo posto mi sentirei angosciato! Con una posizione di responsabilità come la sua … sarei in ambascia per la mia famiglia e soprattutto per il figlio maschio … il più esposto ad azioni di rappresaglia …

Reale (esitante, ma con una luce di curiosità negli occhietti furbi) Mio figlio … le ha detto  qualcosa?

De Mentialis, cogliendo al volo il piccolo spiraglio di apertura, si aggiusta la sedia alla scrivania, sporgendosi lievemente in avanti verso il suo interlocutore: In effetti … sì … (abbassando la voce in tono confidenziale e guardandosi intorno) … stia tranquillo signor Reale, di noi può fidarsi … accidenti, deve essere terribile doversi guardare da chiunque!

Reale (aggiustandosi anche lui la sedia e guardandosi intorno con circospezione, mentre la tirocinante tace ed osserva la scena con espressione sempre più attenta) In effetti … sì.

(tace, attendendo con un’aria cautamente interrogativa)

De Mentialis: I nemici sono molti ed il pericolo è serio e incombente, i servizi di spionaggio internazionale la controllano ventiquattr’ore su ventiquattro!

Reale (visibilmente scosso): Dunque siamo a questo punto! Lo dicevo io, e in famiglia non mi vogliono credere, mi prendono per visionario!

De Mentialis: Le credono, le credono, mi creda … ehm … scusi il giochino di parole, le credono ma dissimulano per non allarmarla ulteriormente!

Reale: Ma allora?! Cosa mi consigliate di fare?

De Mentialis (sempre più compreso nella parte): Qui volevo arrivare! Mi sono consultato anche con la dottoressa, che lavora nei servizi di controspionaggio, vero dottoressa?

La tirocinante (affrettandosi ad annuire): Vero, vero!

De Mentialis:  E lei mi ha confermato nelle mie intuizioni. Ormai non basta più dissimulare, non basta più presentarsi sotto mentite spoglie, proponendosi in questo suo modo dimesso e modesto …

Reale (con un lampo di auto riconoscimento): Allora lei sa proprio tutto!

De Mentialis: Gliel’ho detto che di noi si può fidare, gliel’ho detto e glielo ribadisco: è tempo ormai di passare a contromisure più efficaci, ed anche con la massima urgenza!

Reale (sempre più angosciato):  Mi dica lei!

De Mentialis (galvanizzandosi a sua volta): Intanto di una cosa può tranquillizzarsi, non si rivarranno mai direttamente su suo figlio, procureranno di eliminare innanzitutto lei, per avere la strada completamente libera!

Reale (alquanto risollevato): Meno male, almeno questo!

De Mentialis: Una via d’uscita c’è però: immunizzarsi!

Reale (interdetto): Immu … ?

De Mentialis: … nizzarsi! Si insomma, assumere una sostanza che blocchi gli effetti del veleno, perché è ad un avvelenamento che ricorrerebbero con ogni probabilità, la via più subdola e sicura!

Reale (allontanando il busto dalla scrivania con un tono prontamente sospettoso):  Una sostanza, che sostanza?! No no, sostanze no!

De Mentialis (imperterrito):  Capisco i suoi dubbi ma mi creda, è l’ultima spiaggia ormai!

La tirocinante (rincarando la dose): E’ vero, il professore ha ragione!

De Mentialis:  Lasci allora che le racconti un illustre precedente dell’antichità. E’ storia vera, la storia di Mitridate!

Reale (attonito):  Michi?!

De Mentialis: Mitridate, un grande potente dei tempi antichi! Volendo far fuori i suoi molti nemici, allora, e ancora oggi, andavano di gran moda gli assassini a mezzo di avvelenamento, ricorse ad un astutissimo stratagemma! Iniziò ad assumere ogni giorno  piccole dosi crescenti di un veleno; infatti, se assunto gradualmente, il veleno, invece di essere letale, stimola le difese immunitarie dell’organismo rendendolo insensibile a dosi più massicce. Con questo sistema l’abile Mitridate si tolse lo sfizio di levarsi di torno tutti quei babbei dei suoi nemici avvelenandogli l’acqua dei pozzi! Lui l’acqua la poteva bere perché si era immunizzato ma i suoi nemici no, schiattarono uno dopo  l’altro, dopo l’intervento della dottoressa qui presente …

La tirocinante (sempre più eccitata a sua volta):  Si, non è stato facile convincere i miei colleghi, regolarmente quel veleno è ad esclusiva disposizione degli addetti ai lavori!

Reale (ancora non del tutto convinto): Possibile? Ma …

De Mentialis: Via signor Reale, ho compreso, lei ha così tanti nemici che sente il bisogno di una prova inoppugnabile di quello che le andiamo proponendo, e, mettendomi nei suoi panni, non le posso proprio dare torto! (componendo rapidamente il numero della sala d’attesa): Antonia, vieni subito qui con un bicchiere d’acqua ed una boccetta di Serenase, anzi no, due bicchieri d’acqua, uno per me e uno per la dottoressa Speranza … si, Antonia, hai capito benissimo, due bicchieri d’acqua, uno per me ed uno per la dottoressa, presto, sbrighiamoci!

Antonia entra poco dopo con due bicchieri d’acqua ed un’espressione tra lo stupefatto ed il costernato.

De Mentialis: Bene Antonia, metti tre gocce di Serenase in ciascuno dei due bicchieri … (mentre Antonia estrae una boccettina dalla tasca del camice ed esegue) … signor Reale, come può vedere lei stesso, si tratta di una sostanza assolutamente incolore, insapore, come potrà constatare anche lei se avrà la bontà di assumerla, e soprattutto, e sottolineo soprattutto, non lascia la benché minima traccia nell’organismo! Tre gocce sono la dose standard per incominciare … (allunga la mano per prendere il bicchiere e lo beve tutto d’un fiato, rapidamente imitato dalla tirocinante che non può fare a meno di guardare De Mentialis con un’aria di adorante ammirazione) … ecco qui, è fatta! Dunque, cosa ne pensa signor Reale?

Reale: Va bene … se è proprio necessario …

De Mentialis: Lo è, mi creda! Qui le ho scritto come e in che dosi dovrà assumere il veleno: per cominciare tre gocce al giorno, aumentando di tre gocce un giorno sì ed un no fino ad arrivare a quindici gocce in poco più di una settimana e poi continuare così … ma naturalmente ci terremo in continuo contatto per monitorare la situazione. Bene, per ora basta così, arrivederci a presto signor Reale!

Reale: Arrivederci grazie, grazie di cuore a tutti e due!

De Mentialis: Di niente, a presto. Antonia, accompagnalo fuori e rilasciagli la boccetta di Serenase.

Antonia (ancora interdetta): Come dice lei professore.

Escono entrambi mentre si riode la prima strofa  de “La ballata di Carlo Martello”

La tirocinante (ammirata): Professore, non ho parole, è … è semplicemente geniale!

De Mentialis (lusingato): Complimenti anche a lei per la sollecita collaborazione, veramente tempestiva, brava! Eh … (pavoneggiandosi alquanto) queste strategie si apprendono solo sul campo, certamente non le troverà su nessun trattato di psicopatologia o di clinica psichiatrica! (con aria di sufficienza e quasi di disprezzo) Meno che meno glielo potrebbero insegnare all’Università! Mi creda, con la mia docenza nel centro Italia io ci sono dentro! Vorrei proprio vederli questi professorini allicchettati e abbottonati, che sanno solo frusciarsi tra una  pippa mentale e l’altra, e intanto non hanno mai messo il naso fuori della loro torre d’avorio, né mai lo metteranno, e non hanno la più pallida idea di che cosa significhi stare in trincea! Per molto meno farebbero il diavolo a quattro pur di guadagnarsi una ridicola pubblicazione! (esaltandosi, il tono di voce in crescendo) Ma sì, entrare nel delirio del paziente, colludere con esso per guadagnarsi la fiducia di un irriducibile paranoico, queste sì che sono soddisfazioni, io sfido … (squilla il telefono) … che c’è Antonia? Ancora?! Ho detto che al momento non ci sono né per Sergio né per nessun altro, quante volte ve lo debbo ripetere a tutti e due?! Non m’interessa, arrangiati tu a tenerlo buono ancora per un po’. Inventati qualcosa, che sono sbarcati gli Ufo, che la vecchia vola in cielo, quel che diavolo ti pare ah! (sbattendo giù il ricevitore) E che diamine, con tanti anni di esperienza nella musica pure una testa di legno dovrebbe avere imparato a suonare quanto meno i piattini, e invece ancora tirano avanti con la zizza in bocc … (accorgendosi solo all’ultimo di avere scantonato) … pardon dottoressa, quando ci scappa ci scappa!

La tirocinante (nascondendo a stento un sorriso): Si figuri professore!

Bussano alla porta

De Mentialis:  Chi è?! (senza attendere risposta) Avanti!

Entra Mina, la caposala del reparto, capello corto e un po’ arruffato, un muoversi a scatti come se fosse sempre sotto pressione: Professore stamattina è una baraonda da noi in reparto!

De Mentialis: Capirai la novità! Come se qui in ambulatorio ci girassimo i pollici ah! (con un sospiro di rassegnazione e con la chiara intenzione di liquidare la caposala il più in fretta possibile) Prima Cosanova e adesso cos’altro? Forza, sentiamo!

La caposala: C’è la Risolini che sta facendo il diavolo a quattro!

De Mentialis: La buona vecchia Risolini, e non sarebbe lei se non rompesse, oggi è la giornata dei maniacali! E dunque, qual è il problema?

La caposala: Non ne vuole sapere di farsi la Moditen, entra ed esce dalla medicheria, stiamo tutti appresso a lei e non riusciamo a combinare più niente!

De Mentialis: E Ciccio?! Si è vaporizzato per caso?

La caposala: Non ne parliamo, alla fine pareva che si fosse convinta, macché! Ciccio era già pronto con la siringa in mano e … (esitante)

De Mentialis: E?

La caposala: Lo debbo proprio dire?

De Mentialis: Perché, è un segreto della CIA o del KGB? Ci troviamo a cavalcare la tigre dei servizi di spionaggio, un caso in più uno in meno!

La caposala: E va bene: la Risolini gli è girata intorno e gli ha detto chiaro e tondo che quella siringa era meglio se se la metteva nel … si insomma, che era meglio se … se la faceva a sé stesso!

De Mentialis: Ah ah questa è buona! Ma allora quale Moditen, non ne ha alcun bisogno, ragiona che è una bellezza!

La caposala (attonita) Ma …

De Mentialis: E tu che sei così patita delle forze dell’ordine non hai pensato di interpellare subito una volante?

La caposala (piccata): Ah professore, lei ha sempre voglia di scherzare!

De Mentialis: Perché no? Dovrei intonare il De Profundis forse? O strapparmi quei quattro capelli che mi rimangono per il cordoglio?  Suvvia, ci penso io più tardi, mi farò una capatina in reparto a fine mattinata.

La caposala: Sì sì, l’aspettiamo allora! Con permesso! (esce)

De Mentialis (scuotendo la testa): Non ho poi ragione di parlare di musica e di piattini? Basta basta, dottoressa Speranza, andiamo avanti!

Bussano alla porta

De Mentialis: Che c’è ancora?

Antonia (entrando) Scusi professore ma è un’emergenza! Il tizio di stamattina, sì, il Pezzella …

De Mentialis: Quell’altro schizzato, non ci facciamo mancare proprio niente stamattina! (rivolto alla tirocinante con tono immediatamente serio e professorale) Un paranoico con tutti i crismi! E’ più di un mese che rifiuta le cure per cui non ci resta che l’ultima spiaggia, il ricovero coatto!

Antonia: Si professore ma il guaio è che si è asserragliato nel suo casolare in campagna con un fucile da caccia e minaccia di sparare a chiunque si avvicini!

De Mentialis: Oh bella! E non sono arrivate sul posto le forze dell’ordine?

Antonia: Proprio questo volevo dire! C’è il maresciallo in linea, ve lo passo?

De Mentialis: Ok ok  passamelo! Santa pazienza! Pronto … salve maresciallo … siete tutti lì, benissimo, procedete allora … cosaa?! (salendo rapidamente di tono) Come sarebbe a dire deve farsi avanti prima il collega e poi intervenite voi, siete voi le forze dell’ordine, allora che vi abbiamo chiamato a fare?! E’ compito nostro persuaderlo a deporre il fucile, e come, se posso saperlo, di grazia, suonandogli il piffero magico? Si deve prima calmare, ah davvero?! Maresciallo per chi ci avete preso, per una troupe di etologi … benissimo, d’ora in poi andremo in giro attrezzati con fucili che sparano fiale di sonnifero a distanza, ne faremo immediatamente richiesta all’ASL, avete ragione, abbiamo una carenza di attrezzature intollerabile … (quasi fuori di sé) la persuasione sì, la persuasione del piffero! Marescià, abbiamo pazziato abbastanza, se non vi decidete a fare quello che è di vostra competenza vi denuncio per direttissima ai vostri superiori e allora vedremo chi sarà a ballare! Badate che vi ho avvertito! (riaggancia bruscamente. Rivolto alla tirocinante che ha via via assunto un’aria sempre più incredula e costernata) Santi numi! Cara dottoressa, come può vedere è questo il vero manicomio e c’è da credermi quando le dico che …

Antonia (affacciandosi sulla soglia): Professore sono desolata ma la debbo nuovamente interrompere! C’è qui l’amministratore del condominio, si, quello della vecchietta, insiste che ha assoluta urgenza di parlarle!

De Mentialis (interdetto) Ancora?! Che diavolo vuole ancora, quest’altro musicante, se gliel’abbiamo tolta dai piedi giusto un paio d’ore fa e adesso è ricoverata a Villa Sorriso?!

Antonia: Non saprei, però è molto agitato!

De Mentialis: Va bene va bene, basta che finisca quest’altra dannata telenovela del pianerottolo! Fallo entrare.

Entra l’amministratore, esagitato, un tic nervoso lo costringe a stirare continuamente l’angolo sinistro della bocca: E’ lei il primario?

De Mentialis: Per servirla.

L’amministratore: Piacere, Paraguai.

De Mentialis: Niente di meno?! Ed è volato oltre oceano per finire in un rione popolare del napoletano?

L’amministratore: Ma ma … che ha capito? Paraguai è il mio cognome, Paraguai con la i!

De Mentialis: Ah, chiedo venia! (abbassando la voce) Non poteva darsi nome più attinente e felice! E dunque, signor Paraguai?

L’amministratore: Dunque?! E’ già più di un mese che vi abbiamo segnalato il nostro increscioso caso, dottore, qui urge fare qualcosa, non se ne può più, lo dico e lo sottolineo, non se ne può veramente più! (producendosi nell’ennesimo tic)

De Mentialis (scandagliando con fare sornione) Eh, mi rendo conto, stiamo cercando di provvedere ma … l’ha fatto di nuovo?

L’amministratore: Altro che se l’ha fatto! Non più di mezz’ora fa, un impiastro di olio e farina, ci sono incappato proprio io, stavo per rompermi l’osso del collo!

De Mentialis (imperturbabile): Certo che deve passarsela proprio bene quella vecchietta, per scialare così!

L’amministratore: Che scialare, è una povera mentecatta e … assolutamente fuori di testa!

De Mentialis: Se lo dice lei! Mezz’ora ha detto?

L’amministratore: Mezz’ora sì, mezz’ora, giusto il tempo di precipitarmi qui da lei!

De Mentialis: Beh, mi auguro che abbiate lasciato tutto così com’è!

L’amministratore: Come dice prego?

De Mentialis: Sì, voglio dire, mi auguro che non abbiate rimosso il corpo del reato!

L’amministratore: Vuole scherzare dottore?! In modo che qualcuno di noi si faccia una bella rocioliata per tutte le scale? Non le basta la mia parola, sono una persona seria e perbene sa?!

De Mentialis: Per carità non mi permetterei mai di mettere in dubbio la sua parola! (chiama la sala d’accettazione) Antonia? Cortesemente telefona a Villa Sorriso e fammi passare il collega Petitto … sei tu Petitto? Salve sono il collega De Mentialis. Come procede il caso della vecchietta? Sei riuscito a convincerla? Magnifico, non dubitavo del tuo talento persuasivo! Bene, a buon rendere! (riattacca) Signor Paraguai, mi duole farle presente che la vostra indesiderata condomina è ricoverata a Villa Sorriso già da più di un’ora!

L’amministratore: Come? Ma … ma … non è possibile!

De Mentialis: Si lo so, sembra incredibile, ma alle volte si danno rari, anzi, eccezionali casi di collocazione binaria! (digita il numero interno del reparto) Pronto Mina? Chi è il medico di turno stamattina? Bene, digli da parte mia di compilare un modulo di proposta e poi portamelo qua che penso io alla convalida. Ah, e non venire da sola, fatti accompagnare da qualche collega nerboruto … ok, vada per Luigi. (riattacca. Rivolto all’amministratore): Un momento solo.

L’amministratore (frastornato): Cosa? Non capisco!

De Mentialis: Non si preoccupi, fra poco capirà tutto.

(rivolto alla tirocinante che ha assistito a tutta la scena con un’espressione basita) Dottoressa, ha mai sentito parlare della nuova categoria diagnostica dell’ATRP?

La tirocinante: Veramente … no!

De Mentialis: Ebbene si tratta di una patologia emergente, nuovissima! (ironico)

La tirocinante (che ha finalmente intuito la situazione) Ah sì! Ho capito! Sì, ho cominciato a sentirne parlare!

De Mentialis: Sa com’è, in questo momento di grande crisi … c’è un dilagare di nuove forme di follia, onestamente non so quanto potremo ancora reggere noi psichiatri, temo che fra non molto dovremo sventolare bandiera bianca!

L’amministratore (che comincia ad angosciarsi): Cosa dite non capisco!

De Mentialis: L’ATRP, signor Paraguai, l’allucinosi traumatica reattiva persistente!

L’amministratore: Cocoosa?

De Mentialis: Una condizione allucinatoria scatenata da un forte trauma psichico, che si sviluppa nell’arco di uno – tre mesi dal trauma precipitante e tende a durare altrettanto! (con aria comprensiva) In soldoni, un pover uomo dabbene come lei resta talmente scosso da un evento che, oltre a riviverlo sotto forma di incubi ricorrenti, comincia ad allucinarne la presenza pure da sveglio, proprio come sta succedendo a lei, così, ad occhi aperti. (bussano alla porta) Avanti!   

Entrano Mina ed Emilio, quest’ultimo reca con sé un foglio

L’amministratore (esterrefatto, volgendo lo sguardo dall’uno all’altro) Ma … ma … che significa tutto questo?!

De Mentialis (vergando rapidamente il foglio):

Suvvia signor Paraguai, non si angosci, lei è tra amici. Vedrà, una settimana di ricovero, massimo due in caso di proroga, e tornerà perfettamente in sé!

L’amministratore (agitatissimo) Ma quale ricovero quali incubi quali allucinazioni io … io sto benissimo!

De Mentialis: Non mettiamo certamente in dubbio la sua buona fede ma è proprio questo il punto (guardando ad uno ad uno gli astanti che annuiscono con aria grave), non c’è coscienza di malattia in questo momento, è un classico, purtroppo ricorrono tutti gli estremi di un trattamento sanitario obbligatorio!

Mina ed Emilio prendono delicatamente sottobraccio l’amministratore: Non si preoccupi signore (premurosi) lei è in buone mani!

L’amministratore (cercando di divincolarsi, mentre Mina ed Emilio serrano la stretta) Non potete farmi questo! Io io vi denuncio!

De Mentialis (con un sorrisetto impassibile) Non le conviene sa, potrebbe beccarsi lei una bella denuncia per … a buon intenditore!

L’amministratore (ormai dalle quinte): Ma non finisce qui! Io vi denuncio, vi denunciooo!

De Mentialis: Ah ah, vedremo se qualche giorno di sano ricovero gli chiarisce un po’ le idee su cosa sia la malattia mentale, prima che gli salti in mente di attribuirla a qualche altro malcapitato.

La tirocinante: Non ci sono parole professore! Prendersela con una povera vecchietta sola e indifesa e cercare di farla passare addirittura per matta pur di cacciarla di casa, è … è semplicemente odioso! Ma a che scopo poi tutto questo?

De Mentialis sorride: Cara la mia dottoressa, la sua ingenuità è semplicemente deliziosa! Evidentemente Paraguai e i suoi degni compari hanno a cuore che ci vada qualcun altro in quella casa! E cosa c’è di meglio che rivolgersi a noi? Come se non fossimo psichiatri ma controllori dell’ordine pubblico e del quieto vivere sociale, ah! (ironico) è vecchia storia, mia cara, le assicuro, è vecchissima storia! Andiamo avanti.

Bussano alla porta: E’ permesso?

De Mentialis: Avanti!

Si affaccia Emilio: Professore … ehm … ci sarebbe Infante …

De Mentialis: Ah! Qualche buona nuova dal tribunale?

Emilio: Macché, magari! Professò, oggi è mala giornata!

De Mentialis (ironico): Overamente?! Mica me ne ero accorto! ‘mbè, che altro succede?

Emilio: Succede  che non lo possiamo più rabbonire di nessuna maniera! E’ un’ora buona ormai che s’è piazzato davanti al portone, quello in fondo al corridoio, e sbraita che vuole uscire sennò fa correre qui tutto il tribunale e ci spedisce in galera per direttissima, sue testuali parole!

De Mentialis: Ah ah, buona questa, pure noi vorremmo tanto che il tribunale si desse una mossa! Anzi, mò che ci penso, potrebbe essere un’idea per presentare un’istanza congiunta, noi e Infante, che ne dici?

Emilio: Professò, forse non è tanto il caso di pazziare! Mimmo a stento s’è scansato ‘nu bello manorovescio … oggi finisce a mazzate!

De Mentialis (scuotendo la testa con aria comprensiva):

Il povero cristo non ha tutti i torti, dopo trentadue giorni di arresti domiciliari sfido chiunque a mantenere le rotelle a posto, a cominciare dal sottoscritto! Vabbuono, portamelo qui e vedo di parlarci io, qualcosa m’inventerò, benedetto mestiere!

Emilio esce.

La tirocinante (che ha seguito tutto il dialogo con espressione  vagamente interrogativa): Gli arresti domiciliari? Non capisco!

De Mentialis: Eh cara dottoressa, lei ha ragione a non capire, in verità beato chi ci capisce qualcosa! Infante è uno psicotico di nostra vecchia conoscenza ed è … diciamo così, è in custodia cautelare da noi da più di un mese, piantonato da una pattuglia notte e giorno.

La tirocinante: Nientemeno! E perché?

De Mentialis: Perché il sant’uomo ha avuto la felice idea di sfilarsi la maglietta che aveva indosso davanti a una scuola elementare e così si è beccato una bella accusa di pedofilia!

La tirocinante (colpita). Ma …

De Mentialis (prevenendola): Macché macché! Infante è solo un povero diavolo con qualche rotella che gli gira di traverso, d’accordo, sì, un po’ sui generis … sufficientemente sgangherato, sì, siamo d’accordo anche su questo, ma non riuscirebbe a centrare una mosca nemmeno con un fucile a cannocchiale, figurarsi, c’è  assai di peggio in giro!

La tirocinante: Lo avrete fatto presente alla giustizia, immagino!

De Mentialis: Altro che!

La tirocinante: Ma … allora?

De Mentialis: Allora, allora … si vede che il giudice tutelare ha ben altro a cui pensare! O magari sta seguendo la pista di una nuova organizzazione pedofila a partire da Infante, chi lo sa! (sogghignando) Certo, con un nome del genere se l’è andata proprio a cercare!

Emilio si affaccia: Si può?

De Mentialis: Avanti avanti!

Entra Infante accompagnato da Emilio: capelli arruffati, maglione slabbrato e decisamente fuori misura. L’infermiere cerca di trattenerlo ma lui si dirige decisamente verso il primario, siede rumorosamente e punta i gomiti sulla scrivania con fare minaccioso: Si tu o capobanda?

De Mentialis: Sicuro! E che, Infante, non mi riconosci?

Infante (sullo stesso tono di prima): Sissignore! Voglio ascì!

De Mentialis (accomodante): Hai ragione, hai perfettamente ragione! Ancora qualche giorno …

Infante (incalzante): Quale giorno quale giorno?! Mò mò, subito, o sennò … na bella scoppettata e vi mann’ all’atu munno!

De Mentialis (senza scomporsi): E via, non esageriamo, calma calma! Pure tu però, benedetto Infante, metterti a torso nudo davanti a una scuola …

Infante: Embè?! Mi volevo piglià nu poco e sole! Pecché, è proibito?

De Mentialis: No no, capisco ma …

Infante: Per colpa vostra io non dormo!

De Mentialis (assumendo immediatamente un’aria seria):

Ecco lo vedi che non dormi, che c’è ancora qualche problema? Via, ancora pochi giorni da noi e ti facciamo dormire, ti rimettiamo in sesto, non è vero Emilio?

Emilio (confondendosi): E come no! Gliel’ho detto pure io a Infante che così non va, che dorme troppo!

De Mentialis (annuendo con aria grave): Un vero e proprio caso di ipersonnia!

Infante: Ma veramente …

Emilio: E iammo Infante non negare! Tu duorme a suonne chine!

Infante: Non è vero! Nemmeno stanotte ho dormito!

De Mentialis: Storie! Come fai a dirlo?

Infante: Ma come, come faccio?

De Mentialis: Bene! Che ora era allora?

Infante: E io che ne so!

De Mentialis: Non lo sai?! Quando uno non riesce a dormire la prima cosa che fa è controllare l’ora!

Emilio (rincarando): Sicuro! E accende pure la luce!

De Mentialis: Tu l’hai accesa?

Infante (perplesso): Nnn … non me lo ricordo!

Emilio: Garantisco io professore, ero di turno pure stanotte ed era tutto buio!

De Mentialis: Segno evidente che dormiva troppo…

Emilio: Oppure che non dormiva e per il nervoso non si è preoccupato di accendere la luce e di controllare l’ora!

Infante (sempre più confuso, guardando ora l’uno ora l’altro): Ma … ma io non capisco … dormo o non dormo?!

De Mentialis: E chi lo sa, chi lo può dire a questo punto! Comunque sia non ci siamo ancora, Infante, devi restare da noi!

Emilio (prendendolo garbatamente per un braccio come per sollecitarlo ad alzarsi): Proprio così! Suvvia, Infante, ancora un poco di pazienza!

Infante, riluttante e più che mai confuso, si avvia con Emilio verso la porta: giunto sulla soglia si volge verso De Mentialis: Però, se dormo … cioè … se non dormo … ‘na bella scoppettata…

De Mentialis (pronto): E ci manni all’atu munno, sicuro, hai la mia parola!

Escono.

De Mentialis: Lo so, dottoressa, non mi dica nulla! Le istituzioni non ne vogliono sapere di comprendere le nostre realtà e allora … ma in fondo, comunque sia, noi per Infante, e tanti altri poveri diavoli come lui, siamo l’unica vera famiglia!

La tirocinante (annuendo a malincuore): Capisco!  

De Mentialis (cercando di sdrammatizzare): Suvvia, inoltreremo l’ennesima richiesta al giudice tutelare e prima o poi la cosa si risolverà. Ora … tornando a noi …     

Antonia si affaccia alla soglia: Professore, ci sono i coniugi Virtuale. Li faccio entrare?

De Mentialis: Va bene (alla tirocinante) Un nuovo caso, pare che siano in rotta di collisione e vorrebbero un aiuto a chiarirsi le idee sulla loro crisi.

Entra la coppia: lui di mezza età, capelli brizzolati, alquanto corpulento, infagottato in un lungo loden scuro, lo sguardo poco sveglio, l’andatura impacciata. Ha il braccio destro fasciato e appeso al collo. Lei appare molto più giovane, sulla trentina, vestita in modo un po’ eccentrico, giubbino luccicante di paillets e un abbondare di vistosi monili di sapore etnico. Nel complesso è graziosa ma ha un’aria molto imbronciata ed ostinata.

Lui: Buongiorno professore

De Mentialis (scrutandoli attentamente): Buongiorno accomodatevi pure.

Lui (quasi tra i denti): Saluta, Olga!

Lei (occhi bassi, sciogliendosi dal suo braccio quasi con uno strattone) Buongiorno.

De Mentialis: Allora signori, qual è il motivo che vi porta qui?

Lui: Vuoi parlare tu?

Lei (mantenendo ostinatamente gli occhi bassi): No no, parla tu!

Lui: Ti pareva. Ehm … dunque professore … ehm, scusi, sono un po’ emozionato, non c’era mai capitato di rivolgerci a unoo …

De Mentialis: Capisco capisco. Non si preoccupi, si rilassi pure.

Lui: Ecco, per la verità l’idea è stata mia ma lei non mi ha detto di no, vero Olga?

Lei, sempre occhi bassi, accenna di sì con la testa.

Lui: La deve scusare professore, è un po’ timida.

Lei gli lancia uno sguardo infastidito ma rimane trincerata nel suo mutismo.

Lui (sospirando): Ecco, siamo qui per essere aiutati a capire se il nostro matrimonio si può ancora salvare. Io dico di sì.

Lei (finalmente si riscuote): Povero illuso, sei proprio patetico!

Lui (incassando): Perché dici così, fino a poche settimane fa si andava insieme una meraviglia!

Lei lo guarda basita, scuotendo la testa.

Lui: E’ così professore, mi creda, la nostra era una unione felice e tranquilla …

Lei (caricaturando un’espressione annoiata): Si, soprattutto tanto tranquilla!

Lui (fingendo di non cogliere): E’ così dico, non ci mancava niente, oddio, forse un figlio, ma verranno, verranno, intanto abbiamo un cane per il quale stravediamo … vabbè, questo magari non è tanto importante. Insomma, venendo al sodo, mia moglie, senza che mi accorgessi di nulla, sì magari ogni tanto la vedevo un po’ assente, come se avesse la testa altrove, ma non più di tanto, almeno così mi pareva ehm … un bel giorno mi fa una scenata e mi dice che non sente più niente per me e che da settimane e settimane ama un altro, solo che non l’ha mai visto!

De Mentialis: Come sarebbe?

Lui: Avanti, dillo tu!

Lei (animandosi improvvisamente) L’ho conosciuto su una chat, è … è … un rapporto meraviglioso, siamo fatti proprio l’uno per l’altra e poi … (con uno sguardo rapito) è anche un gran bell’uomo!

Lui (sbigottito) Ma se non c’ha nemmeno una foto sul profilo!

Lei: E che importanza ha?! Si è saputo descrivere così bene che mi pare di vederlo!

De Mentialis (che comincia a divertirsi): Perché, ha anche visitato il profilo sulla chat di sua moglie?

Lui: Certamente! Vede, mia moglie non ha mai avuto segreti per me! Mi ha persino detto che stavano progettando un appuntamento per conoscersi. Allora, sa, ho perso un po’ la pazienza, ma è stato l’unico momento, ho perso la pazienza e … (indicandosi il braccio destro fasciato) ho scagliato un pugno nel vetro della finestra della camera da letto!

De Mentialis: Capisco, una reazione umanamente comprensibile. Immagino che sia andato su tutte le furie quando sua moglie le ha detto che voleva pure conoscerlo!

Lui: No, non è proprio così, e che io mi ero offerto di accompagnarla all’appuntamento ma lei non ha voluto ed è per questo che mi sono un po’ innervosito.

De Mentialis (esilarato) Ah dunque si era anche offerto di accompagnarla? Un pensiero gentile il suo.

Lui (incoraggiato) Ecco, ecco, glielo dica pure lei! Tu fraintendi sempre le mie intenzioni, io volevo solo proteggerti, consultarmi con te, darti un mio parere sull’incontro, professore, sa, mia moglie in fondo è ancora una ragazzina, non è smaliziata anzi, è pure un po’ troppo ingenua e fantasiosa …

Lei (con aria di sfida): Questo lo dici tu! E’ una fissazione la tua, io non voglio angeli custodi, so cavarmela benissimo da sola!

Lui: Si proprio! Tu non conosci i pericoli del mondo! Capisce professore, avrebbe voluto imbarcarsi così, alla ventura, una leggerezza imperdonabile, un vero e proprio salto nel buio …

Lei (infervorata): Aladino non è un salto nel buio!

De Mentialis: Perché, si chiama così? E’ arabo forse?

Lei: Che arabo, no, è italiano, italianissimo! Aladino è il suo nome in codice, anch’io ne ho uno, Fiore d’Aprile.

Lui (ironico): Già, hanno pure i nomi d’arte!

Lei (sempre più accalorata): C’è poco da fare ironia, tu non capisci niente, non hai mai capito niente! Lui … ha un modo di scrivere fantastico, mi scrive certe cose, magari tu mi parlassi come mi scrive lui!

Lui (amaro)  Capisce professore, è anche un letterato! Sì sì, è un amore letterario!

De Mentialis (ironico): Perché non si fa suggerire da questo Aladino le cose belle che sua moglie vuole sentirsi dire? Se costui è di tanta facondia!

Lui: Professore, ci si mette anche lei adesso, vuole scherzare?!

De Mentialis:  Niente affatto! Non conosce Rostand?

Lui: Rochi?!

De Mentialis: Rostand, Rostand, il Cyrano di Bergerac!

Lui: Mi scusi professore, io sono una persona semplice, chi è questo Cyra … Cyranù o come diavolo si chiama?

De Mentialis: Cyrano, abilissimo spadaccino e ancor più abile parlatore, un vero poeta! Lui spasima d’amore per la bella Rossana ma, ahimé, Rossana a sua volta è invaghita di Cristiano, tanto bello quanto insulso. E così il povero Cyrano, che ama senza speranza per via del suo incredibile naso, si accontenta di scrivere alla sua amata versi bellissimi facendole credere che sono nati dalla penna del bel Cristiano. Così, dico, se per sua moglie sono così importanti le dolci frasi d’amore potrebbe farsele suggerire da Aladino che ha una bella penna!

Lei (provocatoria): E mio marito chi sarebbe, il bel Cristiano?! Ah ah, ma l’ha visto bene?

Lui (piccato): Perché, che hai da dire sul mio aspetto?

Lei (esasperata): Beh guarda, solo se non sapessi come sei fatto mi potrei forse interessare a te!

De Mentialis: Caspita signora, senza volerlo ha avuto un’idea grandiosa! Perché non si mette a chattare con suo marito? Voglio dire, invece di incontrarvi di persona, questa cosa ormai banalissima e più che scontata, mettetevi a chattare in stanze separate, anzi fate tutto on line! Potrebbe rivelarsi una salvezza!

I due si guardano a lungo; infine lui:

Però, potrebbe essere un’idea, che dici … almeno tentiamo!

Lei: Mah … non so … si, forse si potrebbe provare.

Lui (che già comincia a infervorarsi): Potremmo attrezzarci con una webcam …

Lei lo interrompe inorridita: Per carità, nessuna webcam, dove la mettiamo allora la fantasia?!

De Mentialis (pronto). La sua signora ha perfettamente ragione! Nessuna percezione, nessuna volgare concretezza, è questa la chiave del successo di coppia!

Lui: Professore, non so proprio come ringraziarla, che Dio la benedica lei e il suo Rostano …

De Mentialis: Cyrano, Cyrano! Si figuri, per così poco!

I due, visibilmente risollevati, si alzano accomiatandosi e si avviano verso l’uscita

Lui: Però bisogna che ti cambi il nome in codice, a me questo Fiore d’Aprile non mi piace!

Lei: E allora cosa proponi?

Lui: Mah … per esempio Rosa ‘e Maggio!

Lei: Ma se, figuriamoci! Le canzoni napoletane sono piene di maggio e di rose, che lagna! Ma dico io, un pizzico di originalità, sei sempre così banale!

Lui: A te non va mai bene niente qualunque cosa proponga, sono proprio io che non ti vado a genio!

Lei: Bravo l’hai detto, ti tengo proprio qua, ‘ngopp’ o stommaco!

Lui: Allora separiamoci!

Lei: ‘Assa fa a Dio, sì, separiamoci!

E continuano a litigare dietro le quinte.

De Mentialis: Ah ah, questa è proprio una chicca, gustosissima! Parola mia in quasi quarant’anni di carriera ancora non avevo mai visto roba del genere!

La tirocinante: Vero professore da non credersi! Ma lei è proprio una miniera di idee, ma come le è saltato in mente di consigliare loro di chattare?

De Mentialis: Perché, non le sembra in linea con i tempi? La gente non sa più che farsene di incontri reali, vuole bearsi delle sue pippe virtuali ah ah!  

Bussano alla porta.

De Mentialis: Chi è? (senza attendere risposta) Avanti!

Entra Emilio: ha un foglio nella mano destra e passa come distrattamente le dita della sinistra tra i capelli per cercare di darsi un contegno; evidente il suo sforzo di non esplodere in una risata. Ridacchiando e fingendo di schiarirsi la gola per trattenersi:

Ehm … professore … ah ah … non si arrabbi … ah ah … ehm …

De Mentialis: (tra l’ironico e l’incuriosito) Che c’è Emilio, hai appena saputo di aver vinto alla ruota di Napoli?! Avanti parla, facci ridere pure a noi!

Emilio:  Ehm … di là ci sarebbe l’appuntato della stazione dei carabinieri … ehm …

De Mentialis: (che comincia leggermente a spazientirsi) ‘Mbè? E che vuole stu madonna?

Emilio: Professò non si arrabbi … viene per conto del capitano della stazione … dice che se per favore gli riscrive questo certificato …

De Mentialis: Ancora?! Perché, cosa c’è che non va nel mio certificato? E’ così chiaro!

Emilio:  Se per favore glielo riscrive a stampatello … ah ah … dice che vuole vederci più chiaro.

De Mentialis:(attonito ed incredulo) Cosa?! In stampatello?! Emilio, per caso hai bevuto a prima mattina?! Oppure ha bevuto l’appuntato, oppure uno di voi due è caduto cu ‘a capa ‘nterra stamattina?! Facci il piacere, non abbiamo tempo da perdere oggi!

Emilio:  Professò, lo so che è da non credersi, gliel’ho detto pure io all’appuntato, ma quello insiste che il capitano lo rivuole in stampatello perché non è abbastanza chiaro e non capisce!

De Mentialis (sempre più irritato): E che c’è da capire, la mia grafia è così chiara, perché non si fa un trapianto di cervello se non capisce?! Andiamo, levamelo dai piedi se no lo faccio io … e non rispondo più di me stesso!

Emilio (esilarato):Professore, secondo me le conviene abbozzare; quello l’appuntato s’è piazzato in sala d’attesa e dice che non se ne va se prima non gli rilascia un altro certificato.

De Mentialis (ormai furibondo): Ma questi sono numeri, in tant’anni di carriera una puttanata del genere ancora non l’avevo mai sentita! Dammi quel foglio, avanti!

Emilio gli porge il certificato.

De Mentialis (quasi strappandoglielo dalla mano) Io li internerei in un manicomio, se ancora esistessero, l’appuntato, quell’idiota di capitano e tutta la stazione, e butterei      via la chiave, cose dell’altro mondo! Questo è un centro di salute mentale, non un teatrino delle guarrattelle! (riscrivendo rapidamente) Eccoti questo dannato certificato!

Emilio: Professò, lo faccio entrare l’appuntato?

De Mentialis: Per carità, sbrigatela tu a licenziarlo, se lo rivedessi io nessuno mi potrebbe trattenere dal farne una bella fotocopia in faccia al muro!

Emilio: Va bene professore, io vado

De Mentialis: Vai vai, e ‘a Madonna v’accompagni a tutte e due!

Emilio esce divertito, De Mentialis, rimasto solo con la tirocinante, scuote la testa sbraitando:

Poi si lamentano che la gente s’inventa barzellette sul loro conto! A costo d’indulgere al più trito e ritrito dei luoghi comuni è proprio vero che la realtà supera di gran lunga la più ardita delle fantasie!

La tirocinante: Professore, attenzione al discorso sulle barzellette ché rischiamo di remarci contro!

De Mentialis (annuendo): E già, ne convengo, pure sul conto nostro ci si inventa una quantità di storielle amene! Strizzacervelli ci chiamano,  a cominciare da quelle serpi dei cari colleghi delle altre branche che ci guardano sempre con sospetto, i nostri pazienti e noi che saremmo più squinternati di loro, salvo poi ad affliggerci una volta sì e l’altra pure, per levargli le castagne dal fuoco! Per ogni povero Cristo che si permette di lamentarsi vanno in agitazione, corrono da noi perché noi siamo gli esperti dell’anima e i tecnici della comunicazione! Puah! (con un espressione sprezzante e disgustata) E che ne parlammo a ‘ffa, basta, torniamo a noi!

Antonia bussa delicatamente sulla porta socchiusa

De Mentialis:  Avanti.

Antonia (entrando): Professore, ci sono di là i coniugi Martire, li faccio entrare?

De Mentialis: Giusto qualche minuto per illustrare il caso alla dottoressa, chiamerò io.

Antonia: Va bene professore. (invece di uscire, però, esita sulla soglia con l’aria di chi avrebbe qualcosa da dire proprio sulla punta della lingua ma si trattiene per valutarne l’opportunità)

De Mentialis (se ne accorge): Che c’è Antonia?

Antonia (titubante): Niente …  cioè … ecco, a proposito di quelle gocce di Serenase … non per altro, per carità! Però, onestamente, solo in pisichiatria  potevo vedere certe cose … in anni di lavoro qui ne ho viste tante però … una cosa simile ancora non m’era capitata di vederla! (tace con aria interrogativa, come di chi si aspetti un chiarimento)

De Mentialis (divertito):  Eh cara Antonia, e ancora ne vedrai! Oggi si sta facendo tardi e non c’è tempo, ma alla prima occasione buona ti spiegherò il razionale di quella mossa terapeutica. Intanto se mi consenti ti correggo, non si dice pisichiatria ma psichiatria!

Antonia (concentrandosi, ma con scarsi risultati): Pisichiatria! (convinta)

De Mentialis (spazientendosi):  Non pisi! Psi psi, psichiatria! Quante volte dovrò ripeterlo a te e a tutti voi altri infermieri, a capa tosta assaie tenite! Neanche fosse uno scioglilingua! Non c’è da fare, vai vai, chiamerò io!

Antonia esce mentre De Mentialis scuote la testa rassegnato ma subito dopo, come fosse subentrato un improvviso pensiero, ridacchia: Eh eh eh, uno scioglilingua no ma un imbrogliacervella sì, eh eh … basta, concentriamoci sul prossimo caso, quello di Linda Martire: si tratta di un caso quanto mai istruttivo ed interessante, dottoressa, una “nevrosi”, anzi è il caso di definirla “psicosi” ossessiva. Preferisco parlare di psicosi perché i sintomi sono così gravi, strutturati ed invalidanti da far perdere il contatto con la realtà. Lei immagini una donna così irrazionalmente convinta che la casa e la propria persona non sono mai abbastanza pulite da lavare ossessivamente sé stessa, i figli, gli abiti, le scarpe fino a spaccarsi la pelle delle mani a causa del continuo contatto con acqua, saponi e detersivi: un vero e proprio inferno! Gli psicofarmaci sono utili ma servono solo ad attenuare i disturbi, però la personalità rigida del paziente, che è torturato dai dubbi e quindi dalla necessità di controllare continuamente che tutto sia a posto, rimane tal quale. Eh … (guardando alla parete sulla sua sinistra il ritratto di Freud) … il buon vecchio Sigmund è stato il primo a fare un po’ di luce in questo mistero degli ossessivi compulsivi! La cosa sconcertante è che, inconsciamente, l’ossessivo ha una gran voglia di sporcarsi, proprio una voluttà di luridume!

La tirocinante (tra lo stupito e lo schifato): Sul serio?

De Mentialis (divertito): Proprio così E non solo! Ci ha pure una grande carica di aggressività repressa, come fosse … na ‘nziria, si dice qua a Napoli, ma non potrebbe mai ammetterlo  con sé stesso, per cui assume comportamenti che sono l’esatto opposto dei suoi desideri più inconfessati! La signora Linda, ad esempio, era terrorizzata solo dall’idea di andare al cimitero, anzi bastava la sola parola a metterla in agitazione! E’ stato necessario, con un lavoro lungo e paziente, farle capire che in realtà lei era molto attratta dall’idea della sporcizia, della putrefazione dei corpi, una tentazione violenta ed aggressiva di scoperchiare le bare e contemplarne il contenuto …

La tirocinante (con un’espressione disgustata) … Mamma mia, che schifo! (e tira fuori dalla borsetta un pacco di fazzolettini imbevuti, ne estrae uno e si disinfetta le mani)

De Mentialis (prendendoci sempre più gusto) Per non parlare della tentazione, sempre inconscia, di imbrattarsi ed imbrattare tutto con le feci! Ebbene, in un lungo lavoro di mesi la signora Linda ha imparato a riconoscere e a tirare fuori la sua rabbia e la sua aggressività e così, piano piano, anche i suoi comportamenti patologici si sono attenuati. Ad esempio mi ha detto di avere smesso di portare i guanti sottili … sì insomma i guanti chirurgici, con cui credeva di proteggersi dalle contaminazioni, pensi che all’inizio non li toglieva mai per nessuna ragione, addirittura ci andava a dormire!

La tirocinante (interessata al caso): Una bella soddisfazione!

De Mentialis (lusingato e compiaciuto): Eh sì. Non lo nego, ma ora vedrà lei stessa (compone il solito numero): Antonia, fai entrare la coppia.

Entrano i coniugi Martire al suono di “Napul’è” di Pino Daniele che alNapul’è ‘na carta sporca” sfuma in sottofondo: lei è un donnone alto e dal portamento un po’ rigido, le mani come avvolte ed infagottate in uno scialle nero a mo’ di manicotto; lui più basso, piuttosto mingherlino, la testa come rannicchiata nel collo ed un’espressione contrariata. Ad un invito di De Mentialis siedono.

De Mentialis: Bene cara signora Linda, come va?

La signora Linda: Meglio professore, infinitamente meglio, Dio ve ne renda merito! Non ho più paura di andare al cimitero …

Martire (con un tono di amara ironia): … infatti ci sta andando tutti i giorni … certo con tutti gli arretrati di anni ed ann …  

La sig.ra Linda (volgendosi verso di lui e fulminandolo con uno sguardo): Zitto tu, parla solo quando sei interpellato! (volgendosi a De Mentialis con tono immediatamente rabbonito, anzi deferente): Dunque le dicevo del cimitero …

De Mentialis: E la rabbia?

La sig.ra Linda: Ah, in quanto a quella non mi faccio più scrupolo a tirarla fuori!

Martire (sottovoce, come parlando a sé stesso): Ne so ben io qualcosa!

De Mentialis: Bene bene; e dei rituali di pulizia cosa mi dice?

La sig.ra Linda: Oh, quelli mi tormentano assai di meno (il marito la guarda attonito, come di chi non creda alle proprie orecchie) anche se qualche fisima ce l’ho sempre ma … per carità, non c’è paragone con prima!

Martire (con un timido accenno di protesta nella voce): Veramente professore, non sarebbe proprio così. Sì, è vero che …

La sig.ra Linda: Tu non ti accontenti mai, non è mai abbastanza quello che faccio per te! Anzi (rivolto a De Mentialis)  qualunque cosa io dica deve sempre contraddirmi, proprio uno spirito di bastian contrario!

De Mentialis (con tono conciliante): Suvvia signori, calmatevi. (rivolto al marito) Vede, io capisco il suo disappunto, ma la invito a considerare i progressi che ha fatto sua moglie …

Martire (come di chi abbia le parole che gli bruciano sulla lingua): Si ma …

De Mentialis (senza darsene per inteso): Non possiamo pretendere la perfezione!

La sig.ra Linda: Ecco, glielo dica lei!

De Mentialis: Non è il caso di scaldarsi, il signor Martire è un uomo intelligente e capirà che i miglioramenti sono lenti e tuttavia vanno avanti, bisogna armarsi di molta pazienza, vero signor Martire?

Martire si limita ad annuire, ormai rassegnato.

De Mentialis: Bene, per ora è tutto, ci rivediamo a controllo fra un mesetto (si alza, imitato dai suoi interlocutori) Signora Linda, mi raccomando, perseveranza in quelle riflessioni e arrivederla! (allunga la mano per porgerla alla signora Linda in segno di saluto) La signora Linda libera dallo scialle la mano destra, guantata, e la porge a sua volta al primario.

De Mentialis (basito):  Ma … ma come … ancora va in giro con i guanti?!

Martire (prontamente, cogliendo la palla al balzo): E’ questo che volevo far presente fin dal principio, ma la signora qui presente nun m’ha fatto dicere ‘na vrenzola e parola! E non basta che ogni volta che rientro in casa debbo prima sostare in una specie di autoclave e che per rendere felice mia moglie dovrei camminare sospeso senza gravità come Armstrong sulla luna, così è sicuro che i pavimenti non si sporcano, sopportiamo, perché i miglioramenti sono lenti! (alzando di un tono) Non basta che le mie giacche devono andare in lavanderia un giorno sì e uno no, sto spendendo un patrimonio, di questo passo fra poco finirò a chiedere l’elemosina sui gradini di una chiesa, (ironico) sopportiamo anche questo perché sta migliorando piano piano, (rivolto alla moglie) cerca di guarire del tutto prima che sia costretto ad attrezzarmi per qualche rapina in banca! (alzando di un altro tono) E non basta che i mobili, a furia di strofinarli, sono diventati un’autentica schifezza, irriconoscibili, sopportiamo, anche perché, se mi permetto di aprire la bocca volano sberle, grazie al fatto che deve tirare fuori la rabbia! (alzando ancora di un tono, ormai esasperato e rosso in volto) Prima almeno le verdure si potevano mangiare a casa mia, sì, tenute a bagno dal giorno prima in ammuchina, asciugate con la garza sterile e poi sciacquate un ‘altra volta e asciugate un’ altra volta al punto da diventare una specie di pappetta ammosciata, una ciofeca! Adesso invece la mia cara signora ha stabilito che per colpa delle manipolazioni genetiche non si può mangiare quasi più niente in casa mia, ogni settimana devo andare da un contadino e tornarmene con il furgoncino dei rifornimenti, non ce la faccio più, tu tu … mi hai distrutto!

La sig.ra Linda: Tu sei sempre il solito superficialone, non si scherza con gli OGM!

 

Martire (ormai furibondo e paonazzo): Gli OGM?! Gli OGM e chi t’è vive! (quasi trascinandosela con sé) Iammocenne, arrivederci professore, statevi bene pure vuie, ‘cca nemmeno nu Paraviso sano potarria fa nu miracolo!

La sig.ra Linda (voltandosi indietro):  Arrivederla professore, sono mortificata, mio marito è diventato pazzo!

Martire: E già, e chi sa chi è che m’ha fatto ascì pazzo! Ma stasera me ne voglio vedere bene, vado da Don Ciro a mare e mi faccio na bella ‘mpepat’ e cozze, alla faccia tua!

La signora Linda (inorridita): Stai scherzando?! Con tutti i rischi di colera che ci sono!

Martire (con un tono di sfida): E a me che me ne fotte?! Anzi, colera, tifo e paratifo, brucellosi, salmonellosi, viermi intestinali di tutti i tipi, tutto mi voglio pigliare, tié! Tu sei nata per mettere in croce a me, per la mia sciagura t’ho incontrato, (ormai uscito di scena con la moglie continua ad urlare dietro le quinte) per la mia sciagura!

De Mentialis, affranto, rimane con la testa tra le mani ed i gomiti puntati sulla scrivania.

La tirocinante (premurosa):  Via professore, non si abbatta così, lei m’insegna che il nostro mestiere è assai complicato, me l’ha ripetuto più volte proprio lei che noi psichiatri ci dobbiamo sempre guardare dalla tentazione di sentirci onnipotenti e …

Antonia (affacciandosi dalla porta della sala d’attesa): Professore, al telefono.

De Mentialis (riscuotendosi) E chi è?!

Antonia: Professore è l’una e mezza, chi può essere a quest’ora? Abbia bontà, gli parli lei a Sergio stavolta, è tutta la mattinata che chiama!

De Mentialis:  Giusto lui mi mancava per completare l’opera stamattina, la ciliegina sulla torta, il dessert per gradire! Passami questo Dio di guaio!

La tirocinante (più incuriosita che mai): Professore, ma chi è questo Sergio?

In sottofondo il suono di uno scacciapensieri.

De Mentialis:  Un paranoico doc, un delirante di persecuzione …  ogni mattina a quest’ ora chiama, puntuale e inesorabile come la morte, però stamattina ha cominciato di buon’ora, sai che consolazione, ma adesso sentirà con le sue stesse orecchie … pronto! Si tu, è ‘o vero, e chi poteva essere a quest’ora, cominciavo a sentire la mancanza … sei angosciato, e capirai la novità … ancora con questa leggenda metropolitana, ti pedinano, ma chi, va truvann’o pedinamento, o pedinamento d’o sasiccio! Sergio stamattina non è cosa e non ho voglia di stare a sentire le solite stronz … ma chi ?! Quella Cosa Nostra pensa giusto a te, ‘a mafia, ‘a camorra, tutti con una lupara pronta per quando ti trovi a passare tu, ma cammina, non farmi ridere, ma chi ti criri d’essere, lo vuoi capire o no ca tu nun si nisciuno! E si, come no, il telefono sotto controllo, le microspie in casa,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   le videocamere, il Grande Fratello, le intercettazioni, sì, le intercettazioni e chi t’e … guagliò, ‘cca a nuje ci coce o fronte, hai capito?! Se mi metti na tiana ‘ncapa l’acqua volle e si può pure menà a pasta! Ma iesce, iesce da quella specie di santuario della stanza tua, fatti ‘na camminata, piglia aria per rinfrescare ‘ste cervelle fracide che ti ritrovi, non ti succederà il resto di niente, garantisco io per tutti, mi prendo io questa responsabilità, basta che truovi nu poch’e requie e la fai trovare pure a me … va bene ci risentiamo domani mattina, pigliati qualche goccia di Talofen in più e ‘na Tavor da 2,5 … si ciao ciao!

De Mentialis riattacca sbuffando mentre la tirocinante lo guarda esterrefatta: Ma come professore, glielo contesta così il delirio? E il fatto di entrarci dentro, allora, di colludere?!

De Mentialis: Eh dottoressa, non ci sono regole fisse, dipende dai casi, dalla relazione che si ha con il paziente! Se la relazione è ormai solida ci si può permettere di utilizzare un’altra tecnica, l’attacco al delirio! Sì, in questo caso mi sono posto come Io ausiliario, quello che cerca di dare voce alle sue parti sane, che muove le critiche al pensiero patologico,  quelle critiche che lui da solo non sa fare!

La tirocinante: Ma bisogna insistere molto allora, io vedo che questo Sergio telefona tutte le mattine …

De Mentialis: Ed io, più tosto di lui, sferro un altro attacco al delirio … del resto questo è quanto e non c’è altro da fare … ì, quei bei manicomi di una volta! (fissando lo sguardo sulla foto di Basaglia che fa bella mostra di sé sulla parete alla sua sinistra, accanto al ritratto di Freud) Eh Franco, caro buon vecchio Franco! (nostalgico) Se penso a come ho esordito, giovane innamorato della Psichiatria Democratica e fautore convinto della grande riforma sui manicomi! Ma Franco l’aveva preconizzato, da quel genio che era, sì, tutto bene quando si parla di nord, di centro Italia, quel bel centro Italia (scaldandosi) ma perché non me ne vado, che aspetto a fare fagotto e ad andarmene a passare gli ultimi anni in mezzo alla civiltà, mi hanno invitato tante volte, ed io invece, campione mondiale di masochismo, me ne rimango qui, in questo stramaledetto Sud, con le strutture intermedie che mancano nove volte su dieci, e i pazienti e le loro famiglie allo sbando, (alzando sempre più i toni) tutti ci chiedono di fare il miracolo ma qui la ditta Lourdes è fallita! E allora ti vengono certe tentazioni … l’eugenetica … dottoressa, ha mai sentito parlare dell’operazione T4?

La tirocinante (basita) Cosa?! Il cosiddetto programma nazista di eutanasia, è a quello che allude?!

De Mentialis (con lo sguardo eccitato): Proprio a quello, ha colto subito, brava!

La tirocinante (costernata): Ma come, l’eliminazione in massa di bambini deformati, alcolisti, epilettici, malati mentali?! La sperimentazione della soluzione finale, l’anticamera della Shoah?! Ma che dice professore?!

De Mentialis (che ormai ha perso quasi del tutto il controllo): Dico dico! Ebbene, a costo di apparire come il più becero dei qualunquisti, il più vieto dei reazionari, lo dico e lo ribadisco e non me ne vergogno! (paonazzo) Lo Zyclon B ci vorrebbe, ci vorrebbe il gas, altro che chiacchiere, altro che riforme progressiste, tutte stronzate da imbrattacarte, creda a me …

La tirocinante (quasi annaspa senza saper bene cosa fare) Per carità di Dio, professore, cerchi di calmarsi, così le verrà un colpo apoplettico!

De Mentialis (alzandosi di scatto dalla sedia e urlando): Buono, anzi ottimo, che mi venisse pure un accidente!

Antonia ed Emilio si affacciano dalla porta della sala d’attesa guardando a bocca aperta De Mentialis che cammina a lunghi passi per la stanza commentando quel che dice con sonori colpi di nocche sulla scrivania: Ma che succede?! Professore, non si sente bene?!

La dottoressa (traendo un mezzo sospiro di sollievo) Ah, ci siete voi, Dio ti ringrazio! Vi prego aiutatemi pure voi a calmarlo!

De Mentialis: Io sto benissimo, mai stato così lucido e consapevole in vita mia! (rivolto alla tirocinante) Io la capisco sa, sono stato anch’io giovane e pieno di ideali come lei, è lei che non può capire me! Ma l’aspetto al varco, l’aspetto! Tempo dieci, quindici anni al massimo e poi vorrò sapere cosa ne pensa! Sarà favorevole quanto meno all’elettroshock …

Frattanto Emilio ed Antonia, armati di siringa e laccio emostatico, lo circondano cercando di contenerlo, mentre si riode, in crescendo, “Je so’ pazzo”:

Antonia:  Via professore si calmi, coraggio, è solo un momento!

Emilio (rincarando): Ma  sì, una bella fiala di Largactil e una mezza Farganesse e starà subito meglio! Venga professore, venga con noi in infermeria!

De Mentialis (cercando inutilmente di divincolarsi mentre Antonia ed Emilio tentano insieme di trascinarlo fuori con loro e la tirocinante assiste costernata alla scena): Ma sì, l’elettroshock, altro che queste balle garantiste! Elettroshock, (con il volto rivolto al pubblico) shock termico, shock insulinico … (pausa come a rimarcare meglio agitando le braccia verso il pubblico): shock di tutti i tipiii!

Cala il sipario

 

PICCOLO GLOSSARIO NAPOLETANO

  1. Pag. 45…”e iammo bella!” (sbrighiamoci)
  2. Pag. 58 …”la cazzimma ci vuole!” (la faccia di corno, il saperci fare)
  3. Pag. 59 …”Aldo semp’a stessa capa fracita tiene!” (Aldo, sempre la stessa testa                  fracida tieni!)
  4. Pag.59 … “a schizofrenia d’o sasiccio!” (la schizofrenia dei miei stivali!)
  5. Pag.60…”a me nun me facite fesso!”  (voi non mi prendete per i fondelli!)
  6. Pag.60…”sta proprio a fronn’e limone!” (sta proprio fuor di testa)
  7. Pag. 61…”proprio comme s’io fusse nu quagliuncello!” (proprio come se fossi un ragazzino!)
  8. Pag. 61…”va trillanno comme nu cardillo!” (va in giro trillando come un cardellino!)
  9. Pag. 61…” sposati o non sposati, che ce ne ‘mporta a nuje?” (sposati o meno che ce ne importa?”
  1. Pag. 62….”ma la vuoi finire o no?” (ma a vuò fernì o no?)
  2. Pag. 74….”Adesso adesso, diversamente, con un bel tiro di schioppio mi man          do all’altro mondo! (Mo mo, subito, o sennò… na bella scoppettata e vi mann’all’atu munno!)
  3. Pag.80 … “ti tengo proprio qui, sullo stomaco!”
  4. Pag. 80….”oppure uno di voi due è caduto con la testa per  terra” (oppure uno e vuje è caduto cu a capa ‘nterra)
  5. Pag. 84 …”nun m’ha fatto dicere na vrenzola e parola!” (mi ha impedito di dire una sola parola!)
  6. Pag. 85 … Statevi bene pure vuie, ‘cca nemmeno nu Paraviso sano potarria fa nu miracolo! (Arrivederci pure a voi, qui nemmeno un Paradiso intero ce la farebbe a fare un miracolo!)
  7. Pag. 86 … “ti pedinano, ma chi, va truvann’ o pedinamento, o pedinamento d’o sasiccio ……ma chi ti criri d’essere, lo vuoi capire o no ca tu nun si nisciuno!…Guagliù … ‘cca a nuje ci coce ‘fronte, hai capito?! Se mi mitti na tiana ‘ncapa, l’acqua volle e  può pure menà a pasta!” (Chi vuoi che ti pedini, vai cercando il pedinamento d’o sasiccio … ma chi credi di essere, lo vuoi capire o no che tu non sei nessuno … ragazzì, qui a noi la testa ci bolle, se mi metti una pentola in testa l’acqua bolle si può pure menare a pasta!)