PENELOPE E ULISSE
Penelope: Mi dicesti che amore è mare, che amore è vento. Ti attesi, e guardai amore. Guardai il mare e guardai il vento, che aveva il tuo colore.
Ulisse: Un tuo capello è rimasto impigliato al timone della nave, mi ricorda di essere lontano da casa, lontano da te.
Penelope: Mi dicesti che mi avresti amata per sempre, mi dicesti di essere quella terra dopo mesi di navigazione, di essere la tua terra. Ora di terre ne hai viste, e ne vedi. Forse che hai trovato la tua nuova terra? La tua nuova Itaca?
Ulisse: Una mano mi sfiora, un tocco delicato, timoroso, etereo. La fermezza delle tue mani non ricordo più se sia reale. Forse è la fermezza dello scoglio che resisterà ad ogni onda? O quella della sabbia? Talmente sottile da non essere vista, eppure, modellandosi, fluttuando e attenuandosi al contorno, prende forma, e luccica, come chi ammicca, sapendo di aver nascosto il trucco all’occhio ingenuo dello spettatore.
Penelope: Mi dicesti che dovevi partire, che saresti tornato presto. Ogni giorno dura cent’anni senza te, ogni giorno è la morte della vita che mi resta, ogni giorno è la morte del mio amore, pugnalato dalle lame del dolore e del dubbio, sanguinante respira a stento. Sanguinante aspetto te, te che hai combattuto un centinaio di battaglie senza mai aver combattuto la più truce. Attendo te, muoio per te, amo solo te, mi struggo, ormai come una legge divina, naturale. Ogni donna attende nella propria casa con le lenzuola ben piegate pronte per accogliere il compagno di ritorno da viaggi e battaglie, soffrendo in silenzio. La Grecia siamo noi, noi donne con le vesta da rammendare tra le mani, noi donne che con la fierezza e il portamento nascondiamo i tremori, noi donne che siamo la casa e la consolazione di voi guerrieri, noi donne che apparteniamo alla patria, alla terra, al vostro sangue, e siamo fedeli, siamo pie e crediamo nei valori. La Grecia è donna, la Grecia è una vestale scalza, è ancella, la Grecia è un drappo ricamato per i figli e per i mariti, la Grecia è la tua casa, ed è la casa di Nessuno. La Grecia è un mare di case, un mare di donne, un mare di isole, che, sole, aspettano i loro guerrieri, che guardano altrove.
Ulisse: Itaca è fiore congelato nel tempo, ma io desidero spillare il nettare della vita, il profondo respiro del tempo che si dilata e si restringe, e ansima, e grida, e mi innalza al pari degli dei, e vive lontano da tutto ciò che è conosciuto, perché è nuovo profumo, nuovo sapore, nuovo colore.
Penelope: Le mie guance erano per te della stessa sfumatura scarlatta degli ibischi che vedesti in terre lontane, me ne portasti uno. I petali erano ormai accartocciati su stessi, eppure ancora ne coglievo una radicata vita in esso.
Ulisse: La vita in ciò che è ormai familiare diventa morte, e io ho bisogno di vita. Come la pelle che si rigenera di strato in strato, mi devo rinnovare, e devo superare me stesso. E, forse, arrivare più in là.
Penelope: Ora i petali dell’ibisco sono andati perduti tra le tue armi e la polvere dei ricordi. Che ne è rimasto di tutto questo? Del colore? Della vita? Dell’amore? Delle fughe in spiaggia, delle aurore a perdersi tra racconti mai scritti, delle strette eterne di un solo istante, della gioventù che ci morse tanto da farci sanguinare, eppure eravamo vivi, e il sangue ardeva come fuoco, come fuoco rubato agli dei, come quel fuoco che Prometeo rubò per renderci invincibili. Cosa ne è rimasto, di quella fiamma? Cosa ne è rimasto, mio Ulisse? Sei forse nessuno anche per me, ora?
Ulisse: Il mio sguardo è fisso sul mare, e io al mare appartengo. Io sono fatto di acqua, di freschezza, di inconsistenza, sono un’ombra nella luce, un fantasma. Esisto senza esistere, e ho trovato l’immortalità.
Penelope: E se il mio antico amore fosse morto? E se non il corpo, l’anima? Se il suo amore avesse ceduto? Se davvero lo avesse fatto?
Ulisse: Ricordo ancora il giorno in cui ti diedi quell’ultimo bacio aspro sulla fronte, pensando alla morte riflessa nei tuoi occhi. Ti ho amata, e, forse, proprio con quel bacio, con quei tuoi occhi languidi e supplicanti, abbandonai il mio amore là. Ora giace l’inverno negli abissi.
Penelope: Sì, ricordo quel tuo bacio. Non mi baciasti sulle labbra, come amavi fare, decidesti il gesto del padre premuroso, o del figlio grato.
Ulisse: Raccolsi i petali del nostro amore appassito, li gettai nel mare, nel mio mare e nel mio amare, e li osservai. Calipso, o Circe, o Nausicaa scorgono spesso una lacrima amara ai nostri incontri. Non lo confesso mai, il perché.
Penelope: Scruto le stelle, ne ricavo predizioni, come un oracolo. Davanti all’infinito il sapere crolla, vacilla, la mente cerca una causa originaria a questa immensità eppure ne ritrova solo il firmamento. Forse, così è l’amore. Mai certezza, mai razionale. Eppure l’uomo tende per natura a spingersi oltre i suoi limiti, a cercare l’orizzonte, a tentare di afferrarlo.
Ulisse: Osservo le costellazioni, come facevamo sempre, ogni notte, dalla nostra incantevole Itaca. Perché sono voluto andare via? Perché ne voglio sempre di più? Di felicità, di amore, di sapere, di gloria, di bellezza? Perché non sono in grado di osservare e vivere? Perché sento questo vuoto dentro, incolmabile? Perché mi sento così macchiato, sporco, colpevole? La mia sete di mare, mi ha soffocato. Quel che mi resta, è trascinato per lande desolate in cerca di un senso a questi eventi. Tutte le strade mi riportano a te.
Penelope: Mi sorridono, quei bagliori inafferrabili, forse come eri solito fare tu. E capisco tutto finalmente, tutto sembra prendere un ordine, nel cosmo. Sei tu il mio cielo stellato, il mio limite superato, il mio orizzonte irraggiungibile. E so di non potere, di non poterlo neppure domandare, eppure voglio, e lo voglio tremendamente: mi ami?
CARTA (dedicato a mia madre)
Chissà come mai nei momenti difficili torno sempre a pensare a te. Sei come l’inizio. Tu sei l’inizio. Sei l’inizio, il mio inizio. L’inizio della mia vita, l’inizio del dolore, l’inizio dei pensieri, l’inizio delle paure, l’inizio dell’amore, l’inizio dei sogni, l’inizio dell’insicurezza, l’inizio della mancanza. Tu sei anche la fine. La fine della vita che avrei sempre voluto, che ho sempre fantasticato, che non ho mai smesso di chiedermi come sarebbe stata. Sarei stata una persona diversa? Sarei stata una persona migliore? Sarei stata più sicura di me? Avrei avuto più certezze? Mi sarei sentita meno sola? Tu sei il mio punto interrogativo. E sempre resterai tale. Forse è questo che mi manca, forse è questo che cercherò costantemente nella vita, senza trovarlo mai. Il capo del filo che inizia e finisce, la risposta, quel tutto che è il cerchio completo e mi racchiude come un cordone ombelicale, la mia stella, la mia farfalla protettrice e tutte quelle menzogne che mi racconto per sentirmi meno sola. Sei tu. Cerco te, ti cerco dentro di me e fuori di me. Ti cerco e basta. Cerco la vita che mi apparteneva, la mia prima vita, che ora sembra solo un sogno. Cerco la felicità, quel sentirmi colmata e soddisfatta, amata, protetta. Scavo nel passato e trovo solo qualche tuo vecchio libro tra gli scaffali, qualche segno della tua mano tra pagine ingiallite dal tempo, qualche biglietto, qualche vestito negli armadi ormai rotti e tutto sembra irraggiungibile, ti ho persa per sempre. Cerco te, cerco di ingannare il tempo, di recuperarlo, di correggere quel grande errore che il destino fece; eppure la sabbia mi è scivolata via tra le dita. Il vento soffia forte, il sole è accecante, la mia pelle scompare. Il mare si infuria contro gli scogli inutilmente e così io contro il tempo. Il tempo scorre e non ti guarda in faccia. Scorre e tu puoi opporti in tutti i modi possibili eppure non si fermerà per te, non tornerà indietro per te. Tu sei intrappolata laggiù. Nella memoria, nel passato, nella cenere, nella tomba. Tutto è finito. Non resta che un cimitero, il sogno di una vita che mai si avverò, qualche frammento di te, i fogli di giornale che la nonna ha ritagliato e conservato in scatole. Scatole. Scatole di te. Scatole di noi. Le memorie non sono altro che scatole. E io tocco carta, tocco plastica, tocco tutto quel che non è corpo. Il corpo fugge, il corpo finisce, il corpo muore. Tu sei morta. E io tocco carta.
NELLA NOTTE
la città dorme
nessuno la sveglierà
diamole ancora un secondo
I cuori respirano
E sorridono
La notte li abbraccia
Li riscalda
Soffice coperta
Nascondili dai loro peccati
Mantieni il rifugio
Sospira loro che sarà eterno
Gioia di sogni
Falsa realtà
Solo fuggire
Null’altro
La notte nasconde
Ferma
Placa
La sabbia è immobile
La clessidra riposa
Non c’è più tempo
Non c’è più morale
Disinibite danze
Accarezzano scie di sospiri
Ah, l’eternità
celata nel pensiero
Di un cuore
Che ride nella notte
Ah, l’eternità
Incastonata nei segreti
Di un cuore
Che scappa nella notte
Io sto scappando
Io non dormo
Non c’è riposo
Solo
Sterminata
Insoddisfazione
nella notte
SOSPIRO
sospiro
e attendo
e bramo
pagine
scorrono
tra le memorie,
rifugiarsi
nelle idee
di filosofi e oratori
dimenticati
ho paura di esistere
esistere è morire
per un respiro
d’estasi
intangibile
il sole affoga
nell’orizzonte,
chissà
se brucia come me
forse il mare gli ha dato riposo,
esala,
ed esalo,
l’ultimo soffio
NOTTI INSONNI
sei sporca dentro
e le notti insonni
le occhiaie
ti aiutano
a distrarti
dal marcio che
porti con te
sei appassita
e tu
nemmeno tu ti vuoi più.
LA LUNA
la Luna come amica
sola
nel buio della notte
ed ogni notte
un nuovo amante
un nuovo volto
un nuovo sguardo,
il tuo non c’è
s’è già allontanato,
guarda altrove
pensa d’aver visto troppo,
eppure non è abbastanza
la Luna cerca l’amore,
cerca il suo Endimione,
cerca l’eterno,
cerca il certo e se stessa,
si vede riflessa negli specchi
delle acque più oscure
e vorrebbe potercisi tuffare dentro,
forse annegarci
non Narciso,
non si ama,
forse un po’,
ma vuole amore
ed è stanca
di stare sveglia la notte,
di non aver mai tregua,
di queste occhiaie che sembrano crateri
di amare chi ha gli occhi chiusi,
chi dorme
la Luna ama
gli irraggiungibili, i dispersi,
coloro che non si sono ancora ritrovati
la Luna vuole
amore,
in mezzo a quell’oceano di efelidi,
e non sguardi distratti,
ma amore,
e da lassù
cerca sempre
i nascosti,
i timidi,
i silenziosi,
cerca il loro amore,
e le palpebre s’abbassano
prima del serafico incontro
RESA
quando non ti riesco a trovare
e sei oltre mille mari,
sì, i nostri,
nevica,
l’abbandono
di una terra
d’inverno,
l’inverno
che ci corrode,
e tu
che possiedi tutto,
taci
come resa di chi
è già morto
CI SEI TU
chiudo gli occhi
ci sei tu
c’è la strada
noi in macchina
c’è vento
c’è mare
c’è la nostra storia
solo tu
ogni canzone mi parla di te
chiudo gli occhi
ci sei tu
la tua voce,
le tue mani,
i tuoi occhi,
i tuoi pensieri
che ora sono anche miei
ti ho reso mio
mi hai resa tua
ci siamo smezzati
come una mela
ci siamo dati
ci siamo regalati
sei la mia metà più bella
e più buona
mi hai resa bella
mi hai resa buona
l’amore è la migliore cura
ma è anche la peggiore malattia.
non guarisci mai.
ORO
vorrei diventare
una ninfa greca
una nuda e candida
ninfa
in quell’età dell’oro
che non conosceva
queste mie
elucubrazioni
tanto arrugginite
da sporcarmi
le mani, la bocca e il cuore
che hanno scordato
la dolce serenità
del Narciso,
del vecchio olmo,
della brezza marina,
dell’amore senza dubbi
come un tempo io e te
dorati
ci amavamo
e basta
il Narciso era solo un fanciullo
Diana era illibata nella sua grotta,
Atteone aveva solo sbagliato strada.
e noi?
la nostra strada?
abbiamo davvero scelto questa?
forse la più scoscesa e ardua
quella che ci fece cadere
e rise di noi
così tanto sciocchi
da non aver alzato lo sguardo
tu eri lì
io c’ero
eppure solo la strada contava;
le ferite, la mani distanti
gli occhi in lacrime
l’odio e l’orgoglio
i sospiri e la balbuzie.
dolore fu quel che ne rimase
e dell’amore tanto nudo
non se ne vide più nemmeno un brandello,
le vesti e la mitra avevano
adombrato gli ardori.
ci scordammo
di noi.
MALDIVITA
pretendere
che al tuo volere
tutto taccia
e smetta di fare male
perché ogni segno
di vita
logora le tue tante pelli
quindi piangere o morire?
dormire in eterno?
svegliarsi con un bacio del vero amore?
sognare la felicità futura
perché viverla nella realtà, è morire