Carlo Santagostino - Poesie e Racconti

FIUME

Cadono i fiori

in questa nuova fine

d’estate.

Si son fatte malate 

le nostre giornate.

Nelle acque azzurre del 

fiume

le membra

si sono ancora bagnate.

Abbracciami 

il cuore e la mente

stringimi forte

entra con me

nella corrente.

Fai scivolare via così

la malinconia.

E’ la tua carezza 

che la porta via.

Mi corrono incontro

di nuovo le fate

trovate

in quelle serate

lontane e passate.

Il rosso del cielo al tramonto

s’affaccia

a confondere

questo triste momento.


NATALE

Merceria gigante

Tra falsi sfavillii

si rincorrono ansanti

futili ignoranti.

E’ ancora Natale!


UN UOMO

L’uomo percorse la sua strada

bagnato dal sudore della vita,

segnato dagli inciampi del destino

non rallentò mai il suo cammino.

Dal lieve risveglio del mattino

sino al tramonto rosso della sera.

Scivolato.

rialzato,

ricaduto, 

riprese la sua via

senza sentirsi mai perduto.

No, ora, no,

davvero non poteva

abbandonare il suo sentiero,

lasciare in terra

tutto l’amore che aveva.

L’uomo si alzò

a combattere

la sua ultima battaglia.

Fu così che ritornò di nuovo

sul suo viso

un tenero sorriso

e a risentirsi

dolce e beffarda

quella risata

triste e solitaria

che ancora risuonava

forte e fragorosa

per divertirlo,

obliquo sempre,

pronto a saltare 

gli ostacoli del mondo.


I RAGAZZI DLLA MASSERIA

Rimpianti di estati

trascorse a parlare.

Un tavolino, le sedie

e voi in cerchio seduti

ad ascoltare.

Come un abbraccio

del padre ai suoi figli.

Un vecchio con la barba bianca,

una ruga a segnare

quella faccia stanca

mentre gli occhi guardano lontano

e la voce sale piano piano

a tentar di trasmettere

un frammento,

anche solo un frammento,

del senso di vita.

No di certo non è finita.

Torneranno le nostre estati

di sole

a scaldarci il cuore

a liberare di nuovo

le nostre parole

che ci accompagnino ancora

verso la speranza

di un vostro mondo migliore.


IL TEMPO E’ UNA ILLUSIONE

Sogni salati

dimenticati

sguardi violenti

fissi negli occhi

di desiderosi amanti

ricordi senza pudore

sospesi nel vuoto 

di un perduto amore.


INESISTENZA

Afose giornate

passate

ad ascoltare

il silenzio.

Inutili ore

vuote d’amore.

Appassisco così

senza fare rumore.


FINESTRA

Vedo dalla finestra.

Cielo azzurro

celeste lomellino

un po’ appannato, 

malmostoso

cielo dispettoso

come me

che lo guardo scontroso.

Malumore dispettoso

accompagna le giornate.

Fantasia volante

ad inseguire l’istante

della spiaggia bollente

da cui tuffarsi nel mare

per trovare l’amore

ed abbracciare la vita.

Resta solo quel cielo azzurrino

tiepidamente lomellino

entrato ingannando

dalla mia finestra sul mondo.


DEDICATA

( blu)

Ah Blu! Blu!

dimmi tu

dove troverò 

il tuo blu.

Dentro quel cielo

laggiù

o nel cuore profondo 

del mare.

Arriverò a suonare

il campanello di casa.

Sei pronta a scappare?

L’auto è accesa qui fuori

ti sto ad aspettare

per volare

fin dentro  quel blu

per sentire ancora 

una volta 

tutte le nostre vibrazioni 

blu

e poi, e poi,

niente più.


CASBAH

Antenne feriscono il grigio 

di questo cielo di nebbia

tra tegole rotte.

Solitario è il camino.

L’orizzonte disegna

alberi nudi.

Quanti sguardi

ho perduto

dentro questo

povero mondo.

In questa casbah

padana. 

Divenuto 

paesaggio vivente

trascino così

la mia vita

cosciente


ALBERO

E’ cresciuto l’albero 

nel mio giardino.

Lo piantai ch’ero bambino.

Cresciuto al tepore

di un estivo sole.

L’ho veduto fiorire

e spogliarsi d’autunno

sferzato dal vento

accompagnato dal mio tormento.

I rami ricoperti di neve

apparsi attraverso la luce residua

di una finestra appannata

dal calore di casa.

Scaldato dal fuoco del nostro camino

ho guardato il tempo sfilare.

Il passare dei giorni

muti di noia.

Ritornare infine la gioia

compagna del sole,

Rivedere le gemme

ricomparire sui rami

aspettando che di nuovo

risboccino i fiori.

Risorge anche l’amore

che fa scordare il dolore.

Si ravvivano i sensi.

E’ la luce che vince di nuovo.

Tu ti riprendi  il mio cuore

E’ arrivata un’altra stagione.

Tante ne sono trascorse,

ma l’albero è ancora lì,

legnoso e forte

come quando lo piantai 

nel mio giardino

quando ancora ero bambino.


VISIONI

 

Vedo tegole rosse

di tetti slabbrati

segnare il confine.

Oltre il limite

si infila il pensiero,

tra le umide case

diventa più vero,

alle infinite domande

risponde sincero.

Nell’impallidito sole

di un tarda mattina

mi inseguono strani presagi.

E’ compagno il profumo dei fiori.

Aspetto un altro domani,

che trascini con sé

i miei nuovi dolori.

 


LA QUERCIA

 

Arrivato accaldato

dopo aver camminato

sotto il sole infiammato

di un agosto bollente

si sentiva ormai vuoto di mente.

Si sedette così all’ombra 

di un albero grande

al riparo dall’afa incombente

a riposare il suo corpo dolente.

Gli passava la vita davanti,

come un film,ma senza colori.

Le sere passate al chiaro di luna

a stringersi forte le mani

a contare le stelle una ad una

a sperare nel loro domani.

Vedeva sfilare i dolori,

i rifiuti, gli abbandoni, gli amori,

le lotte, le tante sconfitte,

tutto quel briciolo infinito

che fu la sua vita

e che ora sentiva finita.

Si era alzato intanto

un venticello lieve

a rinfrescarlo dalla calura

mentre si avvicinava la sera,

ma non riusciva più ad alzarsi

e sotto le fronde dovette fermarsi

di quell’albero grande,

piccolo uomo insignificante,

solo nell’abbandono del mondo,

minuscolo neo nell’universo

capitato senza sapere perchè

in questo stravagante girotondo.

Si assopì così, stanco e dolorante

in un turbinio di niente.

Il buio intanto era sceso di una notte afosa

e a lui parve di sentire

un profumo di rosa.

Poi restò solo il buio.

Lo trovarono due giorni più tardi

tre ragazzi giocando al pallone.

Era lì, dove si era fermato,

sembrava addormentato,

ma ormai era volato

tra le galassie da cui era venuto.

 


 

LONTANO

 

Ora tu non potrai mai dimenticarti di me

neppure sotto gli sfavilii

delle calde notti di mare.

La voce profonda è penetrata nel cuore,

torna e ritorna a sentirsi lontana

tra i rumori di fondo delle notti di luna,

sussurra alla mente distratta

dai giochi d’estate

le più dolci parole d’amore.

Negli occhi vivaci

che traguardano il sole morire lontano

nel rosso tramonto

entreranno i miei occhi colorati

del blu del cielo profondo.

Nè potrai ricacciare la voce,

allontanare lo sguardo.

Sono entrato senza bussare

nella vita gettando scompiglio

con timidi passi di cui vedi però,

seppur di lontano,sulla spiaggia di sabbia

le orme profonde 

inutilmente spazzate via dalle onde

tracce di un’anima indomita e sola.

Cacciato, riappaio 

in un pertugio della memoria

e non c’è nulla da fare

tu non mi potrai più dimenticare,

neppure quando sarò cenere sparsa

nelle acque del fiume

e getterai un fiore

in memoria perenne d’amore.

Allora entrerò dentro ai sogni

nei tuoi caldi solstizi d’estate

per sollevarti dal peso

di ogni dolore.

 


 

GIORNATA DELLA MEMORIA

 

 

Ti sbuccerei

sotto il cielo d’Arabia 

o tra le rosse dune della Namibia.

Oh!, Si

se ti sbuccerei!

Toglierei l’apparenza,

lascerei la sostanza.

Compagna 

di questa mia solitudine.

Guarderei il luccichio del firmamento
nelle nere notti

del deserto di Giordania

nel cammino tra Aqaba e il mar Morto.

Oh si! 

Vedo solo il brillare degli occhi

indicare la strada

verso Israele

lungo il Giordano.

Tu allora mi stringerai la mano

e mi starai vicino. 

Baciami  il cuore,

liberami da tutto il dolore

che accompagna la via.

Ecco, laggiù, all’orizzonte,

le prime luci dell’alba 

s’alzano all’est del cielo.

Lascia che ti possa sbucciare

e insieme a te ritornare

là in fondo

sino alle origini del mondo.

 


 

RICORDI

 

Brezza leggera

di primavera,

fiori gialli infoltiti 

sul mio terrazzo

improvvisato

apparsi 

tra ancora stentati

germogli dei fidati 

gelsomini,

ricordi bambini

di un altro terrazzo indimenticato

a cercare limoni

nel grande vaso abbandonato

in un angolo di sole

dalla memoria ingigantito.

Ma Eros non lascia il cuore

compagno di sempre

ancora stravolge la mente

indomito, indecente

in questo corpo stancato

da tutto il tempo che è passato.

E’ lì come sempre,

gentilmente feroce, invadente

a scuotere i nervi

per farmi sentire ancora

questa brezza leggera

di primavera.

 


 

 

LA ROSA ROSSA

 

Lascia una rosa rossa

là dove le mie ceneri saranno deposte

Io nemmeno potrò saperlo

essendo entrato ormai

nel  gorgo del niente,

ma tu giura che lo farai,

giuramelo ora, finché

non mi ha abbandonato

la coscienza di me

e possa finalmente partire

sapendo che lo farai.

Sarà il segno che resta del mio passaggio

nel subitaneo tragitto che è stata la vita

senza che sia mai riuscito

ad afferrarne il senso.

Semplicemente perché 

un senso non c’è.

Lasciala col cielo terso o con la pioggia,

con la nebbia bagnata della nostra terra

e con la torrida afa d’estate.

Quando appassirà, lasciane un’altra

traccia d’intesa tra noi,

di un amore che pur vive

e di memoria post mortem.

Lascia una rosa rossa

sulle mie ceneri sempre

ti prego!

 


 

PANDEMIA LOMBARDA

 

Nella controra solatia

del mio cielo di Lombardia

mi stordisce il profumo dei gelsomini.

Svolazzanti farfalle colorate

tra petunie ed ortensie insinuate

nel pomeriggio trascorso

nel grande terrazzo

solitario e desolato.

Lievi refoli di vento

accarezzano il mio scontento.

 



KALOS KAI AGATHOS

O DEL MITO EROICO

 

Dalla stazione arrivava al liceo. Un palazzone ‘800, oggi purtroppo molto malmesso-

La  mattina si presentava sempre in ritardo, quando la campanella già  stava suonando. 

Il  Preside, ritto in piedi alla  fine dello scalone, lo guardava con aria di rimprovero, ma non diceva niente. Forse si era abituato anche lui. 

Grandi aule, con la cattedra, su, in alto, posata sopra un vero e proprio piedestallo e i ragazzi, nei banchi, giù, piccoli, piccoli. Per cinque, decisivi anni, si fece in lungo quel possente corridoio classicheggiante, scalando le aule, una dopo l’altra, sino ad arrivare all’ultima, laggiù in fondo, alla terza conclusiva. 

Per molto tempo, dopo, continuò a sognare quell’esame finale, fatidico e crudele. Tutte le materie sia scritte sia orali, compresa la micidiale versione dall’italiano in latino ed i riferimenti dei due anni precedenti.

 

 

Alle sei i muratori cominciavano il loro lavoro. Li vedeva di fronte, dalla finestra aperta della sua camera, a torso nudo, cazzuola, calcina e mattoni, come si usava una volta. Stavano costruendo l’istituto tecnico commerciale proprio lì davanti. Iniziavano così presto perché era una estate caldissima e cercavano di utilizzare le ore più fresche della giornata.

Forse anche per questa esperienza di comune, sebbene diversa, fatica, che lui la pensò sempre come Antonio Gramsci (  Quaderni dal carcere;  quaderno 12): ” occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, anche muscolare-nervoso:  è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”

Non si pentì mai,  comunque,  di esser passato per quel duro percorso formativo;  anzi ne era orgoglioso.

Scuola dura, selettiva, autoritaria.

Però, altro che inutilità! Per questo più tardi decise di laurearsi con una tesi in diritto romano, come ultimo atto di estrema ribellione obliqua e di affermazione della assoluta utilità dell’inutile apparente.

“Il latino non si studia per imparare a parlare in latino, ma per imparare a studiare.” E’ ancora Antonio Gramsci che ci guida sulla strada della corretta comprensione delle cose.

 

 

Le ragazze portavano tutte un grembiule nero, lungo, oltre le ginocchia. Niente gambe da vedere. Non se ne parlava proprio. Qualche sbirciatina sopra il ginocchio. Era il dominio della fantasia.

Pochi alunni, una cerchia ristretta. Un po’ di borghesia di provincia.

Figli di professionisti  e imprenditori. Per questo lui, che non era figlio né degli uni né degli altri, ma di un povero “travet” monoreddito, continuò a sentirsi un po’ obliquo, mai pienamente integrato

.Lui  studiava  con fatica. Poca voglia. Grandi “remate”, come si diceva allora, per tenere a galla la barca.

Ma se la cavò sempre.

 

 

La prof.  di lettere del ginnasio era una brava insegnante, ma  troppo esigente. Giovane,  rossi i capelli, molto preparata. In quei due anni lo fece molto soffrire, gli cavò l’anima. Non la dimenticò mai più.

Forse se ne era persino invaghito, una specie di sindrome di Stoccolma.

Fu lei a  guidarlo nelle prime letture. “Il giovane Holden”, ” Il sentiero dei nidi di ragno”, “ una questione privata” e poi ancora, più avanti, “Il partigiano Johnny”, insieme con la struggente melodia, dentro la mente e nel cuore di ” Moonlight Serenade ”.L’anglofono Fenoglio e la letteratura americana. ”La casa in collina, ”Il compagno”, ”Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Cesare Pavese, Come dimenticare tutto questo.

Mai più si dimentica, mai più.

Quando hai sedici anni  queste prime esperienze ti aiutano a comprendere che esistono modi di vedere le cose che sono  diversi. 

Ti si apre la testa e capisci che non sarà più possibile fermarsi per sempre lì, tra il catrame borghese dei luoghi comuni che ti stanno ogni giorno d’intorno.

 

Ci si divertiva anche, però.

Lunedì pomeriggio. Il solito rigido inverno. Il freddo pungente arrossava le gote. Cappotti,

sciarpe , guanti e “scarnebbia”.

Niente storia dell’arte quest’oggi.  Si salta tutti la scuola.

L’Angelo, il Gianni, il Momo, il Gino, Giovanni Edonè,  l’Albertone ,  così grande e grosso  e lui “il biondo”, di buon passo, ingobbiti in se stessi per il gelo che c’era, alle tre, quindici per esser precisi,  si era già lì, seduti in platea, a vedere un film scollacciato nella spasmodica attesa della rivista che poi sarebbe  iniziata.

Solo loro  e  qualche barbiere, che il lunedì chiudeva bottega: questo era il pubblico.

Le ballerine finalmente sfilavano  in passerella con le gambe un po’ troppo cicciotte, le calze  a rete smagliate qua e là ed i seni da balia. L’Albertone, in piedi, con le braccia allargate, gridava: ” Divine!” Poi lanciava sul palco il mazzo di fiori  che aveva comprato  come omaggio alla loro avvenenza. Qualche risata, qualche “darsi di gomito”, niente di più succedeva in quei lunedì trasgressivi, pieni solo di vita, di illusioni e di voglie.

 

 

“Vieni fuori carino!” gli disse  la prof. di chimica e scienze, quel mercoledì delle ceneri.  “No che non esco.  Ieri era festa, sono andato a ballare al teatro Cagnoni. Il martedì grasso si balla, non si studia. Lei non mi deve chiamare oggi, no che non esco!.” “Allora ti prenderai un bel tre”. “Non è giusto” protestò inutilmente. “Lei è solo cattiva con me!”. “Vattene” disse “esci di qui, sii più rispettoso”. Così se ne andò a fumare nel “cesso”, lì fumavano tutti e, dopo l’intervallo, se si apriva quella porta di legno, uscivano grandi nuvole  bianche .

Aspettò che quell’ora finisse. Ecco, lui era così: era, a suo modo, un ribelle, un pacato ribelle; non gridava, non litigava, ma non accettava imposizioni di alcun genere. Semplicemente disubbidiva.

 Ecco restò sempre così, di traverso alle regole, nemico delle gerarchie e dovunque poi si trovasse  nella vita, non ebbe padroni.  Mai. Era obliquo davvero, ecco cos’era.

 

 

Gli cadde addosso così, d’improvviso, quel caldissimo luglio del ’65.

Finito anche quell’anno di scuola, ancora stordito dalle fatiche di studio, imbevuto dei miti che gli avevan spiegati, immerso negli omerici esametri, non gli uscivano ancora di mente i fulgidi versi dell’addio straziante di Andromaca a Ettore. 

” Ma di gran pianto Andromaca bagnata

accostossi al marito e per la mano

stringendolo e per nome in dolce suono

chiamandolo proruppe-  oh troppo

ardito!  Il tuo valor ti perderà

nessuna pietà del figlio e di me 

tu senti.”-

E poi Ulisse, che se ne va sulle onde del mare a cercare di sapere sempre  di più, divenne un compagno di sogni. Gli rimase quel vizio di andare a vedere le cose del mondo.

Mediterraneo dolente ora come allora. Dalla guerra di Troia, a  Cartagine debellata, da Enea profugo fuggente dalla città di Troia in medio oriente alla Siria  insanguinata. Odissee dolorose e permanenti.

 

 

Ma in quel luglio bollente, estive vacanze di fuoco, restava loro, negli occhi stupiti, la voglia dei baci, mille e poi mille di Lesbia e Catullo e fu così  che tanti se ne scambiarono, di baci d’amore.

Lui, novello James Dean dagli occhi celesti, lei giovane donna dal nome spagnolo, grandi le mani ed il cuore possente.

Loro scendevano giù, verso il fiume Ticino, inforcando, veloci, le bici e, nell’attesa, già cominciava il piacere, consumato più volte fino a non farcela più sulla spiaggia di sabbia che si era formata e, poi, via, a bagnare nell’acqua  quei corpi spossati. E poter  quindi fumare e tutto aspirare quell’acre sapore che il fumo produce.

Quella sera lui aspettò. Lei si calò giù dal balcone di casa, sulla bici andarono a passare la notte da lui.

Se ne tornò che era l’alba, non c’era nessuno, l’afa ancora non era passata. Si sentiva  padrone del mondo, come  Achille  che, vincitore,  rientra alla tenda dopo uno scontro guerriero.

Aveva il futuro davanti.

Infine  andava a sedersi  nel niente del bar, in piazza Ducale, all’Haiti, dove c’erano tutti.

I cinque anni stupendi finirono lì , 23 luglio 1965 e Gimondi vinse il giro di Francia. A Milano, al Vigorelli,  i Beatles facevano il loro primo concerto in Italia. Tra poco il mondo sarebbe cambiato. 

 

 

Queste cose gli affollavano confuse la mente in quel giorno di merda, mentre usciva da quel cimitero, avendo perduto per sempre la compagnia di un amico, un fratello di vita. 

 

Già “scarnebbiava”. L’autunno inoltrato il crepuscolo già aveva anticipato. La piazza era vuota di gente e lui restò solo nella nebbia incombente. A lui piaceva così, senza niente. Ogni colonna, ormai, gli diceva  qualcosa, gli raccontava qualche storia felice o dolorosa.

Ora veramente capiva che la piazza era vuota di tutto , non sapeva più con chi parlare, con chi litigare, ridere o sognare.

Rimasto recluso nella sua solitudine, era lui stesso diventato “scarnebbia”  vivente, sopravvissuto in una bolla di niente.

Ormai, pensò, andata se  ne era la vita, tra gioie  e dolori strazianti, neppure c’era più quell’acre sapore di fumo, rimasto anche quello un ricordo, come quel luglio di afa cocente, per lui che lo visse felice.

 

 

E’ andata così, si disse, come per tutti, senza che si riesca a capire nemmeno il perché. 



LO ZIO DINO

UN EROE SENZA GLORIA

 

Aveva i capelli neri.

Somigliava alla mamma corvina, non ai biondi cerulei paterni.

Era un bel giovane piacente, avrà avuto 25 o 26 anni.

Gli spezzarono la gioventù dentro al cuore.

Lo mandarono ad invadere l’Albania e la Grecia, che aveva inventato la democrazia.

Aveva fatto il ginnasio e sapeva leggere il greco, di cui ricordava anche qualche parola. All’inizio gli giovò.

Lo mandarono a lavorare tra le scartoffie, lontano dai disagi e dai pericoli delle linee di fuoco. Scriveva un piccolo diario quotidiano che ho rinvenuto in cantina, oramai illeggibile, consumato dall’umidità. Di quella minuscola scrittura sono riuscito solo a capire che raccontava di un pomeriggio in cui era riuscito a scappare in piscina per poter fare il bagno nell’estate di una torrida Atene. Questo era rimasto per lui il piacere più grande.

Amava veramente nuotare ed era in effetti un gran nuotatore di fiume, anche un po’ spericolato.

Al fiume Ticino rimase sempre visceralmente legato e lì mi portava per insegnarmi a nuotare e ad andare nei suoi anfratti in canoa.

Le fughe in piscina ad Atene, le acque amate del fiume, e, più tardi il mare ed i suoi abissi rappresentarono sempre i suoi gesti d’amore per la libertà.

Poi, infine, venne il momento delle gran decisioni da prendere da solo, secondo coscienza. Tenere la schiena diritta e non collaborare con la dittatura fascista , le milizie e rifiutarsi di andare con le camice nere di Salò o  pagare con la deportazione nazista, prigioniero di guerra.

Il giovanotto non ebbe alcun dubbio, mai coi fascisti razzisti e nemici della libertà. Doveva subire la detenzione tedesca, ma libero nel cuore e nella mente.

Allora lui non sapeva come sarebbe andata a finire, di certo c’era solo il buio dei campi di concentramento e detenzione ed il lavoro forzato, la fatica, le violenza ed i soprusi nazisti.

Quindi il treno blindato, la tradotta infinita da Atene al gelo della oscura Germania.

Quella era l’unica via, era scritta nel cuore, neppure esisteva una qualche alternativa senza perdere la sua dignità di giovane uomo.

Mi raccontò, certo, più volte della gran fame patita e di quando dovette costruire una rudimentale bilancia per poter equamente dividere la dose di pane spettante ai compagni prigionieri.

Ricordava spesso i bombardamenti diffusi delle potenze occidentali  sulle città tedesche e su quella in cui era detenuto nel campo di lavoro e delle fughe disperate per cercare riparo, rifiutati nei rifugi perché nemici, prigionieri e stranieri.

Ecco, questo raccontava a me bambino nell’immediato dopo guerra , col suo esempio concreto e nel sentirsi del tutto normale, nonostante le difficoltà affrontate e le gravi scelte compiute a poco più di vent’anni.

Mi insegnava a nuotare, libero, nel fiume, a vincere la corrente con prudenza, ma con determinazione.

Ad andare controcorrente, ad apprezzare la ragione, il progresso, a credere nella scienza, ad amare la curiosità dei viaggi ed il valore della conoscenza.

In una parola ad essere un libero pensatore, a non abbassare la testa, a non subire comandi od imposizioni.

Se ne è andato troppo presto, forse consumato dai tanti stenti subiti nei suoi tremendi anni di gioventù,

Ho cercato di imparare, a restare fedele a quegli ideali, agli insegnamenti di allora e di crescere laicamente coerente.

Mio zio Dino è stato uno degli eroi della libertà, mai celebrati e dimenticati ed oggi in questo strano 25 aprile in cui scrivo, con le piazze vuote di pandemia, lo voglio ricordare, insieme a tutti i suoi compagni, che ebbero il coraggio  di difendere la loro ed anche la nostra odierna libertà.

Eroi silenti come silente è questo 25 aprile vissuto ai tempi del corona virus.

Il mio “ bella ciao”, quest’anno è questo qui.


 Kalòs kai agathòs

-O DEL MITO EROICO-

 

Dalla stazione  arrivava al liceo. Un palazzone ottocento,  oggi molto malmesso.

La mattina,  si presentava  sempre in ritardo,  quando  la campanella già stava suonando. Il Preside, ritto in piedi alla fine dello scalone, lo guardava con aria di rimprovero, ma non diceva niente. Forse si era abituato anche lui. Grandi aule con la cattedra, su, in alto, posata sopra un vero e proprio piedestallo e i ragazzi, nei banchi, giù, piccoli, piccoli. Per cinque, decisivi anni, si fece in lungo quel possente corridoio classicheggiante, scalando le aule, una dopo l’altra, sino ad arrivare all’ultima, laggiù in fondo, alla terza conclusiva. 

Per molto tempo, dopo, continuò a sognare quell’esame finale, fatidico e crudele. Tutte le materie sia scritte sia orali, compresa la micidiale versione dall’italiano in latino ed i riferimenti dei due anni precedenti.

Alle sei i muratori cominciavano il loro lavoro. Li vedeva di fronte, dalla finestra aperta della sua camera, a torso nudo, cazzuola, calcina e mattoni, come si usava una volta. Stavano costruendo l’istituto tecnico commerciale proprio lì davanti. Iniziavano così presto perché era una estate caldissima e cercavano di utilizzare le ore più fresche della giornata.

Forse anche per questa esperienza di comune, sebbene diversa, fatica, che lui la pensò sempre come Antonio Gramsci (  Quaderni dal carcere;  quaderno 12): ” occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, anche muscolare-nervoso:  è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”

Non si pentì mai,  comunque,  di esser passato per quel duro percorso formativo;  anzi ne era orgoglioso.

Scuola dura, selettiva, autoritaria.

Però, altro che inutilità! Per questo più tardi decise di laurearsi con una tesi in diritto romano, come ultimo atto di estrema ribellione obliqua e di affermazione della assoluta utilità dell’inutile apparente.

“Il latino non si studia per imparare a parlare in latino, ma per imparare a studiare.” E’ancora Antonio Gramsci che ci guida sulla strada della corretta comprensione delle cose.

Le ragazze portavano tutte un grembiule nero, lungo, oltre le ginocchia. Niente gambe da vedere. Non se ne parlava proprio. Qualche sbirciatina sopra il ginocchio. Era il dominio della fantasia.

Pochi alunni, una cerchia ristretta. Un po’ di borghesia di provincia.

Figli di professionisti  e imprenditori. Per questo lui, che non era figlio né degli uni né degli altri, ma di un povero “travet” monoreddito, continuò a sentirsi un po’ obliquo, mai pienamente integrato

.Lui  studiava  con fatica. Poca voglia. Grandi “remate”, come si diceva allora, per tenere a galla la barca.

Ma se la cavò sempre.

La prof.  di lettere del ginnasio era una brava insegnante, ma  troppo esigente. Giovane,  rossi i capelli, molto preparata. In quei due anni lo fece molto soffrire, gli cavò l’anima. Non la dimenticò mai più.

Forse se ne era persino invaghito, una specie di sindrome di Stoccolma.

Fu lei a  guidarlo nelle prime letture. “Il giovane Holden”, ” Il sentiero dei nidi di ragno”, “ una questione privata” e poi ancora, più avanti,”Il partigiano Johnny”,con la struggente melodia, dentro la mente e nel cuore di ” Moonlight Serenade ”.L’anglofono Fenoglio e la letteratura americana.”La casa in collina,”Il compagno”,”Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Cesare Pavese, Come dimenticare tutto questo,Mai più si dimentica, mai più.

Quando hai sedici anni  queste prime esperienze ti aiutano a comprendere che esistono modi di vedere le cose che sono  diversi. 

Ti si apre la testa e capisci che non sarà più possibile fermarsi per sempre lì, tra il catrame borghese dei luoghi comuni che ti stanno ogni giorno d’intorno.

Ci si divertiva anche, però.

Lunedì pomeriggio. Il solito rigido inverno. Il freddo pungente arrossava le gote. Cappotti,sciarpe , guanti e scarnebbia.

Niente storia dell’arte quest’oggi.  Si salta tutti la scuola.

L’Angelo, il Gianni, il Momo, il Gino, Giovanni Edonè,  l’Albertone ,  così grande e grosso  e lui “il biondo”, di buon passo, ingobbiti in se stessi per il gelo che c’era, alle tre, quindici per esser precisi,  si era già lì, seduti in platea, a vedere un film scollacciato nella spasmodica attesa della rivista che poi sarebbe  iniziata.

Solo loro  e  qualche barbiere, che il lunedì chiudeva bottega: questo era il pubblico.

Le ballerine finalmente sfilavano  in passerella con le gambe un po’ troppo cicciotte, le calze  a rete smagliate qua e là ed i seni da balia. L’Albertone, in piedi, con le braccia allargate, gridava: ” Divine!” Poi lanciava sul palco il mazzo di fiori  che aveva comprato  come omaggio alla loro avvenenza. Qualche risata, qualche “darsi di gomito”, niente di più succedeva in quei lunedì trasgressivi, pieni solo di vita, di illusioni e di voglie.

“Vieni fuori carino!” gli disse  la prof. di chimica e scienze, quel mercoledì delle ceneri.  “No che non esco.  Ieri era festa, sono andato a ballare al teatro Cagnoni. Il martedì grasso si balla, non si studia. Lei non mi deve chiamare oggi, no che non esco!.” “Allora ti prenderai un bel tre”. “Non è giusto” protestò inutilmente. “Lei è solo cattiva con me!”. “Vattene” disse “esci di qui, sii più rispettoso”. Così se ne andò a fumare nel “cesso”, lì fumavano tutti e, dopo l’intervallo, se si apriva quella porta di legno, uscivano grandi nuvole  bianche .

Aspettò che quell’ora finisse. Ecco, lui era così: era, a suo modo, un ribelle, un pacato ribelle; non gridava, non litigava, ma non accettava imposizioni di alcun genere. Semplicemente disubbidiva.

 Ecco restò sempre così, di traverso alle regole, nemico delle gerarchie e dovunque poi si trovasse  nella vita, non ebbe padroni.  Mai. Era obliquo davvero, ecco cos’era.

Gli cadde addosso così, d’improvviso, quel caldissimo luglio del ’65.

Finito anche quell’anno di scuola, ancora stordito dalle fatiche di studio, imbevuto dei miti che gli avevan spiegato, immerso negli omerici esametri, non gli uscivano ancora di mente i fulgidi versi dell’addio straziante di Andromaca a Ettore. 

” Ma di gran pianto Andromaca bagnata

accostossi al marito e per la mano

stringendolo e per nome in dolce suono

chiamandolo proruppe-  oh troppo

ardito!  Il tuo valor ti perderà

nessuna pietà del figlio e di me 

tu senti.”-

E poi Ulisse, che se ne va sulle onde del mare a cercare di sapere sempre  di più, divenne un compagno di sogni. Gli rimase quel vizio di andare a vedere le cose del mondo.

Mediterraneo dolente ora come allora. Dalla guerra di Troia,a  Cartagine debellata, da Enea profugo fuggente dalla città di Troia in medio oriente alla Siria  insanguinata. Odissee dolorose e permanenti.

Ma in quel luglio bollente, estive vacanze di fuoco, restava loro, negli occhi stupiti, la voglia dei baci, mille e poi mille di Lesbia e Catullo e fu così  che tanti se ne scambiarono, di baci d’amore.

Lui, novello James Dean dagli occhi celesti, lei giovane donna dal nome spagnolo, grandi le mani ed il cuore possente.

Loro scendevano giù, verso il fiume Ticino, inforcando, veloci, le bici e, nell’attesa, già cominciava il piacere, consumato più volte fino a non farcela più sulla spiaggia di sabbia che si era formata e, poi, via, a bagnare nell’acqua  quei corpi spossati. E poter  quindi fumare e tutto aspirare quell’acre sapore che il fumo produce.

Quella sera lui aspettò. Lei si calò giù dal balcone di casa, sulla bici andarono a passare la notte da lui.

Se ne tornò che era l’alba, non c’era nessuno, l’afa ancora non era passata. Si sentiva  padrone del mondo, come  Achille  che, vincitore,  rientra alla tenda dopo uno scontro guerriero.

Aveva il futuro davanti.

Infine  andava a sedersi  nel niente del bar, in piazza Ducale, all’Haiti, dove c’erano tutti.

I cinque anni stupendi finirono lì , 23 luglio 1965 e Gimondi vinse il giro di Francia. A Milano, al Vigorelli,  i Beatles facevano l loro primo concerto in Italia.Tra poco il mondo sarebbe cambiato. 

Queste cose gli affollavano confuse la mente in quel giorno di merda, mentre usciva da quel cimitero,avendo perduto per sempre la compagnia di un amico, un fratello di vita. 

Già scarnebbiava. L’autunno inoltrato il crepuscolo già aveva anticipato. La piazza era vuota di gente e lui restò solo nella nebbia incombente. A lui piaceva così, senza niente. Ogni colonna,ormai, gli diceva qualcosa,gli raccontava qualche storia felice o dolorosa.

Ora veramente capiva che la piazza era vuota di tutto,non sapeva più con chi parlare, con chi litigare, ridere o sognare.

Rimasto recluso nella sua solitudine, era lui stesso diventato scarnebbia vivente,sopravvissuto in una bolla di niente.

Ormai, pensò, andata se  ne era la vita, tra gioie  e dolori strazianti, neppure c’era più quell’acre sapore di fumo, rimasto anche quello un ricordo, come quel luglio di afa cocente, per lui che lo visse felice.

E’ andata così, si disse, come per tutti, senza che si riesca a capire nemmeno il perché. 


LONTANO

 

Ora tu non potrai mai dimenticarti di me

neppure sotto gli sfavilii

delle calde notti di mare.

La voce profonda è penetrata nel cuore,

torna e ritorna a sentirsi lontana

tra i rumori di fondo delle notti di luna,

sussurra alla mente distratta

dai giochi d’estate

le più dolci parole d’amore.

Negli occhi vivaci

che traguardano il sole morire lontano

nel rosso tramonto

entreranno i miei occhi colorati

del blu del cielo profondo.

Nè potrai ricacciare la voce,

allontanare lo sguardo.

Sono entrato senza bussare

nella vita gettando scompiglio

con timidi passi di cui vedi però,

seppur di lontano,sulla spiaggia di sabbia

le orme profonde 

inutilmente spazzate via dalle onde

tracce di un’anima indomita e sola.

Cacciato, riappaio 

in un pertugio della memoria

e non c’è nulla da fare

tu non mi potrai più dimenticare,

neppure quando sarò cenere sparsa

nelle acque del fiume

e getterai un fiore

in memoria perenne d’amore.

Allora entrerò dentro ai sogni

nei tuoi caldi solstizi d’estate

per sollevarti dal peso

di ogni dolore.


VISIONI

 

Vedo tegole rosse

di tetti slabbrati

segnare il confine.

Oltre il limite

si infila il pensiero,

tra le umide case

diventa più vero,

alle infinite domande

risponde sincero.

Nell’impallidito sole

di una tarda mattina

mi inseguono strani presagi.

E’ compagno il profumo dei fiori.

Aspetto un altro domani,

che trascini con sé

i miei nuovi dolori.


GIOVINEZZA

 

Tu non sai

quanto tempo

è dovuto passare,

quante fatiche 

ho dovuto affrontare

per poter infine conquistare

questa mia giovinezza.

Ora finalmente ho 

un grande futuro alle spalle.

Mi hai regalato un sorriso

e si è illuminato il mio viso.

Ho intrapreso sentieri ignorati,

visitato villaggi sperduti,

un veliero mi ha portato, 

tra tempeste e marosi, lontano

in un oceano bruciato dal sole.

Nella notte sbiancata da luci stellari,

calma , senza vento, sulla tolda 

ho udito  il fruscio delle onde

ferire il cupo silenzio del niente

e veduto quella falce di luna calare

nel profondo del mare.

Sei arrivata di colpo così

mia agognata gioventù

a stringermi tanto forte

da non potermi lasciare mai più.


MALINCONIA

 

Tristo percorso incamminato 

solo e desolato. 

Colore dei pensieri 

abbandonati nei sentieri 

della vita fuggita.

Ti sei allontanata,

nel mio tramonto svanita. 

Tiepide serate dimenticate . 

L’assenza profuma di mancanza.


LA QUERCIA

 

Arrivato accaldato

dopo aver camminato

sotto il sole infiammato

di un agosto bollente

si sentiva ormai vuoto di mente.

Si sedette così all’ombra 

di un albero grande

al riparo dall’afa incombente

a riposare il suo corpo dolente.

Gli passava la vita davanti,

come un film,ma senza colori.

Le sere passate al chiaro di luna

a stringersi forte le mani

a contare le stelle una ad una

a sperare nel loro domani.

Vedeva sfilare i dolori,

i rifiuti, gli abbandoni, gli amori,

le lotte, le tante sconfitte,

tutto quel briciolo infinito

che fu la sua vita

e che ora sentiva finita.

Si era alzato un venticello lieve

a rinfrescarlo dalla calura

mentre si avvicinava la sera,

ma non riusciva più ad alzarsi

e sotto le fronde dovette fermarsi

di quell’albero grande,

piccolo uomo insignificante,

solo nell’abbandono del mondo,

minuscolo neo nell’universo

capitato senza sapere perchè

in questo stravagante girotondo.

Si assopì così, stanco e dolorante

in un turbinio di niente.

Il buio intanto era sceso di una notte afosa

e a lui parve di sentire

un profumo di rosa.

Poi restò solo il buio.

Lo trovarono due giorni più tardi

tre ragazzi giocando al pallone.

Era lì, dove si era fermato,

sembrava addormentato,

ma ormai era volato

tra le galassie da cui era venuto.


ABBANDONI

 

Passeggiate lente

sotto il sole cocente.

Mano abbandonata,

cielo blu lungo il canale,

di colpo hai smesso di parlare.

Ritorno solitario.

Mi sono perduto con il cuore

strappato dal dolore.


ISTANTI

 

Piccola nuvola bianca

che scivoli stanca

in quel cielo d’azzurro

che somiglia ad un mare,

ti guardo volare.

Finestra quadrata

che accompagni

lo sguardo lontano

mentre cerco di nuovo la mano.

Sento ancora il profumo

di un rosa fiorita.

Residui d’una vita

che è quasi finita.


Ricordi

 

Brezza leggera

di primavera,

fiori gialli infoltiti 

sul mio terrazzo

improvvisato

apparsi 

tra ancora stentati germogli 

dei fidati gelsomini.

Ricordi bambini

di un altro terrazzo indimenticato

a cercare limoni

nel grande vaso abbandonato

in un angolo di sole

dalla memoria ingigantito.

Ma Eros non lascia il cuore

compagno di sempre

ancora stravolge la mente

indomito, indecente

in questo corpo stancato

da tutto il tempo che è passato.

E’ lì come sempre,

gentilmente feroce, invadente

a scuotere i nervi

per farmi sentire ancora

questa brezza leggera

di primavera.


LA QUERCIA

 

Arrivato accaldato

dopo aver camminato

sotto il sole infiammato

di un agosto bollente

si sentiva ormai vuoto di mente.

Si sedette così all’ombra 

di un albero grande

al riparo dall’afa incombente

a riposare il suo corpo dolente.

Gli passava la vita davanti,

come un film,ma senza colori.

Le sere passate al chiaro di luna

a stringersi forte le mani

a contare le stelle una ad una

a sperare nel loro domani.

Vedeva sfilare i dolori,

i rifiuti, gli abbandoni, gli amori,

le lotte, le tante sconfitte,

tutto quel briciolo infinito

che fu la sua vita

e che ora sentiva finita.

Si era alzato intanto

un venticello lieve

a rinfrescarlo dalla calura

mentre si avvicinava la sera,

ma non riusciva più ad alzarsi

e sotto le fronde dovette fermarsi

di quell’albero grande,

piccolo uomo insignificante,

solo nell’abbandono del mondo,

minuscolo neo nell’universo

capitato senza sapere perchè

in questo stravagante girotondo.

Si assopì così, stanco e dolorante

in un turbinio di niente.

Il buio intanto era sceso di una notte afosa

e a lui parve di sentire

un profumo di rosa.

Poi restò solo il buio.

Lo trovarono due giorni più tardi

tre ragazzi giocando al pallone.

Era lì, dove si era fermato,

sembrava addormentato,

ma ormai era volato

tra le galassie da cui era venuto.


LONTANO

 

Ora tu non potrai mai dimenticarti di me

neppure sotto gli sfavili

delle calde notti di mare.

La voce profonda è penetrata nel cuore,

torna e ritorna a sentirsi lontana

tra i rumori di fondo delle notti di luna,

sussurra alla mente distratta

dai giochi d’estate

le più dolci parole d’amore.

Negli occhi vivaci

che traguardano il sole morire lontano

nel rosso tramonto

entreranno i miei occhi colorati

del blu del cielo profondo.

Nè potrai ricacciare la voce,

allontanare lo sguardo.

Sono entrato senza bussare

nella vita gettando scompiglio

con timidi passi di cui vedi però,

seppur di lontano,sulla spiaggia di sabbia

le orme profonde 

inutilmente spazzate via dalle onde

tracce di un’anima indomita e sola.

Cacciato, riappaio 

in un pertugio della memoria

e non c’è nulla da fare

tu non mi potrai più dimenticare,

neppure quando sarò cenere sparsa

nelle acque del fiume

e getterai un fiore

in memoria perenne d’amore.

Allora entrerò dentro ai sogni

nei tuoi caldi solstizi d’estate

per sollevarti dal peso

di ogni dolore.


SERENATA

 

MATTINE 

IMPROPRIE

SEGUONO NOTTI INSONNI

DOLCI RICORDI SI AFFOLLANO IN MENTE

RESTI TU SOLAMENTE

TI CURERO’ L’ANIMA DA OGNI AFFANNO

PORTERO’ VIA CON ME OGNI TUO MALANNO

TI LASCERO’ VOLARE LEGGERA

TRA LE BRACCIA DEI SOGNI

BACIANDOTI UN LOBO

PER LASCIARE IL MONDO DI FUORI.



L’ISOLA SENZA MARE.

 

Scorreva la canoa sopra la corrente azzurra del fiume. Il cielo splendeva celeste nell’afa di agosto.

Filava veloce sull’acqua fresca e trasparente, a vedere i sassi sul fondo.

Lo zio più grande manovrava il timone, guidato coi piedi.

L’altro, dietro, seguiva la rotta.

Pagaiate profonde si susseguivano svelte.

Parole tra loro scambiate in dialetto ad evitare i tranelli del fiume di cui conoscevano bene le correnti ed i gorghi bugiardi.

Sebbene istruiti, il più vecchio, dottore in chimica pura, ed il secondo che aveva fatto il ginnasio, discorrevano sempre usando il dialetto specie per indicarsi la via da seguire in quel fiume tanto amato, ma anche insidioso.

Gran nuotatori entrambi d’acqua dolce.

Il più grande poteva restare ore nel cuore dell’acqua corrente fermo senza andare nè avanti nè indietro. Non riusciva ad avanzare, vincendone la forza, ma neppure il fiume lo spingeva all’indietro. Restava lì, cosi’, finchè si stufava e faceva spettacolo.

Ma anche l’altro era un gran nuotatore.

Da bambino vedi tutto più grande.

A me il fiume Ticino sembrava gigante.

Seduto al centro tra loro mi sentivo tranquillo e sicuro e non riuscivo a trattenere la mia fantasia.

Giocavo, giocavo da solo a fare il pirata.

Si infilava, a risalire la corrente, un ramo laterale dell’alveo principale.

Si entrava così in un mondo nuovo,diverso. Lì l’acqua si faceva più calma, quasi serena. Si avanzava tra una fitta boscaglia, alberi grandi, querce e pioppi, roveti e fogliame.

Andatura lenta, che serviva a pensare. Aspettavo lo spuntare di Sandokan arrivare da dietro la curva. Il fruscio delle foglie mi pareva il rumore sommerso dell’appostarsi dei tigrotti della Malesia. Il Ticino mi sembrava il MeKong.

Ero lì tra le acque del mio fiume natio, ma credevo d’esser tra le paludi insidiose dell’Indocina.

Il sole filtrava tra il fogliame ed i rami degli alberi che smorzavano un po’ la sua forza e riluceva nell’acqua a illuminarla di riflessi dorati.

Gli zii vogavano per ore senza apparente fatica e m’avevano messo in testa un cappello per ripararmi dal sole.

Per lo più si stava in silenzio, si ascoltava il rumore del mondo, il soffio del’aria che la nostra andatura muoveva. Non occorreva parlare, avrebbe rovinato la magia del rumoroso silenzio del fiume.

Si arrivava così, poco a poco, alla spiaggia di sabbia che stava più in là, nascosta in un’ansa che si era formata, dove il fiume diventava tranquillo,pacificamente placando le sue correnti.

Dunque solo sabbia e qualche raro cespuglio di ginestre dai fiori gialli.

Ora potevamo fermarci. La canoa si trascinava sulla riva del fiume, posata sopra la fine sabbia bianca. Si poteva prendere il sole che, senza alberi intorno, arrivava più forte e diretto. Faceva anche caldo ed in quel punto mi era permesso di fare il bagno perché si era formata una naturale piscina di acqua tranquilla e poco profonda.  

“Entra pure in acqua” mi diceva lo zio più grande. “Qui il bagno lo puoi fare, non ci sono pericoli.” Mi buttavo così alla meglio, senza badare allo stile perché ancora tentavo di galleggiare soltanto. Grandi inutili spruzzi tutt’intorno. Avanzavo poco e quando mi pareva di non farcela più mettevo in terra i miei piedi e mi davo nuovo lo slancio. Non era fredda l’acqua. Fresca, questo si. Pareva limpida alla vista. Non a caso, il fiume Ticino, era chiamato il “fiume azzurro” perché il cielo blu  rifletteva nelle acque trasparenti il suo colore celeste. Lo zio più giovane, nell’attesa,

prendeva il sole e fumava. Quando era n vena, raccontava di sé, della sua gioventù consumata in un campo di concentramento tedesco,degli orrori e delle paure subite. Aveva imparato anche un po’ a parlare tedesco. Bombardamenti a tappeto, fughe, nascondimenti per salvarsi la vita e poi la fame, fame tremenda. Non era poi nemmeno passato tanto tempo dalla fine del buio della notte fascista. Loro erano antifascisti, mi insegnarono a nuotare nel fiume e nella vita, controcorrente, ad amare sopra ogni cosa la mia libertà, a star lontano dai luoghi comuni, a viver fuori dal coro, a non ubbidire ed a non omologarmi, mi insegnarono l’obliquità,questo mio essere obliquo che ha segnato l’intera mia vita. La ragione, la scienza, lo studio, la passione dei viaggi come via della conoscenza. Forse erano anche un po’ stalinisti, nonostante tutto. Dai loro emozionati racconti prorompeva ancora vivida la memoria della rotta nazista e dell’esercito sovietico ad inseguirli in fuga per mezza Europa, liberando dai campi di sterminio nazisti, ebrei, comunisti, omosessuali e sinti consumati da un orrore contro l’umanità, fino a liberare Berlino da quel delirio omicida. Così erano i miei zii ed amavano il fiume ed ad andare in canoa.

“Esci di lì,basta con l’acqua. Ora ci scaldiamo ed asciughiamo col sole.”.

Sdraiato sulla sabbia, ecco che in un istante uscivo dalla visione delle paludi dell’Indocina ed ,di colpo, entravo su di una bianca spiaggia del mar dei Caraibi.

Dal fondo della canoa estraevano un piccolo zaino con la merenda. L’acqua da bere non mancava: era lì. Sotto la sabbia. Si scavava una piccola buca con le mani ed essa scaturiva fresca e leggera, sorgente dal fondo della terra.

Un poco più lontano, laggiù, il fiume lasciava emergere la vista di un isolotto di ciotoli e sassi. C’eran  persone arrivate sin lì chissà come.

Facevano il bagno anche loro e prendevano il sole. Avevano costruito un riparo con canne e secco fogliame. Passavano il tempo e le loro vacanze.

Verso l’orizzonte, là in fondo il sole cominciava un poco a scendere. Ora l’afa e la calura si erano attenuate. I raggi si fecero meno aggressivi e, più lievi, lasciando margini d’ombra più larghi.

Bisognava tornare. Gli zii sospinsero di nuovo in acqua la canoa. Si risaliva. Come prima. Lo zio più grande a timonare ed indirizzare lo scafo, l’altro dietro ed io tra loro, in mezzo.

Con calma si usciva dal ramo di fiume, dalla sua boscaglia e dai suoi canneti verso l’alveo più grande, principale, nella vera rognosa corrente.

Si risaliva con fatica, pagaiate profonde e frequenti. Si procedeva piano,con attenzione.

Intanto si era fatto vivo il tramonto rossastro, in fondo allo sguardo le cime dei monti innevati in eterno che si stagliavano vive a far da corona, divenivano un più pallide, all’ombra.

Sul far della sera anche gli uccelli volan più bassi e ,sulle rive,si intravedevano ancora i pescatori, cui pure forse l’imbrunire giovava, che insistevano nel tentar la cattura di cavedani, savette, barbi o qualche raro disperso persico.

Si scolorava la luce,anche l’acqua cominciava a farsi nera.

Il giro in canoa sul fiume è finito.

Tutto finisce. Sono passati forse cinquant’anni. Gli zii,entrambi, se ne sono andati troppo presto. Volati via, chissà dove. Forse nel nero del niente. Ho proseguito da solo, cercando di stare nella via tracciata, razionale, coerente ed obliquo, come mi insegnarono loro, a tenere la barca diritta, a rispettare la forza e le insidie del fiume, controcorrente, senza farsi trascinare da essa, ma vincendola, infine.

Si portava la canoa nell’hangar- deposito, ci si rivestiva,si saliva in lambretta. Lo zio giovane davanti alla guida, l’altro dietro, io,bambino, in piedi dietro al manubrio.

Sono vecchio ora,più vecchio di loro quando mi lasciarono. I miei capelli sono bianchi, bianca è la mia barba ma la memoria è rimasta viva, non si dimenticano i maestri di vita.

Forse si sopravvive così, lasciando traccia di sé,facendoci amare.

Dal ponte sul fiume si vede l’intero suo percorso, da monte sino in fondo alla valle, lontano.

Verso la città, osservando le cose un poco più in alto, essa mi appare abbracciata dal fiume che la protegge, ma la tiene in disparte. Ecco cos’è questa Vigevano, in cui mi sono asserragliato tutta la vita, è un ‘isola senza mare. E’ difficile uscirci, è difficile entrarci. Con una perla di rara bellezza nel centro del suo cuore, circondata però dal bituminoso catrame borghese da cui non si riesce a scrostare.

Nel rientro serale cominciava a farsi strada la luna che prendeva il posto del sole.

Resta il rimpianto ed un poco di malinconia .” Forse s’avessi io l’ale da volar su le nubi e noverar le stelle ad una ad una, più felice sarei,candida luna………”.

Caro compagno di studi, caro Leopardi struggente anche io non so dare risposte ai miei ricordi,alla mia vita, non sono riuscito a trovare il bandolo della matassa e dunque:

”Dimmi luna a che val

Al pastore la sua vita,

la vostra vita a voi?

Dimmi ove tende

Questo vagar mio breve?”

Ora che il traguardo si avvicina, non lo so.

Mi restano i ricordi.


 

J

 

Ricordo che c’era

della sabbia leggera.

Si prendeva la bici,

si scendeva felici.

Non c’era pensiero

che non fosse sincero.

Nel lontano passato

io ti rivedo incantato

e dentro al ricordo

mi figuro leggero

come fosse soltanto

un sogno o un incanto.

Mi rimane memoria

di quel tuo rosso costume

dai bottoni dorati

e del sapore dei tuoi baci salati.


MAGGIOLATA

 

Sole faticoso di maggio

ferito da nuvole cupe

nere di pioggia incipiente

tiepidamente accompagni

questa mia tarda mattinata di niente.


MAGIA

 

TI HO CERCATA LONTANO

TRA OCEANI E TERRE INFINITE.

MA TU ERI QUI

TRA I MIEI CAMPI DI RISI

NEI NOSTRI TEPORI DI

MAGGIO E SETTEMBRE,

ERI QUI AD ASPETTARE DA SEMPRE.

FORSE UN PO’ TARDI

E PIUTTOSTO ACCIACCATO

PERO’, ECCO, CHE INFINE SONO ARRIVATO.

ED ORA IL PENSIERO DI TE

SI E’ DAVVERO FERMATO,

PARTITO DAL CUORE

SI è’ INSEDIATO ALLA MENTEùE DA LI’ NON SI MUOVE PIU’ NIENTE.


NUBI

 

CORRONO VELOCI LE NUBI

NEL CIELO A COPRIRE LA LUNA

NEGANDO LA LUCE TRA NOI

SUBITO SCIVOLANO VIA PIU’ LONTANO

RIDONANDOCI QUEL SUO PALLIDO

SFMATO CHIARORE.

ALLORA MI CHIEDO DOVE TU SIA

IMPALPABILE MUSA

SCOMPARSA AL MIO SGUARDO,

INGANNATRICE DI CUORI

MI LASCIASTI SOLAMENTE TRISTEZZA E DOLORI.

MA, ECCO,LAGGIU’SALE L’ALBA

“DALLE DITA DI ROSA”

AD ILLUMINARE OGNI COSA

CHE IO POSSA RIVEDERE

QUELLA SCHIENA MERAVIGLIOSA

DA ABBRACCIARE E STRINGERE AL CUORE

MIO FATICOSO AMORE.


PIRATA

 

Il pirata dal bianco capello

È pronto a salpare verso un cielo più bello.

Scorza rocciosa, tenero cuore

non conosce la resa

di fronte al dolore.

Tra tempeste e procelle mantiene ferma la rotta,

la mente vivace e serena

sotto i cieli baciati di luna piena.

Accompagnami tu

In questo viaggio fatato

Dalle nevi dei monti

al blu del mio mare

a vere il tramonto lontano affacciare.

Capisci anche tu che

proprio non mi posso fermare

perché ancora ti devo baciare.


ROMA

 

ROMA LONTANA

ROMA PIOVOSA

ROMA FREDDA DI TRAMONTANA.

HO LASCIATO I RICORDI

DI PASSIONI ED ABBANDONI

SENZA TIMORI E SENZA SOLUZIONI

VESTIGIA DI STORIA

DENTRO LA MEMORIA.

SE CI FOSSI STATA

TI SARESTI INNAMORATA

E NON MI AVRESTI LASCIATO SOLO A CERCARTI

LUNGO I SALISCENDI DI PIAZZA NAVONA

E DAVANTI AL CARAVAGGIO

DI S. AGOSTINO.

AVRESTI ABBRACCIATO QUESTO NUOVO DESTINO

DENTRO UN BACIO INFINITO

CHE NON AVREBBE PIU’ POTUTO ESSERE SFUGGITO

SONO SICURO CHE SARESTI STATA FELICE

DI INCROCIARE IL CAMMINO

DENTRO UN CUORE

CHE ASPETTA SOLO UN CENNO D’AMORE.


SERENATA

 

MATTINE IMPROPRIE

SEGUONO NOTTI INSONNI

DOLCI RICORDI SI AFFOLLANO IN MENTE

RESTI TU SOLAMENTE

TI CURERO’ L’ANIMA DA OGNI AFFANNO

PORTERO’ VIA CON ME OGNI TUO MALANNO

TI LASCERO’ VOLARE LEGGERA

TRA LE BRACCIA DEI SOGNI

BACIANDOTI UN LOBO

PER LASCIARE IL MONDO DI FUORI.


PRIMAVERA

 

Talvolta mi manchi,

mi manchi come la primavera,

mi manchi come il tepore della sera,

come il profumo dei ciliegi in fiore,

mi manchi perché sei il mio amore.

Talvolta mi manchi,

mi manchi come la fragranza

delle viole e delle rose,

come l’essenza delle mimose.

Come il pallido sole all’imbrunire

quando il giorno sta per scomparire.

Talvolta mi manchi

come mi manca l’arrivo della primavera

con la sua brezza dolce e sincera.

Mi manchi perché come la primavera

tu hai segnato il ritorno

di una nuova vita vera.


TICINO

 

Il fiume accarezza la città
scorre le sue anse sinuose
tra boschi di foglie prosperose,
t’abbraccia come a stringerti forte
a non voler lasciarti andare lontano
e ti fa intravedere
laggiù, laggiù in fondo al piano
lungo la linea dell’orizzonte
la cima nevosa del monte.
Nella spiaggia soffice e sabbiosa
s’è consumata molta parte della mia gioia amorosa.
Ho amato,fanciullo innamorato.
Nelle sue acque limpide e fresche
il mio giovane corpo mi sono bagnato.
E il fiume ancora va
scivola ancora via,
quante acque sotto il ponte della ferrovia.