FIUME
Cadono i fiori
in questa nuova fine
d’estate.
Si son fatte malate
le nostre giornate.
Nelle acque azzurre del
fiume
le membra
si sono ancora bagnate.
Abbracciami
il cuore e la mente
stringimi forte
entra con me
nella corrente.
Fai scivolare via così
la malinconia.
E’ la tua carezza
che la porta via.
Mi corrono incontro
di nuovo le fate
trovate
in quelle serate
lontane e passate.
Il rosso del cielo al tramonto
s’affaccia
a confondere
questo triste momento.
NATALE
Merceria gigante
Tra falsi sfavillii
si rincorrono ansanti
futili ignoranti.
E’ ancora Natale!
UN UOMO
L’uomo percorse la sua strada
bagnato dal sudore della vita,
segnato dagli inciampi del destino
non rallentò mai il suo cammino.
Dal lieve risveglio del mattino
sino al tramonto rosso della sera.
Scivolato.
rialzato,
ricaduto,
riprese la sua via
senza sentirsi mai perduto.
No, ora, no,
davvero non poteva
abbandonare il suo sentiero,
lasciare in terra
tutto l’amore che aveva.
L’uomo si alzò
a combattere
la sua ultima battaglia.
Fu così che ritornò di nuovo
sul suo viso
un tenero sorriso
e a risentirsi
dolce e beffarda
quella risata
triste e solitaria
che ancora risuonava
forte e fragorosa
per divertirlo,
obliquo sempre,
pronto a saltare
gli ostacoli del mondo.
I RAGAZZI DLLA MASSERIA
Rimpianti di estati
trascorse a parlare.
Un tavolino, le sedie
e voi in cerchio seduti
ad ascoltare.
Come un abbraccio
del padre ai suoi figli.
Un vecchio con la barba bianca,
una ruga a segnare
quella faccia stanca
mentre gli occhi guardano lontano
e la voce sale piano piano
a tentar di trasmettere
un frammento,
anche solo un frammento,
del senso di vita.
No di certo non è finita.
Torneranno le nostre estati
di sole
a scaldarci il cuore
a liberare di nuovo
le nostre parole
che ci accompagnino ancora
verso la speranza
di un vostro mondo migliore.
IL TEMPO E’ UNA ILLUSIONE
Sogni salati
dimenticati
sguardi violenti
fissi negli occhi
di desiderosi amanti
ricordi senza pudore
sospesi nel vuoto
di un perduto amore.
INESISTENZA
Afose giornate
passate
ad ascoltare
il silenzio.
Inutili ore
vuote d’amore.
Appassisco così
senza fare rumore.
FINESTRA
Vedo dalla finestra.
Cielo azzurro
celeste lomellino
un po’ appannato,
malmostoso
cielo dispettoso
come me
che lo guardo scontroso.
Malumore dispettoso
accompagna le giornate.
Fantasia volante
ad inseguire l’istante
della spiaggia bollente
da cui tuffarsi nel mare
per trovare l’amore
ed abbracciare la vita.
Resta solo quel cielo azzurrino
tiepidamente lomellino
entrato ingannando
dalla mia finestra sul mondo.
DEDICATA
( blu)
Ah Blu! Blu!
dimmi tu
dove troverò
il tuo blu.
Dentro quel cielo
laggiù
o nel cuore profondo
del mare.
Arriverò a suonare
il campanello di casa.
Sei pronta a scappare?
L’auto è accesa qui fuori
ti sto ad aspettare
per volare
fin dentro quel blu
per sentire ancora
una volta
tutte le nostre vibrazioni
blu
e poi, e poi,
niente più.
CASBAH
Antenne feriscono il grigio
di questo cielo di nebbia
tra tegole rotte.
Solitario è il camino.
L’orizzonte disegna
alberi nudi.
Quanti sguardi
ho perduto
dentro questo
povero mondo.
In questa casbah
padana.
Divenuto
paesaggio vivente
trascino così
la mia vita
cosciente
ALBERO
E’ cresciuto l’albero
nel mio giardino.
Lo piantai ch’ero bambino.
Cresciuto al tepore
di un estivo sole.
L’ho veduto fiorire
e spogliarsi d’autunno
sferzato dal vento
accompagnato dal mio tormento.
I rami ricoperti di neve
apparsi attraverso la luce residua
di una finestra appannata
dal calore di casa.
Scaldato dal fuoco del nostro camino
ho guardato il tempo sfilare.
Il passare dei giorni
muti di noia.
Ritornare infine la gioia
compagna del sole,
Rivedere le gemme
ricomparire sui rami
aspettando che di nuovo
risboccino i fiori.
Risorge anche l’amore
che fa scordare il dolore.
Si ravvivano i sensi.
E’ la luce che vince di nuovo.
Tu ti riprendi il mio cuore
E’ arrivata un’altra stagione.
Tante ne sono trascorse,
ma l’albero è ancora lì,
legnoso e forte
come quando lo piantai
nel mio giardino
quando ancora ero bambino.
VISIONI
Vedo tegole rosse
di tetti slabbrati
segnare il confine.
Oltre il limite
si infila il pensiero,
tra le umide case
diventa più vero,
alle infinite domande
risponde sincero.
Nell’impallidito sole
di un tarda mattina
mi inseguono strani presagi.
E’ compagno il profumo dei fiori.
Aspetto un altro domani,
che trascini con sé
i miei nuovi dolori.
LA QUERCIA
Arrivato accaldato
dopo aver camminato
sotto il sole infiammato
di un agosto bollente
si sentiva ormai vuoto di mente.
Si sedette così all’ombra
di un albero grande
al riparo dall’afa incombente
a riposare il suo corpo dolente.
Gli passava la vita davanti,
come un film,ma senza colori.
Le sere passate al chiaro di luna
a stringersi forte le mani
a contare le stelle una ad una
a sperare nel loro domani.
Vedeva sfilare i dolori,
i rifiuti, gli abbandoni, gli amori,
le lotte, le tante sconfitte,
tutto quel briciolo infinito
che fu la sua vita
e che ora sentiva finita.
Si era alzato intanto
un venticello lieve
a rinfrescarlo dalla calura
mentre si avvicinava la sera,
ma non riusciva più ad alzarsi
e sotto le fronde dovette fermarsi
di quell’albero grande,
piccolo uomo insignificante,
solo nell’abbandono del mondo,
minuscolo neo nell’universo
capitato senza sapere perchè
in questo stravagante girotondo.
Si assopì così, stanco e dolorante
in un turbinio di niente.
Il buio intanto era sceso di una notte afosa
e a lui parve di sentire
un profumo di rosa.
Poi restò solo il buio.
Lo trovarono due giorni più tardi
tre ragazzi giocando al pallone.
Era lì, dove si era fermato,
sembrava addormentato,
ma ormai era volato
tra le galassie da cui era venuto.
LONTANO
Ora tu non potrai mai dimenticarti di me
neppure sotto gli sfavilii
delle calde notti di mare.
La voce profonda è penetrata nel cuore,
torna e ritorna a sentirsi lontana
tra i rumori di fondo delle notti di luna,
sussurra alla mente distratta
dai giochi d’estate
le più dolci parole d’amore.
Negli occhi vivaci
che traguardano il sole morire lontano
nel rosso tramonto
entreranno i miei occhi colorati
del blu del cielo profondo.
Nè potrai ricacciare la voce,
allontanare lo sguardo.
Sono entrato senza bussare
nella vita gettando scompiglio
con timidi passi di cui vedi però,
seppur di lontano,sulla spiaggia di sabbia
le orme profonde
inutilmente spazzate via dalle onde
tracce di un’anima indomita e sola.
Cacciato, riappaio
in un pertugio della memoria
e non c’è nulla da fare
tu non mi potrai più dimenticare,
neppure quando sarò cenere sparsa
nelle acque del fiume
e getterai un fiore
in memoria perenne d’amore.
Allora entrerò dentro ai sogni
nei tuoi caldi solstizi d’estate
per sollevarti dal peso
di ogni dolore.
GIORNATA DELLA MEMORIA
Ti sbuccerei
sotto il cielo d’Arabia
o tra le rosse dune della Namibia.
Oh!, Si
se ti sbuccerei!
Toglierei l’apparenza,
lascerei la sostanza.
Compagna
di questa mia solitudine.
Guarderei il luccichio del firmamento
nelle nere notti
del deserto di Giordania
nel cammino tra Aqaba e il mar Morto.
Oh si!
Vedo solo il brillare degli occhi
indicare la strada
verso Israele
lungo il Giordano.
Tu allora mi stringerai la mano
e mi starai vicino.
Baciami il cuore,
liberami da tutto il dolore
che accompagna la via.
Ecco, laggiù, all’orizzonte,
le prime luci dell’alba
s’alzano all’est del cielo.
Lascia che ti possa sbucciare
e insieme a te ritornare
là in fondo
sino alle origini del mondo.
RICORDI
Brezza leggera
di primavera,
fiori gialli infoltiti
sul mio terrazzo
improvvisato
apparsi
tra ancora stentati
germogli dei fidati
gelsomini,
ricordi bambini
di un altro terrazzo indimenticato
a cercare limoni
nel grande vaso abbandonato
in un angolo di sole
dalla memoria ingigantito.
Ma Eros non lascia il cuore
compagno di sempre
ancora stravolge la mente
indomito, indecente
in questo corpo stancato
da tutto il tempo che è passato.
E’ lì come sempre,
gentilmente feroce, invadente
a scuotere i nervi
per farmi sentire ancora
questa brezza leggera
di primavera.
LA ROSA ROSSA
Lascia una rosa rossa
là dove le mie ceneri saranno deposte
Io nemmeno potrò saperlo
essendo entrato ormai
nel gorgo del niente,
ma tu giura che lo farai,
giuramelo ora, finché
non mi ha abbandonato
la coscienza di me
e possa finalmente partire
sapendo che lo farai.
Sarà il segno che resta del mio passaggio
nel subitaneo tragitto che è stata la vita
senza che sia mai riuscito
ad afferrarne il senso.
Semplicemente perché
un senso non c’è.
Lasciala col cielo terso o con la pioggia,
con la nebbia bagnata della nostra terra
e con la torrida afa d’estate.
Quando appassirà, lasciane un’altra
traccia d’intesa tra noi,
di un amore che pur vive
e di memoria post mortem.
Lascia una rosa rossa
sulle mie ceneri sempre
ti prego!
PANDEMIA LOMBARDA
Nella controra solatia
del mio cielo di Lombardia
mi stordisce il profumo dei gelsomini.
Svolazzanti farfalle colorate
tra petunie ed ortensie insinuate
nel pomeriggio trascorso
nel grande terrazzo
solitario e desolato.
Lievi refoli di vento
accarezzano il mio scontento.
KALOS KAI AGATHOS
O DEL MITO EROICO
Dalla stazione arrivava al liceo. Un palazzone ‘800, oggi purtroppo molto malmesso-
La mattina si presentava sempre in ritardo, quando la campanella già stava suonando.
Il Preside, ritto in piedi alla fine dello scalone, lo guardava con aria di rimprovero, ma non diceva niente. Forse si era abituato anche lui.
Grandi aule, con la cattedra, su, in alto, posata sopra un vero e proprio piedestallo e i ragazzi, nei banchi, giù, piccoli, piccoli. Per cinque, decisivi anni, si fece in lungo quel possente corridoio classicheggiante, scalando le aule, una dopo l’altra, sino ad arrivare all’ultima, laggiù in fondo, alla terza conclusiva.
Per molto tempo, dopo, continuò a sognare quell’esame finale, fatidico e crudele. Tutte le materie sia scritte sia orali, compresa la micidiale versione dall’italiano in latino ed i riferimenti dei due anni precedenti.
Alle sei i muratori cominciavano il loro lavoro. Li vedeva di fronte, dalla finestra aperta della sua camera, a torso nudo, cazzuola, calcina e mattoni, come si usava una volta. Stavano costruendo l’istituto tecnico commerciale proprio lì davanti. Iniziavano così presto perché era una estate caldissima e cercavano di utilizzare le ore più fresche della giornata.
Forse anche per questa esperienza di comune, sebbene diversa, fatica, che lui la pensò sempre come Antonio Gramsci ( Quaderni dal carcere; quaderno 12): ” occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”
Non si pentì mai, comunque, di esser passato per quel duro percorso formativo; anzi ne era orgoglioso.
Scuola dura, selettiva, autoritaria.
Però, altro che inutilità! Per questo più tardi decise di laurearsi con una tesi in diritto romano, come ultimo atto di estrema ribellione obliqua e di affermazione della assoluta utilità dell’inutile apparente.
“Il latino non si studia per imparare a parlare in latino, ma per imparare a studiare.” E’ ancora Antonio Gramsci che ci guida sulla strada della corretta comprensione delle cose.
Le ragazze portavano tutte un grembiule nero, lungo, oltre le ginocchia. Niente gambe da vedere. Non se ne parlava proprio. Qualche sbirciatina sopra il ginocchio. Era il dominio della fantasia.
Pochi alunni, una cerchia ristretta. Un po’ di borghesia di provincia.
Figli di professionisti e imprenditori. Per questo lui, che non era figlio né degli uni né degli altri, ma di un povero “travet” monoreddito, continuò a sentirsi un po’ obliquo, mai pienamente integrato
.Lui studiava con fatica. Poca voglia. Grandi “remate”, come si diceva allora, per tenere a galla la barca.
Ma se la cavò sempre.
La prof. di lettere del ginnasio era una brava insegnante, ma troppo esigente. Giovane, rossi i capelli, molto preparata. In quei due anni lo fece molto soffrire, gli cavò l’anima. Non la dimenticò mai più.
Forse se ne era persino invaghito, una specie di sindrome di Stoccolma.
Fu lei a guidarlo nelle prime letture. “Il giovane Holden”, ” Il sentiero dei nidi di ragno”, “ una questione privata” e poi ancora, più avanti, “Il partigiano Johnny”, insieme con la struggente melodia, dentro la mente e nel cuore di ” Moonlight Serenade ”.L’anglofono Fenoglio e la letteratura americana. ”La casa in collina, ”Il compagno”, ”Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Cesare Pavese, Come dimenticare tutto questo.
Mai più si dimentica, mai più.
Quando hai sedici anni queste prime esperienze ti aiutano a comprendere che esistono modi di vedere le cose che sono diversi.
Ti si apre la testa e capisci che non sarà più possibile fermarsi per sempre lì, tra il catrame borghese dei luoghi comuni che ti stanno ogni giorno d’intorno.
Ci si divertiva anche, però.
Lunedì pomeriggio. Il solito rigido inverno. Il freddo pungente arrossava le gote. Cappotti,
sciarpe , guanti e “scarnebbia”.
Niente storia dell’arte quest’oggi. Si salta tutti la scuola.
L’Angelo, il Gianni, il Momo, il Gino, Giovanni Edonè, l’Albertone , così grande e grosso e lui “il biondo”, di buon passo, ingobbiti in se stessi per il gelo che c’era, alle tre, quindici per esser precisi, si era già lì, seduti in platea, a vedere un film scollacciato nella spasmodica attesa della rivista che poi sarebbe iniziata.
Solo loro e qualche barbiere, che il lunedì chiudeva bottega: questo era il pubblico.
Le ballerine finalmente sfilavano in passerella con le gambe un po’ troppo cicciotte, le calze a rete smagliate qua e là ed i seni da balia. L’Albertone, in piedi, con le braccia allargate, gridava: ” Divine!” Poi lanciava sul palco il mazzo di fiori che aveva comprato come omaggio alla loro avvenenza. Qualche risata, qualche “darsi di gomito”, niente di più succedeva in quei lunedì trasgressivi, pieni solo di vita, di illusioni e di voglie.
“Vieni fuori carino!” gli disse la prof. di chimica e scienze, quel mercoledì delle ceneri. “No che non esco. Ieri era festa, sono andato a ballare al teatro Cagnoni. Il martedì grasso si balla, non si studia. Lei non mi deve chiamare oggi, no che non esco!.” “Allora ti prenderai un bel tre”. “Non è giusto” protestò inutilmente. “Lei è solo cattiva con me!”. “Vattene” disse “esci di qui, sii più rispettoso”. Così se ne andò a fumare nel “cesso”, lì fumavano tutti e, dopo l’intervallo, se si apriva quella porta di legno, uscivano grandi nuvole bianche .
Aspettò che quell’ora finisse. Ecco, lui era così: era, a suo modo, un ribelle, un pacato ribelle; non gridava, non litigava, ma non accettava imposizioni di alcun genere. Semplicemente disubbidiva.
Ecco restò sempre così, di traverso alle regole, nemico delle gerarchie e dovunque poi si trovasse nella vita, non ebbe padroni. Mai. Era obliquo davvero, ecco cos’era.
Gli cadde addosso così, d’improvviso, quel caldissimo luglio del ’65.
Finito anche quell’anno di scuola, ancora stordito dalle fatiche di studio, imbevuto dei miti che gli avevan spiegati, immerso negli omerici esametri, non gli uscivano ancora di mente i fulgidi versi dell’addio straziante di Andromaca a Ettore.
” Ma di gran pianto Andromaca bagnata
accostossi al marito e per la mano
stringendolo e per nome in dolce suono
chiamandolo proruppe- oh troppo
ardito! Il tuo valor ti perderà
nessuna pietà del figlio e di me
tu senti.”-
E poi Ulisse, che se ne va sulle onde del mare a cercare di sapere sempre di più, divenne un compagno di sogni. Gli rimase quel vizio di andare a vedere le cose del mondo.
Mediterraneo dolente ora come allora. Dalla guerra di Troia, a Cartagine debellata, da Enea profugo fuggente dalla città di Troia in medio oriente alla Siria insanguinata. Odissee dolorose e permanenti.
Ma in quel luglio bollente, estive vacanze di fuoco, restava loro, negli occhi stupiti, la voglia dei baci, mille e poi mille di Lesbia e Catullo e fu così che tanti se ne scambiarono, di baci d’amore.
Lui, novello James Dean dagli occhi celesti, lei giovane donna dal nome spagnolo, grandi le mani ed il cuore possente.
Loro scendevano giù, verso il fiume Ticino, inforcando, veloci, le bici e, nell’attesa, già cominciava il piacere, consumato più volte fino a non farcela più sulla spiaggia di sabbia che si era formata e, poi, via, a bagnare nell’acqua quei corpi spossati. E poter quindi fumare e tutto aspirare quell’acre sapore che il fumo produce.
Quella sera lui aspettò. Lei si calò giù dal balcone di casa, sulla bici andarono a passare la notte da lui.
Se ne tornò che era l’alba, non c’era nessuno, l’afa ancora non era passata. Si sentiva padrone del mondo, come Achille che, vincitore, rientra alla tenda dopo uno scontro guerriero.
Aveva il futuro davanti.
Infine andava a sedersi nel niente del bar, in piazza Ducale, all’Haiti, dove c’erano tutti.
I cinque anni stupendi finirono lì , 23 luglio 1965 e Gimondi vinse il giro di Francia. A Milano, al Vigorelli, i Beatles facevano il loro primo concerto in Italia. Tra poco il mondo sarebbe cambiato.
Queste cose gli affollavano confuse la mente in quel giorno di merda, mentre usciva da quel cimitero, avendo perduto per sempre la compagnia di un amico, un fratello di vita.
Già “scarnebbiava”. L’autunno inoltrato il crepuscolo già aveva anticipato. La piazza era vuota di gente e lui restò solo nella nebbia incombente. A lui piaceva così, senza niente. Ogni colonna, ormai, gli diceva qualcosa, gli raccontava qualche storia felice o dolorosa.
Ora veramente capiva che la piazza era vuota di tutto , non sapeva più con chi parlare, con chi litigare, ridere o sognare.
Rimasto recluso nella sua solitudine, era lui stesso diventato “scarnebbia” vivente, sopravvissuto in una bolla di niente.
Ormai, pensò, andata se ne era la vita, tra gioie e dolori strazianti, neppure c’era più quell’acre sapore di fumo, rimasto anche quello un ricordo, come quel luglio di afa cocente, per lui che lo visse felice.
E’ andata così, si disse, come per tutti, senza che si riesca a capire nemmeno il perché.
LO ZIO DINO
UN EROE SENZA GLORIA
Aveva i capelli neri.
Somigliava alla mamma corvina, non ai biondi cerulei paterni.
Era un bel giovane piacente, avrà avuto 25 o 26 anni.
Gli spezzarono la gioventù dentro al cuore.
Lo mandarono ad invadere l’Albania e la Grecia, che aveva inventato la democrazia.
Aveva fatto il ginnasio e sapeva leggere il greco, di cui ricordava anche qualche parola. All’inizio gli giovò.
Lo mandarono a lavorare tra le scartoffie, lontano dai disagi e dai pericoli delle linee di fuoco. Scriveva un piccolo diario quotidiano che ho rinvenuto in cantina, oramai illeggibile, consumato dall’umidità. Di quella minuscola scrittura sono riuscito solo a capire che raccontava di un pomeriggio in cui era riuscito a scappare in piscina per poter fare il bagno nell’estate di una torrida Atene. Questo era rimasto per lui il piacere più grande.
Amava veramente nuotare ed era in effetti un gran nuotatore di fiume, anche un po’ spericolato.
Al fiume Ticino rimase sempre visceralmente legato e lì mi portava per insegnarmi a nuotare e ad andare nei suoi anfratti in canoa.
Le fughe in piscina ad Atene, le acque amate del fiume, e, più tardi il mare ed i suoi abissi rappresentarono sempre i suoi gesti d’amore per la libertà.
Poi, infine, venne il momento delle gran decisioni da prendere da solo, secondo coscienza. Tenere la schiena diritta e non collaborare con la dittatura fascista , le milizie e rifiutarsi di andare con le camice nere di Salò o pagare con la deportazione nazista, prigioniero di guerra.
Il giovanotto non ebbe alcun dubbio, mai coi fascisti razzisti e nemici della libertà. Doveva subire la detenzione tedesca, ma libero nel cuore e nella mente.
Allora lui non sapeva come sarebbe andata a finire, di certo c’era solo il buio dei campi di concentramento e detenzione ed il lavoro forzato, la fatica, le violenza ed i soprusi nazisti.
Quindi il treno blindato, la tradotta infinita da Atene al gelo della oscura Germania.
Quella era l’unica via, era scritta nel cuore, neppure esisteva una qualche alternativa senza perdere la sua dignità di giovane uomo.
Mi raccontò, certo, più volte della gran fame patita e di quando dovette costruire una rudimentale bilancia per poter equamente dividere la dose di pane spettante ai compagni prigionieri.
Ricordava spesso i bombardamenti diffusi delle potenze occidentali sulle città tedesche e su quella in cui era detenuto nel campo di lavoro e delle fughe disperate per cercare riparo, rifiutati nei rifugi perché nemici, prigionieri e stranieri.
Ecco, questo raccontava a me bambino nell’immediato dopo guerra , col suo esempio concreto e nel sentirsi del tutto normale, nonostante le difficoltà affrontate e le gravi scelte compiute a poco più di vent’anni.
Mi insegnava a nuotare, libero, nel fiume, a vincere la corrente con prudenza, ma con determinazione.
Ad andare controcorrente, ad apprezzare la ragione, il progresso, a credere nella scienza, ad amare la curiosità dei viaggi ed il valore della conoscenza.
In una parola ad essere un libero pensatore, a non abbassare la testa, a non subire comandi od imposizioni.
Se ne è andato troppo presto, forse consumato dai tanti stenti subiti nei suoi tremendi anni di gioventù,
Ho cercato di imparare, a restare fedele a quegli ideali, agli insegnamenti di allora e di crescere laicamente coerente.
Mio zio Dino è stato uno degli eroi della libertà, mai celebrati e dimenticati ed oggi in questo strano 25 aprile in cui scrivo, con le piazze vuote di pandemia, lo voglio ricordare, insieme a tutti i suoi compagni, che ebbero il coraggio di difendere la loro ed anche la nostra odierna libertà.
Eroi silenti come silente è questo 25 aprile vissuto ai tempi del corona virus.
Il mio “ bella ciao”, quest’anno è questo qui.
Kalòs kai agathòs
-O DEL MITO EROICO-
Dalla stazione arrivava al liceo. Un palazzone ottocento, oggi molto malmesso.
La mattina, si presentava sempre in ritardo, quando la campanella già stava suonando. Il Preside, ritto in piedi alla fine dello scalone, lo guardava con aria di rimprovero, ma non diceva niente. Forse si era abituato anche lui. Grandi aule con la cattedra, su, in alto, posata sopra un vero e proprio piedestallo e i ragazzi, nei banchi, giù, piccoli, piccoli. Per cinque, decisivi anni, si fece in lungo quel possente corridoio classicheggiante, scalando le aule, una dopo l’altra, sino ad arrivare all’ultima, laggiù in fondo, alla terza conclusiva.
Per molto tempo, dopo, continuò a sognare quell’esame finale, fatidico e crudele. Tutte le materie sia scritte sia orali, compresa la micidiale versione dall’italiano in latino ed i riferimenti dei due anni precedenti.
Alle sei i muratori cominciavano il loro lavoro. Li vedeva di fronte, dalla finestra aperta della sua camera, a torso nudo, cazzuola, calcina e mattoni, come si usava una volta. Stavano costruendo l’istituto tecnico commerciale proprio lì davanti. Iniziavano così presto perché era una estate caldissima e cercavano di utilizzare le ore più fresche della giornata.
Forse anche per questa esperienza di comune, sebbene diversa, fatica, che lui la pensò sempre come Antonio Gramsci ( Quaderni dal carcere; quaderno 12): ” occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”
Non si pentì mai, comunque, di esser passato per quel duro percorso formativo; anzi ne era orgoglioso.
Scuola dura, selettiva, autoritaria.
Però, altro che inutilità! Per questo più tardi decise di laurearsi con una tesi in diritto romano, come ultimo atto di estrema ribellione obliqua e di affermazione della assoluta utilità dell’inutile apparente.
“Il latino non si studia per imparare a parlare in latino, ma per imparare a studiare.” E’ancora Antonio Gramsci che ci guida sulla strada della corretta comprensione delle cose.
Le ragazze portavano tutte un grembiule nero, lungo, oltre le ginocchia. Niente gambe da vedere. Non se ne parlava proprio. Qualche sbirciatina sopra il ginocchio. Era il dominio della fantasia.
Pochi alunni, una cerchia ristretta. Un po’ di borghesia di provincia.
Figli di professionisti e imprenditori. Per questo lui, che non era figlio né degli uni né degli altri, ma di un povero “travet” monoreddito, continuò a sentirsi un po’ obliquo, mai pienamente integrato
.Lui studiava con fatica. Poca voglia. Grandi “remate”, come si diceva allora, per tenere a galla la barca.
Ma se la cavò sempre.
La prof. di lettere del ginnasio era una brava insegnante, ma troppo esigente. Giovane, rossi i capelli, molto preparata. In quei due anni lo fece molto soffrire, gli cavò l’anima. Non la dimenticò mai più.
Forse se ne era persino invaghito, una specie di sindrome di Stoccolma.
Fu lei a guidarlo nelle prime letture. “Il giovane Holden”, ” Il sentiero dei nidi di ragno”, “ una questione privata” e poi ancora, più avanti,”Il partigiano Johnny”,con la struggente melodia, dentro la mente e nel cuore di ” Moonlight Serenade ”.L’anglofono Fenoglio e la letteratura americana.”La casa in collina,”Il compagno”,”Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Cesare Pavese, Come dimenticare tutto questo,Mai più si dimentica, mai più.
Quando hai sedici anni queste prime esperienze ti aiutano a comprendere che esistono modi di vedere le cose che sono diversi.
Ti si apre la testa e capisci che non sarà più possibile fermarsi per sempre lì, tra il catrame borghese dei luoghi comuni che ti stanno ogni giorno d’intorno.
Ci si divertiva anche, però.
Lunedì pomeriggio. Il solito rigido inverno. Il freddo pungente arrossava le gote. Cappotti,sciarpe , guanti e scarnebbia.
Niente storia dell’arte quest’oggi. Si salta tutti la scuola.
L’Angelo, il Gianni, il Momo, il Gino, Giovanni Edonè, l’Albertone , così grande e grosso e lui “il biondo”, di buon passo, ingobbiti in se stessi per il gelo che c’era, alle tre, quindici per esser precisi, si era già lì, seduti in platea, a vedere un film scollacciato nella spasmodica attesa della rivista che poi sarebbe iniziata.
Solo loro e qualche barbiere, che il lunedì chiudeva bottega: questo era il pubblico.
Le ballerine finalmente sfilavano in passerella con le gambe un po’ troppo cicciotte, le calze a rete smagliate qua e là ed i seni da balia. L’Albertone, in piedi, con le braccia allargate, gridava: ” Divine!” Poi lanciava sul palco il mazzo di fiori che aveva comprato come omaggio alla loro avvenenza. Qualche risata, qualche “darsi di gomito”, niente di più succedeva in quei lunedì trasgressivi, pieni solo di vita, di illusioni e di voglie.
“Vieni fuori carino!” gli disse la prof. di chimica e scienze, quel mercoledì delle ceneri. “No che non esco. Ieri era festa, sono andato a ballare al teatro Cagnoni. Il martedì grasso si balla, non si studia. Lei non mi deve chiamare oggi, no che non esco!.” “Allora ti prenderai un bel tre”. “Non è giusto” protestò inutilmente. “Lei è solo cattiva con me!”. “Vattene” disse “esci di qui, sii più rispettoso”. Così se ne andò a fumare nel “cesso”, lì fumavano tutti e, dopo l’intervallo, se si apriva quella porta di legno, uscivano grandi nuvole bianche .
Aspettò che quell’ora finisse. Ecco, lui era così: era, a suo modo, un ribelle, un pacato ribelle; non gridava, non litigava, ma non accettava imposizioni di alcun genere. Semplicemente disubbidiva.
Ecco restò sempre così, di traverso alle regole, nemico delle gerarchie e dovunque poi si trovasse nella vita, non ebbe padroni. Mai. Era obliquo davvero, ecco cos’era.
Gli cadde addosso così, d’improvviso, quel caldissimo luglio del ’65.
Finito anche quell’anno di scuola, ancora stordito dalle fatiche di studio, imbevuto dei miti che gli avevan spiegato, immerso negli omerici esametri, non gli uscivano ancora di mente i fulgidi versi dell’addio straziante di Andromaca a Ettore.
” Ma di gran pianto Andromaca bagnata
accostossi al marito e per la mano
stringendolo e per nome in dolce suono
chiamandolo proruppe- oh troppo
ardito! Il tuo valor ti perderà
nessuna pietà del figlio e di me
tu senti.”-
E poi Ulisse, che se ne va sulle onde del mare a cercare di sapere sempre di più, divenne un compagno di sogni. Gli rimase quel vizio di andare a vedere le cose del mondo.
Mediterraneo dolente ora come allora. Dalla guerra di Troia,a Cartagine debellata, da Enea profugo fuggente dalla città di Troia in medio oriente alla Siria insanguinata. Odissee dolorose e permanenti.
Ma in quel luglio bollente, estive vacanze di fuoco, restava loro, negli occhi stupiti, la voglia dei baci, mille e poi mille di Lesbia e Catullo e fu così che tanti se ne scambiarono, di baci d’amore.
Lui, novello James Dean dagli occhi celesti, lei giovane donna dal nome spagnolo, grandi le mani ed il cuore possente.
Loro scendevano giù, verso il fiume Ticino, inforcando, veloci, le bici e, nell’attesa, già cominciava il piacere, consumato più volte fino a non farcela più sulla spiaggia di sabbia che si era formata e, poi, via, a bagnare nell’acqua quei corpi spossati. E poter quindi fumare e tutto aspirare quell’acre sapore che il fumo produce.
Quella sera lui aspettò. Lei si calò giù dal balcone di casa, sulla bici andarono a passare la notte da lui.
Se ne tornò che era l’alba, non c’era nessuno, l’afa ancora non era passata. Si sentiva padrone del mondo, come Achille che, vincitore, rientra alla tenda dopo uno scontro guerriero.
Aveva il futuro davanti.
Infine andava a sedersi nel niente del bar, in piazza Ducale, all’Haiti, dove c’erano tutti.
I cinque anni stupendi finirono lì , 23 luglio 1965 e Gimondi vinse il giro di Francia. A Milano, al Vigorelli, i Beatles facevano l loro primo concerto in Italia.Tra poco il mondo sarebbe cambiato.
Queste cose gli affollavano confuse la mente in quel giorno di merda, mentre usciva da quel cimitero,avendo perduto per sempre la compagnia di un amico, un fratello di vita.
Già scarnebbiava. L’autunno inoltrato il crepuscolo già aveva anticipato. La piazza era vuota di gente e lui restò solo nella nebbia incombente. A lui piaceva così, senza niente. Ogni colonna,ormai, gli diceva qualcosa,gli raccontava qualche storia felice o dolorosa.
Ora veramente capiva che la piazza era vuota di tutto,non sapeva più con chi parlare, con chi litigare, ridere o sognare.
Rimasto recluso nella sua solitudine, era lui stesso diventato scarnebbia vivente,sopravvissuto in una bolla di niente.
Ormai, pensò, andata se ne era la vita, tra gioie e dolori strazianti, neppure c’era più quell’acre sapore di fumo, rimasto anche quello un ricordo, come quel luglio di afa cocente, per lui che lo visse felice.
E’ andata così, si disse, come per tutti, senza che si riesca a capire nemmeno il perché.
LONTANO
Ora tu non potrai mai dimenticarti di me
neppure sotto gli sfavilii
delle calde notti di mare.
La voce profonda è penetrata nel cuore,
torna e ritorna a sentirsi lontana
tra i rumori di fondo delle notti di luna,
sussurra alla mente distratta
dai giochi d’estate
le più dolci parole d’amore.
Negli occhi vivaci
che traguardano il sole morire lontano
nel rosso tramonto
entreranno i miei occhi colorati
del blu del cielo profondo.
Nè potrai ricacciare la voce,
allontanare lo sguardo.
Sono entrato senza bussare
nella vita gettando scompiglio
con timidi passi di cui vedi però,
seppur di lontano,sulla spiaggia di sabbia
le orme profonde
inutilmente spazzate via dalle onde
tracce di un’anima indomita e sola.
Cacciato, riappaio
in un pertugio della memoria
e non c’è nulla da fare
tu non mi potrai più dimenticare,
neppure quando sarò cenere sparsa
nelle acque del fiume
e getterai un fiore
in memoria perenne d’amore.
Allora entrerò dentro ai sogni
nei tuoi caldi solstizi d’estate
per sollevarti dal peso
di ogni dolore.
VISIONI
Vedo tegole rosse
di tetti slabbrati
segnare il confine.
Oltre il limite
si infila il pensiero,
tra le umide case
diventa più vero,
alle infinite domande
risponde sincero.
Nell’impallidito sole
di una tarda mattina
mi inseguono strani presagi.
E’ compagno il profumo dei fiori.
Aspetto un altro domani,
che trascini con sé
i miei nuovi dolori.
GIOVINEZZA
Tu non sai
quanto tempo
è dovuto passare,
quante fatiche
ho dovuto affrontare
per poter infine conquistare
questa mia giovinezza.
Ora finalmente ho
un grande futuro alle spalle.
Mi hai regalato un sorriso
e si è illuminato il mio viso.
Ho intrapreso sentieri ignorati,
visitato villaggi sperduti,
un veliero mi ha portato,
tra tempeste e marosi, lontano
in un oceano bruciato dal sole.
Nella notte sbiancata da luci stellari,
calma , senza vento, sulla tolda
ho udito il fruscio delle onde
ferire il cupo silenzio del niente
e veduto quella falce di luna calare
nel profondo del mare.
Sei arrivata di colpo così
mia agognata gioventù
a stringermi tanto forte
da non potermi lasciare mai più.
MALINCONIA
Tristo percorso incamminato
solo e desolato.
Colore dei pensieri
abbandonati nei sentieri
della vita fuggita.
Ti sei allontanata,
nel mio tramonto svanita.
Tiepide serate dimenticate .
L’assenza profuma di mancanza.
LA QUERCIA
Arrivato accaldato
dopo aver camminato
sotto il sole infiammato
di un agosto bollente
si sentiva ormai vuoto di mente.
Si sedette così all’ombra
di un albero grande
al riparo dall’afa incombente
a riposare il suo corpo dolente.
Gli passava la vita davanti,
come un film,ma senza colori.
Le sere passate al chiaro di luna
a stringersi forte le mani
a contare le stelle una ad una
a sperare nel loro domani.
Vedeva sfilare i dolori,
i rifiuti, gli abbandoni, gli amori,
le lotte, le tante sconfitte,
tutto quel briciolo infinito
che fu la sua vita
e che ora sentiva finita.
Si era alzato un venticello lieve
a rinfrescarlo dalla calura
mentre si avvicinava la sera,
ma non riusciva più ad alzarsi
e sotto le fronde dovette fermarsi
di quell’albero grande,
piccolo uomo insignificante,
solo nell’abbandono del mondo,
minuscolo neo nell’universo
capitato senza sapere perchè
in questo stravagante girotondo.
Si assopì così, stanco e dolorante
in un turbinio di niente.
Il buio intanto era sceso di una notte afosa
e a lui parve di sentire
un profumo di rosa.
Poi restò solo il buio.
Lo trovarono due giorni più tardi
tre ragazzi giocando al pallone.
Era lì, dove si era fermato,
sembrava addormentato,
ma ormai era volato
tra le galassie da cui era venuto.
ABBANDONI
Passeggiate lente
sotto il sole cocente.
Mano abbandonata,
cielo blu lungo il canale,
di colpo hai smesso di parlare.
Ritorno solitario.
Mi sono perduto con il cuore
strappato dal dolore.
ISTANTI
Piccola nuvola bianca
che scivoli stanca
in quel cielo d’azzurro
che somiglia ad un mare,
ti guardo volare.
Finestra quadrata
che accompagni
lo sguardo lontano
mentre cerco di nuovo la mano.
Sento ancora il profumo
di un rosa fiorita.
Residui d’una vita
che è quasi finita.
Ricordi
Brezza leggera
di primavera,
fiori gialli infoltiti
sul mio terrazzo
improvvisato
apparsi
tra ancora stentati germogli
dei fidati gelsomini.
Ricordi bambini
di un altro terrazzo indimenticato
a cercare limoni
nel grande vaso abbandonato
in un angolo di sole
dalla memoria ingigantito.
Ma Eros non lascia il cuore
compagno di sempre
ancora stravolge la mente
indomito, indecente
in questo corpo stancato
da tutto il tempo che è passato.
E’ lì come sempre,
gentilmente feroce, invadente
a scuotere i nervi
per farmi sentire ancora
questa brezza leggera
di primavera.
LA QUERCIA
Arrivato accaldato
dopo aver camminato
sotto il sole infiammato
di un agosto bollente
si sentiva ormai vuoto di mente.
Si sedette così all’ombra
di un albero grande
al riparo dall’afa incombente
a riposare il suo corpo dolente.
Gli passava la vita davanti,
come un film,ma senza colori.
Le sere passate al chiaro di luna
a stringersi forte le mani
a contare le stelle una ad una
a sperare nel loro domani.
Vedeva sfilare i dolori,
i rifiuti, gli abbandoni, gli amori,
le lotte, le tante sconfitte,
tutto quel briciolo infinito
che fu la sua vita
e che ora sentiva finita.
Si era alzato intanto
un venticello lieve
a rinfrescarlo dalla calura
mentre si avvicinava la sera,
ma non riusciva più ad alzarsi
e sotto le fronde dovette fermarsi
di quell’albero grande,
piccolo uomo insignificante,
solo nell’abbandono del mondo,
minuscolo neo nell’universo
capitato senza sapere perchè
in questo stravagante girotondo.
Si assopì così, stanco e dolorante
in un turbinio di niente.
Il buio intanto era sceso di una notte afosa
e a lui parve di sentire
un profumo di rosa.
Poi restò solo il buio.
Lo trovarono due giorni più tardi
tre ragazzi giocando al pallone.
Era lì, dove si era fermato,
sembrava addormentato,
ma ormai era volato
tra le galassie da cui era venuto.
LONTANO
Ora tu non potrai mai dimenticarti di me
neppure sotto gli sfavili
delle calde notti di mare.
La voce profonda è penetrata nel cuore,
torna e ritorna a sentirsi lontana
tra i rumori di fondo delle notti di luna,
sussurra alla mente distratta
dai giochi d’estate
le più dolci parole d’amore.
Negli occhi vivaci
che traguardano il sole morire lontano
nel rosso tramonto
entreranno i miei occhi colorati
del blu del cielo profondo.
Nè potrai ricacciare la voce,
allontanare lo sguardo.
Sono entrato senza bussare
nella vita gettando scompiglio
con timidi passi di cui vedi però,
seppur di lontano,sulla spiaggia di sabbia
le orme profonde
inutilmente spazzate via dalle onde
tracce di un’anima indomita e sola.
Cacciato, riappaio
in un pertugio della memoria
e non c’è nulla da fare
tu non mi potrai più dimenticare,
neppure quando sarò cenere sparsa
nelle acque del fiume
e getterai un fiore
in memoria perenne d’amore.
Allora entrerò dentro ai sogni
nei tuoi caldi solstizi d’estate
per sollevarti dal peso
di ogni dolore.
SERENATA
MATTINE
IMPROPRIE
SEGUONO NOTTI INSONNI
DOLCI RICORDI SI AFFOLLANO IN MENTE
RESTI TU SOLAMENTE
TI CURERO’ L’ANIMA DA OGNI AFFANNO
PORTERO’ VIA CON ME OGNI TUO MALANNO
TI LASCERO’ VOLARE LEGGERA
TRA LE BRACCIA DEI SOGNI
BACIANDOTI UN LOBO
PER LASCIARE IL MONDO DI FUORI.
L’ISOLA SENZA MARE.
Scorreva la canoa sopra la corrente azzurra del fiume. Il cielo splendeva celeste nell’afa di agosto.
Filava veloce sull’acqua fresca e trasparente, a vedere i sassi sul fondo.
Lo zio più grande manovrava il timone, guidato coi piedi.
L’altro, dietro, seguiva la rotta.
Pagaiate profonde si susseguivano svelte.
Parole tra loro scambiate in dialetto ad evitare i tranelli del fiume di cui conoscevano bene le correnti ed i gorghi bugiardi.
Sebbene istruiti, il più vecchio, dottore in chimica pura, ed il secondo che aveva fatto il ginnasio, discorrevano sempre usando il dialetto specie per indicarsi la via da seguire in quel fiume tanto amato, ma anche insidioso.
Gran nuotatori entrambi d’acqua dolce.
Il più grande poteva restare ore nel cuore dell’acqua corrente fermo senza andare nè avanti nè indietro. Non riusciva ad avanzare, vincendone la forza, ma neppure il fiume lo spingeva all’indietro. Restava lì, cosi’, finchè si stufava e faceva spettacolo.
Ma anche l’altro era un gran nuotatore.
Da bambino vedi tutto più grande.
A me il fiume Ticino sembrava gigante.
Seduto al centro tra loro mi sentivo tranquillo e sicuro e non riuscivo a trattenere la mia fantasia.
Giocavo, giocavo da solo a fare il pirata.
Si infilava, a risalire la corrente, un ramo laterale dell’alveo principale.
Si entrava così in un mondo nuovo,diverso. Lì l’acqua si faceva più calma, quasi serena. Si avanzava tra una fitta boscaglia, alberi grandi, querce e pioppi, roveti e fogliame.
Andatura lenta, che serviva a pensare. Aspettavo lo spuntare di Sandokan arrivare da dietro la curva. Il fruscio delle foglie mi pareva il rumore sommerso dell’appostarsi dei tigrotti della Malesia. Il Ticino mi sembrava il MeKong.
Ero lì tra le acque del mio fiume natio, ma credevo d’esser tra le paludi insidiose dell’Indocina.
Il sole filtrava tra il fogliame ed i rami degli alberi che smorzavano un po’ la sua forza e riluceva nell’acqua a illuminarla di riflessi dorati.
Gli zii vogavano per ore senza apparente fatica e m’avevano messo in testa un cappello per ripararmi dal sole.
Per lo più si stava in silenzio, si ascoltava il rumore del mondo, il soffio del’aria che la nostra andatura muoveva. Non occorreva parlare, avrebbe rovinato la magia del rumoroso silenzio del fiume.
Si arrivava così, poco a poco, alla spiaggia di sabbia che stava più in là, nascosta in un’ansa che si era formata, dove il fiume diventava tranquillo,pacificamente placando le sue correnti.
Dunque solo sabbia e qualche raro cespuglio di ginestre dai fiori gialli.
Ora potevamo fermarci. La canoa si trascinava sulla riva del fiume, posata sopra la fine sabbia bianca. Si poteva prendere il sole che, senza alberi intorno, arrivava più forte e diretto. Faceva anche caldo ed in quel punto mi era permesso di fare il bagno perché si era formata una naturale piscina di acqua tranquilla e poco profonda.
“Entra pure in acqua” mi diceva lo zio più grande. “Qui il bagno lo puoi fare, non ci sono pericoli.” Mi buttavo così alla meglio, senza badare allo stile perché ancora tentavo di galleggiare soltanto. Grandi inutili spruzzi tutt’intorno. Avanzavo poco e quando mi pareva di non farcela più mettevo in terra i miei piedi e mi davo nuovo lo slancio. Non era fredda l’acqua. Fresca, questo si. Pareva limpida alla vista. Non a caso, il fiume Ticino, era chiamato il “fiume azzurro” perché il cielo blu rifletteva nelle acque trasparenti il suo colore celeste. Lo zio più giovane, nell’attesa,
prendeva il sole e fumava. Quando era n vena, raccontava di sé, della sua gioventù consumata in un campo di concentramento tedesco,degli orrori e delle paure subite. Aveva imparato anche un po’ a parlare tedesco. Bombardamenti a tappeto, fughe, nascondimenti per salvarsi la vita e poi la fame, fame tremenda. Non era poi nemmeno passato tanto tempo dalla fine del buio della notte fascista. Loro erano antifascisti, mi insegnarono a nuotare nel fiume e nella vita, controcorrente, ad amare sopra ogni cosa la mia libertà, a star lontano dai luoghi comuni, a viver fuori dal coro, a non ubbidire ed a non omologarmi, mi insegnarono l’obliquità,questo mio essere obliquo che ha segnato l’intera mia vita. La ragione, la scienza, lo studio, la passione dei viaggi come via della conoscenza. Forse erano anche un po’ stalinisti, nonostante tutto. Dai loro emozionati racconti prorompeva ancora vivida la memoria della rotta nazista e dell’esercito sovietico ad inseguirli in fuga per mezza Europa, liberando dai campi di sterminio nazisti, ebrei, comunisti, omosessuali e sinti consumati da un orrore contro l’umanità, fino a liberare Berlino da quel delirio omicida. Così erano i miei zii ed amavano il fiume ed ad andare in canoa.
“Esci di lì,basta con l’acqua. Ora ci scaldiamo ed asciughiamo col sole.”.
Sdraiato sulla sabbia, ecco che in un istante uscivo dalla visione delle paludi dell’Indocina ed ,di colpo, entravo su di una bianca spiaggia del mar dei Caraibi.
Dal fondo della canoa estraevano un piccolo zaino con la merenda. L’acqua da bere non mancava: era lì. Sotto la sabbia. Si scavava una piccola buca con le mani ed essa scaturiva fresca e leggera, sorgente dal fondo della terra.
Un poco più lontano, laggiù, il fiume lasciava emergere la vista di un isolotto di ciotoli e sassi. C’eran persone arrivate sin lì chissà come.
Facevano il bagno anche loro e prendevano il sole. Avevano costruito un riparo con canne e secco fogliame. Passavano il tempo e le loro vacanze.
Verso l’orizzonte, là in fondo il sole cominciava un poco a scendere. Ora l’afa e la calura si erano attenuate. I raggi si fecero meno aggressivi e, più lievi, lasciando margini d’ombra più larghi.
Bisognava tornare. Gli zii sospinsero di nuovo in acqua la canoa. Si risaliva. Come prima. Lo zio più grande a timonare ed indirizzare lo scafo, l’altro dietro ed io tra loro, in mezzo.
Con calma si usciva dal ramo di fiume, dalla sua boscaglia e dai suoi canneti verso l’alveo più grande, principale, nella vera rognosa corrente.
Si risaliva con fatica, pagaiate profonde e frequenti. Si procedeva piano,con attenzione.
Intanto si era fatto vivo il tramonto rossastro, in fondo allo sguardo le cime dei monti innevati in eterno che si stagliavano vive a far da corona, divenivano un più pallide, all’ombra.
Sul far della sera anche gli uccelli volan più bassi e ,sulle rive,si intravedevano ancora i pescatori, cui pure forse l’imbrunire giovava, che insistevano nel tentar la cattura di cavedani, savette, barbi o qualche raro disperso persico.
Si scolorava la luce,anche l’acqua cominciava a farsi nera.
Il giro in canoa sul fiume è finito.
Tutto finisce. Sono passati forse cinquant’anni. Gli zii,entrambi, se ne sono andati troppo presto. Volati via, chissà dove. Forse nel nero del niente. Ho proseguito da solo, cercando di stare nella via tracciata, razionale, coerente ed obliquo, come mi insegnarono loro, a tenere la barca diritta, a rispettare la forza e le insidie del fiume, controcorrente, senza farsi trascinare da essa, ma vincendola, infine.
Si portava la canoa nell’hangar- deposito, ci si rivestiva,si saliva in lambretta. Lo zio giovane davanti alla guida, l’altro dietro, io,bambino, in piedi dietro al manubrio.
Sono vecchio ora,più vecchio di loro quando mi lasciarono. I miei capelli sono bianchi, bianca è la mia barba ma la memoria è rimasta viva, non si dimenticano i maestri di vita.
Forse si sopravvive così, lasciando traccia di sé,facendoci amare.
Dal ponte sul fiume si vede l’intero suo percorso, da monte sino in fondo alla valle, lontano.
Verso la città, osservando le cose un poco più in alto, essa mi appare abbracciata dal fiume che la protegge, ma la tiene in disparte. Ecco cos’è questa Vigevano, in cui mi sono asserragliato tutta la vita, è un ‘isola senza mare. E’ difficile uscirci, è difficile entrarci. Con una perla di rara bellezza nel centro del suo cuore, circondata però dal bituminoso catrame borghese da cui non si riesce a scrostare.
Nel rientro serale cominciava a farsi strada la luna che prendeva il posto del sole.
Resta il rimpianto ed un poco di malinconia .” Forse s’avessi io l’ale da volar su le nubi e noverar le stelle ad una ad una, più felice sarei,candida luna………”.
Caro compagno di studi, caro Leopardi struggente anche io non so dare risposte ai miei ricordi,alla mia vita, non sono riuscito a trovare il bandolo della matassa e dunque:
”Dimmi luna a che val
Al pastore la sua vita,
la vostra vita a voi?
Dimmi ove tende
Questo vagar mio breve?”
Ora che il traguardo si avvicina, non lo so.
Mi restano i ricordi.
J
Ricordo che c’era
della sabbia leggera.
Si prendeva la bici,
si scendeva felici.
Non c’era pensiero
che non fosse sincero.
Nel lontano passato
io ti rivedo incantato
e dentro al ricordo
mi figuro leggero
come fosse soltanto
un sogno o un incanto.
Mi rimane memoria
di quel tuo rosso costume
dai bottoni dorati
e del sapore dei tuoi baci salati.
MAGGIOLATA
Sole faticoso di maggio
ferito da nuvole cupe
nere di pioggia incipiente
tiepidamente accompagni
questa mia tarda mattinata di niente.
MAGIA
TI HO CERCATA LONTANO
TRA OCEANI E TERRE INFINITE.
MA TU ERI QUI
TRA I MIEI CAMPI DI RISI
NEI NOSTRI TEPORI DI
MAGGIO E SETTEMBRE,
ERI QUI AD ASPETTARE DA SEMPRE.
FORSE UN PO’ TARDI
E PIUTTOSTO ACCIACCATO
PERO’, ECCO, CHE INFINE SONO ARRIVATO.
ED ORA IL PENSIERO DI TE
SI E’ DAVVERO FERMATO,
PARTITO DAL CUORE
SI è’ INSEDIATO ALLA MENTEùE DA LI’ NON SI MUOVE PIU’ NIENTE.
NUBI
CORRONO VELOCI LE NUBI
NEL CIELO A COPRIRE LA LUNA
NEGANDO LA LUCE TRA NOI
SUBITO SCIVOLANO VIA PIU’ LONTANO
RIDONANDOCI QUEL SUO PALLIDO
SFMATO CHIARORE.
ALLORA MI CHIEDO DOVE TU SIA
IMPALPABILE MUSA
SCOMPARSA AL MIO SGUARDO,
INGANNATRICE DI CUORI
MI LASCIASTI SOLAMENTE TRISTEZZA E DOLORI.
MA, ECCO,LAGGIU’SALE L’ALBA
“DALLE DITA DI ROSA”
AD ILLUMINARE OGNI COSA
CHE IO POSSA RIVEDERE
QUELLA SCHIENA MERAVIGLIOSA
DA ABBRACCIARE E STRINGERE AL CUORE
MIO FATICOSO AMORE.
PIRATA
Il pirata dal bianco capello
È pronto a salpare verso un cielo più bello.
Scorza rocciosa, tenero cuore
non conosce la resa
di fronte al dolore.
Tra tempeste e procelle mantiene ferma la rotta,
la mente vivace e serena
sotto i cieli baciati di luna piena.
Accompagnami tu
In questo viaggio fatato
Dalle nevi dei monti
al blu del mio mare
a vere il tramonto lontano affacciare.
Capisci anche tu che
proprio non mi posso fermare
perché ancora ti devo baciare.
ROMA
ROMA LONTANA
ROMA PIOVOSA
ROMA FREDDA DI TRAMONTANA.
HO LASCIATO I RICORDI
DI PASSIONI ED ABBANDONI
SENZA TIMORI E SENZA SOLUZIONI
VESTIGIA DI STORIA
DENTRO LA MEMORIA.
SE CI FOSSI STATA
TI SARESTI INNAMORATA
E NON MI AVRESTI LASCIATO SOLO A CERCARTI
LUNGO I SALISCENDI DI PIAZZA NAVONA
E DAVANTI AL CARAVAGGIO
DI S. AGOSTINO.
AVRESTI ABBRACCIATO QUESTO NUOVO DESTINO
DENTRO UN BACIO INFINITO
CHE NON AVREBBE PIU’ POTUTO ESSERE SFUGGITO
SONO SICURO CHE SARESTI STATA FELICE
DI INCROCIARE IL CAMMINO
DENTRO UN CUORE
CHE ASPETTA SOLO UN CENNO D’AMORE.
SERENATA
MATTINE IMPROPRIE
SEGUONO NOTTI INSONNI
DOLCI RICORDI SI AFFOLLANO IN MENTE
RESTI TU SOLAMENTE
TI CURERO’ L’ANIMA DA OGNI AFFANNO
PORTERO’ VIA CON ME OGNI TUO MALANNO
TI LASCERO’ VOLARE LEGGERA
TRA LE BRACCIA DEI SOGNI
BACIANDOTI UN LOBO
PER LASCIARE IL MONDO DI FUORI.
PRIMAVERA
Talvolta mi manchi,
mi manchi come la primavera,
mi manchi come il tepore della sera,
come il profumo dei ciliegi in fiore,
mi manchi perché sei il mio amore.
Talvolta mi manchi,
mi manchi come la fragranza
delle viole e delle rose,
come l’essenza delle mimose.
Come il pallido sole all’imbrunire
quando il giorno sta per scomparire.
Talvolta mi manchi
come mi manca l’arrivo della primavera
con la sua brezza dolce e sincera.
Mi manchi perché come la primavera
tu hai segnato il ritorno
di una nuova vita vera.
TICINO
Il fiume accarezza la città
scorre le sue anse sinuose
tra boschi di foglie prosperose,
t’abbraccia come a stringerti forte
a non voler lasciarti andare lontano
e ti fa intravedere
laggiù, laggiù in fondo al piano
lungo la linea dell’orizzonte
la cima nevosa del monte.
Nella spiaggia soffice e sabbiosa
s’è consumata molta parte della mia gioia amorosa.
Ho amato,fanciullo innamorato.
Nelle sue acque limpide e fresche
il mio giovane corpo mi sono bagnato.
E il fiume ancora va
scivola ancora via,
quante acque sotto il ponte della ferrovia.