Antonio Mistretta - Racconti

Il Paese delle streghe sonnambule

C’era una volta e forse c’è ancora, un antico e florido paese alle pendici di una montagna sacra, dove gli uomini vivevano in perfetta armonia.

Tutti nutrivano un legame profondo con la terra, che coltivavano rispettando cicli e stagioni.

Ci fu un giorno disgraziato, che ancora adesso ricordano gli anziani, dove il villaggio fu preda della magia nera.

Allo scoccare della mezzanotte, dal bosco uscirono un gruppo di donne urlanti, scomposte e vestite di cenci, col viso butterato e schiarito dalla pallida Luna. Nessuno volle uscire dalle loro case e affrontarle, così, grandi e piccini, uomini e donne, si accucciarono tremanti sotto le coperte, per il tempo necessario in cui le streghe, senza trovare alcuna vittima sacrificale o visino da gettare nel pentolone, tornassero dal nulla dove erano apparse, ingoiate dalle fitte braccia di un gelido bosco.

Questi accadimenti andarono avanti per giorni, creando trambusto e spossatezza.

Una notte, poi, qualcosa cambiò! Due giovani ragazzi, di nome Luca e Gabriele, sembrava proprio che avessero un piano e decisero di prendere, come si suol dire, il diavolo per le corna.

Non si conoscevano le loro intenzioni, o cosa avessero dentro le bisacce rigonfie; e nessuno ebbe peraltro il coraggio di dissuaderli, poiché tanta era la paura che si portavano dietro in quei giorni e altrettanta la voglia che ogni cosa finisse come un incubo fa maturando le luci dell’alba.

Non appena allora si udirono i versi strazianti di quegli esseri abominevoli, i nostri erano pronti ad agire col favore della amata luna, mentre gli abitanti osservarono la scena con occhi sbarrati e i nasi pigiati sulle finestre.

Lì, nei pressi della piazza, avvenne il fatto. Luca e Gabriele si scagliarono sulle streghe e, tirando fuori dalle loro borse una curiosa polverina, la scagliarono sul volto esterrefatto delle donne che .. aprirono gli occhi e s’ammutolirono. Le streghe, in realtà, altro non erano che giovani ragazze appartenenti ad un villaggio limitrofo, che si erano scoperte sonnambule e “schiave” della luna piena.

La polvere le aveva fatte starnutire e magicamente si destarono dal torpore maledetto.

Si scoprì che con la Luna in cielo, costoro cadevano in un sonno profondo, come in un sortilegio, insomma, e gli abitanti, molto superstiziosi, le scambiarono per streghe mangia bambini.

La paura si era cosi disciolta, le sventurate vennero riaccompagnate alle loro case, Luca e Gabriele premiati per destrezza e il villaggio tornò così alla consueta serenità.

Dove i ragazzi avessero poi trovato il coraggio, che aveva riempito i loro polmoni oltre alle sacche e al pepe ‘sveglia starnuto’, nessuno lo comprendeva, ma come in tutte le leggende buone, capaci di valicare il tempo con i suoi limiti di senso e frontiera, di anno in anno, di tramando in tramando, si colmarono i vuoti e le piccole stonature, fino ad arrivare ai nostri giorni e alla storia che conoscete e della quale ci siamo innamorati anche noi.

 


 

Ricordi in un bicchiere

Sembrava neve. Il pulviscolo impalpabile si era fatto strada nel suo campo visivo offuscato e, in rapida successione, aveva occupato il fascio di luce che tagliava in due la camera. Avrebbe fissato quelle particelle per ore, che si agitavano come coriandoli o come falene intorno ad una fonte luminosa, mentre lui era avvolto da un’oscurità che ne assorbiva il silenzio e l’immobilismo in cui era scivolato.

Sentì nuovamente quel curioso cigolio che lo fece girare su se stesso, ma nulla che si animasse. Sempre lo stesso panorama: la roba lercia abbandonata sul divano, una latta di biscotti aperta sul tavolo d’ebano, una rassegna di foto tutte uguali e quel pendolo che si insinuava nella testa ogni qualvolta chiamasse l’ora nuova.

Era rimasto tutto congelato da quando lei se n’era andata, compreso il suo sguardo sbarrato e fisso. Silvia non aveva serrato unicamente la porta dietro di sé, si era lasciata alle spalle molti ricordi, così densi e impastati che in quella stanza non sapeva più distinguere la differenza fra reale e non, tra un passato pieno di lei e un presente impolverato.

Le cose posseggono un’anima, trasmettono ricordi. “E’ il meccanismo della musica”- pensava – “che di getto ti accende un’immagine, un’idea o un semplice frammento che non puoi o non riesci a respingere, e ti assale finché non diventa lui il padrone . Anche gli oggetti sono così: ti passano accanto, ti sfiorano, trasferiscono in te la loro energia fino all’istante in cui non chiedono in cambio la tua, con gli interessi. La musica è un’eco di qualcosa o qualcuno che non è lì con te, non più in questo spazio o tempo. Lei li riporta indietro, vivi o morti che siano, attraverso una scia che sembra quella delle stelle, che difatti mentre le vedi passeggiare lassù sono già un riflesso di ciò che non esiste. E l’acqua, poi? L’acqua non è anch’essa un potente veicolo di trasmissione e connessione? Abbraccia, custodisce e travolge ogni cosa, sensazione o consistenza che incontra senza chiedere e senza giudicare. Non c’è moralismo in una memoria collettiva e liquida, solo ricordi e basta. E’ semplicemente uno specchio trasparente delle realtà che bagna senza lavarne le coscienze”.

Mentre rifletteva, un rumore metallico tintinnò ovattato lungo le pareti del suo boccione. Era Silvia, tornata per le pulizie della settimana. Di nuovo, il cigolio del frigo che si apriva dominò la scena gracchiando, ma era troppo felice di rivederla per notarlo. Cominciò a roteare il corpicino tondo e rosso, a scuotere la coda e dando forma eccitato alle sue bolle. L’amava e l’avrebbe aspettata ancora senza sprecare un solo grammo del cibo che gli donava per farsi perdonare l’assenza. Se solo avesse potuto parlare, le avrebbe detto soltanto: “mi sei mancata”.