Augusta Elena Del Corso - Poesie e Racconti

BATTIGIA

di Augusta Elena Del Corso

 

Torno

a mani vuote

a dirti

che niente ho perduto

di quell’impronta

di te

che sempre

si portano dentro

i tuoi figli.

Sulla battigia

hanno alzato

mucchi di sterpi

ed alghe

rami e radici contorte

vomitati

dal tuo furore.

Dagli ultimi mucchi

là verso la Magra

sale un fumo

denso e melmoso

a velare

il cristallo del cielo.

Un tempo

alla luce dei falò

qualcuno

aveva cantato

e ballato e amato

fino a tardi.

Ora oltre il canneto

piegato

dal vento salmastro

solo un’abbaiare amico

al lume d’un casale.

Poco lontano da lì

venivo

un mattino d’estate

ad incontrarmi

con te e con l’amore.

La vita allora

era un tesoro

da scoprire

a fiato sospeso

come s’ascolta

fanciulli

il tuo respiro

racchiuso

nel pugno ritorto

d’una rosea

conchiglia.


 

IL FRUTTO

di Augusta Elena Del Corso

 

Contro l’albero

del bene e del male

poter mangiare

il turgido frutto

del peccato

con avida carezza

sentire la tua pelle

fremere sulla mia

e l’estrema voluttà

di divorarti l’anima

mentre moriamo

insieme.


L’ORA DELLA LUCERTOLA

di Augusta Elena Del Corso

 

Era l’ora della lucertola

del sole

dello sbieco volar di farfalle

della segale selvatica riarsa

dei fili d’erba assetati

lungo la via remota

d’attese e di silenzi

mentre l’ora urgeva

su noi, dentro di noi.

Venivo a te ancora

e ancora

in valli d’ombra

dove il tempo perverso

si fermava.



LETTERA AD UN AMICO

di Augusta Elena Del Corso

 

  • - Allora noi eravamo la giovinezza piena, luminosa -

ci dicevamo dopo tutti quegli anni,

illudendoci di ritrovare briciole,

preziosi ritagli che il tempo non avesse mistificato.

Fu come riscoprirci bambini

spiare noi stessi dalla serratura.

  • - Ricordi – dicevi – Salivamo sulle colline

a guardare dall’alto la città

a indovinare oltre l’ultimo braccio di verde

l’infinita distesa del mare.

Alla stazione passavano i treni…

Li guardavamo sparire.

  • - Andavano verso luoghi felici – pensavo.

Adesso dove vanno i treni?

Dove va forse la cavia nel labirinto,

verso l’uscita unica possibile.

Avevo calato il ponte levatoio quel giorno.

  • - Non restartene chiuso nella tua scatola nera -

ti dissi. Ti limitasti a sorridere.

Il tempo non era trascorso dicevi,

tu l’inossidabile, io l’immortale.

Poter in quei momenti entrare nell’oblio,

non aver né passato né futuro,

percepire, solo percepire…

Nel vecchio caffé sulla via Roma

aleggiava profumo di vaniglia e cioccolato

di legni saturi d’aromi e di ricordi.

Si consumava tra noi la sigaretta inutilmente accesa

e stranamente si sfuocava il tuo viso

nel tremulo riflesso del bicchiere

“ My sweet honey “, mio dolce miele

cantava un’antica canzone d’amore,

ma ora che sono lontana

in questo paese cosi’ avaro di luce,

ancora mi chiedo dove vanno i treni

per te che vivi in quell’abbraccio di colli

dove aspro s’addentra il respiro del mare

e cosa cerchiamo, tu, io, noi tutti,

non certo l’uscita unica possibile.

“ Fèstina lente “ amico, fratello mio

nel dubbio che ciò che aspettiamo

sia già accaduto in luoghi

inaccessibili a noi.


 

 

LUGLIO

di Augusta Elena Del Corso

 

Sole di luglio

bruciante, abbagliante

lungo la breve

strada deserta,

il frinire delle cicale

snervante

come una lenta

copula d’amore.

Fremevano

i miei inguini

al pensiero che presto

ti avrebbero costretto

spremuto, posseduto

fino a farti male.


 

PARTIRE

di Augusta Elena Del Corso

 

Nella sala d’attesa

il ticchettio dell’ora

il battito del cuore

l’esigua corsa

di quella tregua

che ancora il tempo

ci consentiva

a misura del silenzio

che definiva

le nostre solitudini.

Mi salutava

divorato dal buio

il fiore rosso

d’una sigaretta.

Non ero solo io

che me ne andavo.


 

PORTAMI CON TE … ( a mio padre)

di Augusta Elena Del Corso

 

Portami con te …

… non importa dove

come nei giorni che mi tenevi accanto

e il sole m’era dentro

nelle tue mani e sul tuo viso …

… portami con te

lontano da questo vento marino

che gelido graffia la costa

ora che il rosso del sorbo è maturo

e i campi arati raccolti già nel sonno

… portami con te

lontano da un tempo inutile e muto

dove si perde la pazienza degli anni,

ogni fiducia del cuore …

… portami dove già profumano le viole

lungo le fratte morbide di muschio,

più su del volo dei gabbiani,

confusa nel fuoco del tramonto,

avvolgimi nel vortice d’un fiume,

nascondimi nel cuore d’una rosa,

ma portami con te non importa dove …

oltre il limite che non conosco …

… già fremono i passeri

al sentore della prima nevicata

già il vento ha strappato dal ramo

l’ultima foglia …


 

VOGLIO ESSERE LIBERA

di Augusta Elena Del Corso

 

Voglio essere libera

libera dagli inganni del cuore

libera da ogni luogo comune

dietro cui si nasconde chi non ama rischiare.

Voglio essere libera

libera da una vita insensata

libera dalle false ambizioni

che ci fanno chinare la testa

a quel dio che chiamiamo denaro.

Voglio essere libera

libera dal terrore strisciante che ci segue

ogni giorno per strada.

Voglio essere libera

libera dal crudele veleno che s’ingrassa sui corpi

di ragazzi innocenti.

Voglio essere libera

libera da un comune destino che ci vuole impotenti

alle odiose manovre d’individui corrotti.

Voglio essere libera

libera di levare le vele in un mare tranquillo

e di prendere i venti ovunque il destino mi porti.

Voglio essere libera

libera tra gente LIBERA.


 

LA CASA ROSA

di Augusta Elena Del Corso

 

Ci sarà mai chirurgo in grado di ricucire i ricordi e guarire le ferite piccole e grandi che essi possono nascondere?

Il vento che soffia nella gola dei Fantiscritti porta con sé antichi odori: muschio, more, mirto, saggina, profumi che giungono da molto lontano… forse dal mio lontano.

Il sole sta calando dietro uno spuntone di roccia grigia, baluardo naturale a questo luogo dimenticato, dove nessuno ha qualcosa da cercare se non la mia testarda nostalgia.

E’ difficile pensare che un tempo questo luogo sia stato il paradiso della mia infanzia, un tempo in cui la realtà aveva il nome avaro e lugubre di guerra.

Allora la strada, bianca di pietre, vedeva gruppi di cavatori salire alle prime luci dell’alba in qualunque stagione ed il loro passo cadenzato si fondeva a quello più lento dei muli, carichi d’arnesi e rifornimenti per la cava.

Al termine di una breve salita, quasi un miraggio, cinque bocche d’acqua sorgiva, sgorgavano fresche dalla roccia in una rustica vasca di marmo.

Lì, mentre i muli si abbeveravano, gli uomini sostavano a riprendere fiato e mangiare un pezzo di pane tirato fuori dalle tasche ormai sformate delle giacche.

Spesso l’unico companatico restava quella benedetta acqua delle cinque fontane.

Poi essi ripartivano per l’ultimo tratto che li portava in alto, nella cava bianca, solenne ed imponente come una cattedrale, sotto un sole che nella buona stagione bruciava la pelle, gli occhi e forse anche i pensieri.

In alto le vette superbe delle Alpi Apuane; più sopra solo l’azzurrità venata dal volo planante dei falchi.

Mia madre, alle “Cinque Fontane”, nei lunghi e caldi meriggi estivi, ci andava a fare il bucato nella tinozza d’acqua chiara che usciva dal fondo della vasca e che si raccoglieva in una piccola conca del terreno.

Intorno era tutto un fiorire di ginestre e di mirti su cui stendevamo ad asciugare il bucato.

Un giorno in cui l’aria era dolceamara del sambuco sotto il sole e mia madre era intenta a lavare, un’anguria grossa e tonda come una luna piena si dondolava nella pozza d’acqua.

Per tutto il tempo non feci che pensare al momento in cui mio padre avrebbe aperto quel frutto goloso sul tavolo della piccola aia, di fianco alla casa rosa.

La casa più bella che io abbia mai avuto.

Rivedo il bel viso di mia madre, appena rischiarato dalla luce della lampada a petrolio, farsi ancora più dolce e l’espressione intensa e pensosa.

Cara mamma, solo molto più tardi potei capire da quali tristi pensieri fossi assalita in quei momenti.

Intorno il buio danzava sui muri e negli angoli al ritmo della fiamma, creando fantastiche, evanescenti figure; sopra di noi la notte viveva con tutte le sue creature e il vento, soffiando tra i coppi e le travi, portava nella casa voci e fruscii misteriosi.

Quale armonioso, intimo contatto con la natura!

La mia intatta ed avida sensibilità di bambina mi poneva all’unisono con essa: alito di vento, stormire di foglie, mormorii d’acque, versi d’animali dal fondo della macchia, tutto m’era famigliare e mi parlava.

Tranne la casa, niente evocava la presenza dell’uomo, tutto apparteneva alla natura e alla sua fantasia creativa.

Rocce, alberi e cespugli parevano disposti da mani misteriose e sapienti; tutto appariva armonioso, un’opera d’arte perfetta, suprema.

E mentre io crescevo in quell’isola di pace, non lontano il mostro infuriava, tanti soffrivano e morivano.

Poi, finalmente, venne la fine di quei giorni che il dolore aveva reso eterni.

La mia famiglia tornò alla città e faticosamente alla vita consueta.

Allora non capii che quella sarebbe stata la mia cacciata dal Paradiso.

Non c’era pietra di questo luogo né albero che non amassi…ed ora che son qui, con tutte le mie lacerazioni, neppure un angolo nascosto ritrovo a ricordarmi la serenità d’allora, la mia spensieratezza di bambina.

Il progresso, complice il tempo, come una mitica belva, ha preteso e divorato le sue vittime.

Dall’alto del monte una nuova cava vomita detriti giorno dopo giorno; tra non molto l’intero canale sarà cancellato e con esso ciò che restava della casa rosa.

Provo un dolore profondo: quella casa ed i luoghi intorno erano per me molto più che pietre e vecchi mattoni.

Avvicino l’orecchio al sarcofago di cemento che crudelmente ha imprigionato le “Cinque Fontane”, cerco la loro voce, e mi pare per una vaga suggestione di sentire un pianto profondo lontano.

La sensazione d’essere stata defraudata è grande e brucia la nostalgia più delle lacrime che stento a trattenere.

Come un viandante che ha perso la strada ho cercato dei segni, ma inutilmente, tutto è ormai diverso, lontano, come la mia primavera; ora è l’autunno che tende la mano all’inverno.

Il tempo ha sepolto la casa, colmato il torrente di terra e pietre, mutato il paesaggio così come ha cambiato me…ma l’insensatezza umana ha compiuto il resto.

Nonostante tutto sorrido, qualcosa nel frattempo è accaduto dentro di me e i miei occhi non hanno più bisogno di cercare: i miei sensi acuiti dalla nostalgia ora vedono, sentono oltre l’apparenza delle cose.

In fondo non ho perso niente; tutto è ancora qui, al riparo dalle aggressioni del tempo e dell’uomo; la collina è ancora una festa di colori e di profumi: c’è la casa rosa, la cagnetta Lilla e la gallina Zampicona, mie uniche indimenticabili compagne di giochi…e mio padre e mia madre sono lì nella loro splendente giovinezza.

Ora sorrido con gli occhi, con l’anima, con tutta me stessa: niente e nessuno potrà mai distruggere ciò che continua ad essere in noi.

Il pensiero abbraccia tutto ciò che mi circonda e che m’appartiene per diritto d’amore.

Adesso vedo sì la realtà di una bellezza passata, segnata ormai dal tempo, degradata ed offesa dall’uomo, ma ciò non mi ferisce più: amare la vita è anche accettare tutto e tutti i suoi contrari, luce e tenebre, gloria e sfacelo, polvere ed oro, fango e cielo…perchè parti di una stessa grande, misteriosa armonia, tasselli preziosi di un incomparabile mosaico.

Mentre calano le ombre odo l’abbaiare gioioso di un cane, un suono di campane che chiamano al vespro, un dolce bubbolio che giunge a tratti da pascoli lontani.

C’è ancora bellezza qui, anche così lacerata.

E la vita è bella. E il mondo può ancora essere bello.


 

 

LUNGO LE ANTICHE STRADE

di Augusta Elena Del Corso

 

Era l’ora tarda di una di quelle calde notti d’Agosto in cui la vita pare sospesa, come in attesa d’eventi misteriosi, imprevedibili; notti nelle quali tutto può essere oggetto di desiderio, tranne che il sonno.

Da fuori l’alito arso del mare, lo stormire sommesso delle tamerici e il caldo profumo della terra si fondevano in una specie d’irresistibile richiamo. – Per dove o da dove? – mi domandavo.

Era un impulso profondo, inspiegabile, a seguire forse quel sottile soffio di brezza che, saturo di profumi, mi sfiorava ora le spalle, mi scompigliava i capelli per poi volare, quasi furtivo, lontano, oltre l’oscura ombra delle colline al di là delle quali indovinavo la mia città, la mia CARRARA così amata, ancor di più proprio perchè lontana, ma che nel tempo era divenuta, nei miei pensieri, un rifugio di memorie da cancellare, evitandola, relegandola fra i ricordi, nell’angolo delle cose perdute, nonostante ci fossero momenti in cui, abbassata la guardia, non era possibile soffocare reminiscenze, rimpianti, gratitudine verso coloro che avendomi preceduta ed in qualche modo amata, avevano lasciato un’impronta indelebile e cara nella parte migliore del mio essere.

Così senza rendermi conto, spinta da pensieri che la notte ingigantiva, lasciando il mare alle spalle, mi diressi là da dove anni prima ero partita con nient’altro che una valigia piena di giovinezza e d’entusiasmi intatti, ricchezza inestimabile, consumatasi strada facendo, spesso in luoghi e fra gente ormai dimenticati.

Ripercorso quel viale spazioso, che tanto spesso mi aveva visto bambina e adolescente, con gli occhi fissi all’asfalto, la mente affondata nei ricordi, mi fermai in una strada del centro.

Da anni non rivedevo la mia città, in particolare di notte.

M’accolse un paese di fantasmi; unico indizio che potesse far supporre la presenza di abitanti i lampioni accesi che spandevano intorno una luce fiacca.

Un cane, che giungeva dalla direzione opposta, mi degnò appena d’uno sguardo distratto, mentre annusava l’aria pigramente, quasi a sottolineare d’avermi dedicato fin troppa attenzione. Sorrisi. Non ricordavo che anche i cani al mio paese guardassero alla vita con una cert’aria di sufficienza.

Volgevo intorno lo sguardo smarrito, sorpresa di ritrovare particolari, immagini, spazi, così uguali ed insieme così nuovi, come rimpiccioliti,

come accade a chi, adulto, si trovi a passare per luoghi che l’hanno veduto bambino;

ma le dimensioni del presente lo trovano spiazzato, impreparato a quell’imprevisto, impari confronto che pare svilire ricordi fino a quel momento ritenuti immutabili, fissati gelosamente nei ripostigli della nostalgia, inattaccabili dagli insulti del tempo.

Non rammento se furono l’eco di passi o voci in lontananza a guidarmi verso la piazza dalla quale pareva provenire una luce più intensa.

Risparmiata dal traffico, essa si offriva al mio sguardo deserta, bella e superba come un antico raffinato gioiello dimenticato per incuria da una dama distratta. Non molto dissimile da come dovette presentarsi all’offesa di passati invasori o allo sguardo ammirato di dame e cavalieri d’epoche più remote.

Sono qui –  pensavo – si direbbe che la vita sia stata generosa con me; in realtà non ho niente, mi manca tanto quella valigia -

Mi domandavo come avessi potuto permettere che parte del suo contenuto mi fosse sfuggita così velocemente dalle mani, lasciandole vuote, stupite, com’è di chi subisce un’improvvisa rapina.

PIAZZA ALBERICA… nei miei ricordi… una marea multicolore di bancarelle del mercato, al riparo di ombrelloni sbocciati alla rinfusa, come fiori al primo sole, e l’uomo alle spalle di Madonna Beatrice che vendeva diciotto piatti: sei piani, sei fondi, sei piccoli, non per dieci né per otto né cinque e li lanciava in alto facendo un gran rumore mentre noi ragazzi guardavamo stupiti, bocca aperta, naso in aria e ci chiedevamo come fosse possibile che neppure uno, proprio nessuno, andasse mai rotto.

 Piazza del tempo fuggito, nobile luogo, retaggio di storia, piazza silente, irreale sotto la luce di quei lampioni piantati lì quasi ad illuminare l’inutile fondale d’un teatro da tempo abbandonato.

Altezzosa, lunare nel suo marmoreo candore, la duchessa fissava lontano o forse per qualche strano gioco di luci e d’ombre pareva scrutare me, unica presenza estranea in quella notturna, dilatata immobilità.

Sotto l’impressione di quello sguardo, sentivo farsi strada, per le più occulte fibre del mio essere, un sottile crescente disagio, un oscuro inspiegabile senso di colpa. Ma verso chi o per che cosa?

O forse che di notte, in una notte così, tutto fosse possibile?! Che anche le antiche pietre ed i nobili marmi avessero una voce e che proprio da loro mi venisse, per vie misteriose, quel sotterraneo, viscerale rimprovero d’aver trascurato e rimandato quell’incontro con i luoghi che portavano impressi in modo indelebile i momenti più veri ed irripetibili della mia giovinezza?

Chi mi accusava? Forse quel girotondo di amorini che s’affacciavano curiosi dal cornicione d’una finestra? O le snelle sinuose cariatidi a sostegno d’una grande balconata sulla via prospiciente?

  • O la severa Duchessa dall’alto della sua imperturbabile fissità?

Forse era solo un “mea culpa” che il particolare stato d’animo unito alla suggestività del luogo deformava, dandogli le dimensioni d’un sogno.

In quel momento non sapevo se sentirmi un figliol prodigo tornato, o un novello penitente a Canossa e fu come in cerca d’una muta plenaria assoluzione che mi diressi verso un lato della piazza ove pareva addensarsi un buio più cupo e profondo.

Mi lasciai inghiottire in un intrico di vicoli mai visti prima, silenti, serenamente addormentati sotto la luna. Si sarebbe detto che quei luoghi non fossero mai stati sfiorati da alcuna delle grandi e piccole pene quotidiane che affliggono l’esistenza di comuni mortali.

Camminavo assorta, rapita da quell’aria di magia e, come per incanto, sentivo il cuore e la mente farsi più leggeri, come non m’accadeva da tempo.

Adesso pareva più facile e dolce indugiare, lasciarsi trasportare dall’onda dei ricordi in una dimensione sospesa nei dintorni del sogno, quasi accattone in cerca di piccoli segni, sembianze sbiadite, emozioni scordate, certezze perdute. Dintorni che scoprivo rinnovati nella luce della luna che giocava a rimpiattino fra nicchie e balconi, ed insieme immutati nel ricordo che a tratti si faceva più nitido come per un improvviso slargo di luce.

Andavo senza meta, guidata dalla famigliarità di semplici particolari: un’immagine sacra, quasi celata nell’ombra discreta d’un arco, uno stemma gentilizio scolpito sopra un vetusto portone, un’insegna cadente e sbiadita sotto la quale mi fermavo il mattino per la focaccia prima della scuola.

Miseria e nobiltà le vedevo qui strettamente unite, impastate insieme, sorrette da una comune matrice, quasi che l’una avesse bisogno dell’altra per affermare ed esaltare la continuità e l’orgoglio della propria origine.

Violente emozioni si mescolavano a teneri sussulti nel contatto profondo, quasi carnale, con questa mia città che adesso pareva riconoscermi lungo le antiche strade mollemente adagiate in una pace profonda.

Mi consolava, ora, tornare a ritroso nel tempo, risvegliare pensieri sopiti, sottili tormenti, giovanili entusiasmi, rimasti quasi impigliati sopra quei muri, nascosti fra quelle pietre su cui risuonavano i miei passi di cercatore solitario. Cosicchè mi sorpresi in punta di piedi nel silenzio di quelle strade che mi alitavano intorno episodi, avvenimenti, figure del passato che mi porto dentro da sempre, avvinti da invisibili e potenti legami e che in quell’ora tornavano a vivere evocati dalla magia della notte a testimonianza che non erano mai stati rinnegati.

Finalmente e per la prima volta, in quella notte, per qualche misterioso mutamento, sentivo la certezza d’essere stata ammessa a godere di quella pace virginale, di quell’insolito claustrale silenzio.

E ti guardavo, mia città, vedendoti quale veramente eri, forse per la prima volta, rinata nel mio cuore, rigenerata dal desiderio di ritrovarti mia, dormire serena sotto i miei occhi.

Rientrando dal buio della Via Ghibellina, l’antica Piazza Alberica mi parve ancor più abbagliante, così splendida da non aver bisogno d’altro che di sè stessa per essere bella e regale.

Avvolta nel silenzio, la mente abbandonata, avvertivo in me e d’intorno un palpito caldo, un fremito d’attesa finalmente appagato.

Ciò che avevo cercato altrove, fra la gente, la mia identità tanto spesso perduta e così disperatamente ricercata, la ritrovavo lì, dov’era sempre rimasta, dove ogni cosa riconoscevo e mi riconosceva, dove sarei dovuta tornare ogni qual volta avessi sentito impellente il bisogno di guardar dentro la mia essenza più vera, poiché tutto era lì, tra quelle pietre, quei muri carichi d’anni e di storia.

La fontana di Maria Beatrice chiocchiolava dolcemente; seduta sui gradini, mi sentivo, ero, finalmente a casa e l’acqua sulla mano era carezzevole, fresca, non ne avevo mai sentita di più fresca, mentre la passavo sulla fronte quasi febbricitante prima di addormentarmi lì.