Antonio Cretella - Poesie e Racconti

Demetra

 

Non hai l’età che gli atti certificano. All’anagrafe avranno sbagliato avranno arrotondato per difetto non sapendo il conto esatto

il numero corretto

e pure reclamando, non rettificano.

In verità sei vecchia quanto il mondo Per me che conto gli anni da te in poi come un orologio si tara al meridiano

per me sei vecchia

nel modo in cui lo è il mondo: fratta, frastagliata, difforme una faglia geologica

aperta sullo strato più intimo e profondo.

Sei vecchia come le cose che esistono da sempre: il lungo prima

in cui si innesta il poi.


Bottiglie di Klein

 

Frattanto che si pensa nel tempo in cui si nega mentre poi si congettura e in dettaglio si discetta

della bruttezza della piega del rischio della china

di come si decade e si declina,

la fine che si aspetta è già finita e se oltre non c’è altro

poco importa: si sconfina.


Madri-gale

Dicono non si possa ricordare come fosse abitare nel tuo addome vivere senza ancora respirare

sospeso dentro te come nel mare. Ma nel toccarti in viso, non so come, vedo ciò che non posso rievocare:

un nucleo pulsante, una membrana trasparente come ala di libellula,

la sensazione tiepida e lontana di essere soltanto una tua cellula.


Eco

 

Questo soltanto soltanto questo strofa di canto fibra d’asbesto

dito del guanto linea di testo

per lui qui accanto ancora resto

per lui soltanto vento che si alza e che ripete

di tanto in tanto ciò che rimbalza sulla parete.


Carnevale

 

Dunque bisogna togliere la carne

- questo è il significato letterale – osservare il divieto di mangiarne

in ogni venerdì quaresimale.

Ma io penso che quel “togliere la carne” sia un ordine più duro e viscerale

strappare via la carne ad ogni osso

io a te, tu a me, e con questa pelle indosso essere quello che l’altro presume

usando i nostri corpi per costume.


Ifigenia

 

Costi quel che costi

e serva quel che serva per contrariare il vento

ma io non sono figliol prodiga non rincresco, né mi pento dell’istinto che conserva

sono e non sarò sulla pira e la caterva né vittima né cerva.


Ofelia

 

Ora tenetevi il mio veto abissale

- non più di me, non mai di me parlare -

tenetevi gli argini e le dighe le centoventi righe

della mia tragedia sommaria

io

per me

sono immissaria estuaria, foce

e non mi manca nulla se non aria.


Specchio

Il vecchio armadio era finito in garage già da molto tempo. Aveva avuto due specchi in passato, sospesi alle ante dalle rientranze smussate del legno che volgendo e curvando, formava un intricato arabesco coi margini del vetro sabbiato. Uno era andato perso, e l’impressione che dava la facciata nel suo complesso era quella di un volto bruno con un occhio chiuso. Quando poi si entrava nel garage, aprendo la porta, la luce dello spiraglio che si rifletteva, dava l’impressione di un’altra uscita, e chi non lo sapeva, avrebbe potuto scambiarsi distrattamente per qualcuno che entrava dalla parte opposta. Era successo anche a me la prima volta che vi entrai, ma anche se mi accorsi subito dell’inganno, continuai per il resto dei giorni a fingere che ci fosse un altro bambino nel garage. Spesso, prima di entrare, sostavo al lato della porta gettando un’occhiata veloce all’interno, come se potessi in qualche modo anticipare lo specchio o costringerlo a venire fuori prima di me con un’abile finta, e non so fino a che punto avrebbe potuto spingersi quell’insolita speranza. Una notte piovve, piovve con insistenza.

Capitava non di rado che l’acqua invadesse il garage, posto più in basso rispetto alla casa, lambendo di lievi increspature la base del mobile, immerso coi piedini adunchi nella mistura di pioggia e polvere, ma quella volta il legno imbevuto, dilatato dall’ubriacatura, non resse: quando l’acqua si ritirò, bastò la vibrazione della maniglia che scattava a far fuggire lo specchio dal diaframma, spaccandosi in grani verdastri di vetro sparsi tra le pozzanghere ancora vive e tremanti. Il volto aveva chiuso entrambi gli occhi, due palpebre di legno ammuffito, e non ci fu più nessuno.


The telephone call

Per la Pasqua dei miei sette anni ricevetti in regalo un telefono giocattolo. In verità non lo ebbi in regalo, lo avevo preteso. Lo facevo raramente, essendo un bambino inusualmente avaro di capricci, e forse proprio per questo ogni mia sporadica richiesta veniva sempre presa molto sul serio: se volevo qualcosa di mia spontanea volontà, quel qualcosa doveva di certo essere di singolare importanza. Il mio desiderio era la misura del necessario, anche se si trattava soltanto di un telefono di plastica rossa. Mia madre vi aveva attaccato un piccolo uovo di cioccolata fissato con un fiocco di raso a uno dei fori del disco numerico. Aveva infatti la forma di un vecchio apparecchio a disco con un piccolo bottone nero sul bordo esterno che consentiva di farlo squillare di un cicalino sordo e discendente, mentre al contempo, proprio accanto al pulsante, si accendeva ritmicamente una lucina in rilievo, come nei telefoni da ufficio. Qualche settimana dopo il giocattolo mi cadde di mano, urtando in terra con uno degli angoli. All’esterno non riportò alcun danno, ma da allora, di quando in quando, la lucina cominciò ad accendersi da sola, senza il cicalino, come se mi invitasse ad una conversazione privata. Sapevo che non era possibile, ma col tempo mi convinsi che davvero qualcuno cercasse di comunicare con me in quel modo. Quando il falso contatto illuminava il diodo di un bagliore tremolante e irregolare, soprattutto a notte inoltrata, avvicinavo la cornetta all’orecchio e il silenzio di plastica che ne usciva mi pareva del tutto diverso da quello che avevo ascoltato altre mille volte giocando con quello stesso telefono prima che cadesse. Al silenzio vuoto e cavo che conoscevo si era sostituito un silenzio tangibile e paziente, un fragile ammutolimento da clausura carico di presenze, come la veglia millenaria di qualcuno in attesa di parlare.


Magdala

Un primo tempo, e dunque un secondo un terzo, e a lungo andare

ancora un’aggiunta

un grado supplementare

campanelle da intervallo il tempo che intercorre e occorre ad applicare

la regola del comporre e decomporre.