Carmen Fioriti - Poesie

Dov’è finito il medico di famiglia.

Il medico di famiglia è ormai soltanto più un ricordo lontano, un professionista estinto a cui si è sostituito il “medico farmaco”. Dov’è finito colui che trascorreva il suo tempo nel suo piccolo studiolo circondato di armadi vecchi, da un lettino ricoperto di lenzuolo di tela, di sedie scomode, di armadioli in vetro con ogni sorta di medicine, al cui interno si intravedeva quella vecchia scatola in alluminio dove vi era riposta la terribile siringa in vetro che tanto terrore incuteva? Dov’è finita quella sala di attesa piena di Signore e Signori e piccirilli pronti a raccontare ogni sorta di storia che potesse dare un senso ai propri mali o presunti tali? Ma soprattutto dov’è finito quell’uomo sul quale tanto riponevi le tue speranze e affidavi il tuo corpo e i tuoi malanni con tanta fiducia? Lo ritroviamo ormai soltanto nei romanzi, nei giornali di un tempo, o in qualche ambulatorio prossimo alla chiusura, o ancora in qualche studio privato, con i capelli che ormai sembrano intrisi di candeggina, tanto risultano bianchi, con il viso e le mani piene di rughe che sembrano grattugie, con il corpo piegato dagli anni, e con la mente rimasta a quei lontani anni di studio. Dov’è colui che con tanta pazienza ascoltava i tuoi racconti, le tue distrazioni, le tue manie, le tue indisposizioni, le tue incertezze, e che con la sua alta professionalità penetrava nella tua psiche per carpire e soprattutto capire da donde provenisse il tuo malessere, i tuoi dolori, cercando di porre in evidenza la causa di ogni tua disgrazia, la causa appunto, essenziale elemento per determinare una guarigione se non definitiva almeno parziale e rassicurante? Esiste sotto tutt’altra forma derivazione del tempo e della tecnologia, trasformazione del potere delle cause farmaceutiche e del potere commerciale, esiste sottomesso al giuramento del “Dio Denaro” perché il giuramento di Ippocrate è ormai obsoleto, inaccettabile, impraticabile. Anche le targhette sulle quali un tempo appariva l’iscrizione “Medico Condotto”tal dei tali sostituito poi dal “Medico di Famiglia” per effetto della legge 78; anni di rivoluzione sociale che tanto di rivoluzione non hanno portato, anche queste si sono dileguate, disciolte, per essere oggi targhette dorate con le scritte più fantasiose ad effetto. Per non parlare poi delle carte intestate, che oggi occupano praticamente metà del foglio, dove si racconta più delle insigne dello specialista a cui ti sei affidato, che della tua diagnosi, ridotta ad un osso insignificante. Dov’è colui che con la sua professionalità, amava perdutamente il suo lavoro, ti testava, ti guardava, ti osservava, ti controllava da capo a piedi anche se avevi un mal di gola o un mal di orecchi, ti ascoltava e ti ascoltava ancora, cercando di intendere la tua vita quotidiana, i tuoi pensieri, i tuoi problemi, i tuoi dispiaceri, le tue frustrazioni per determinare donde provenisse il tuo vero o presunto male? Ascoltava ogni minuzia, ti conosceva da quanto eri bambino, faceva parte della tua vita privata e famigliare, tanto che ne accettavi ogni sentenza ti fosse pronunciata, conosceva tua madre e tuo padre, i tuoi fratelli e sorelle se avevi la fortuna di averne, tua nonna e tuo nonno, perché a quel tempo era possibile ancora avere dei nonni. Anch’essi ormai razza quasi estinta. Ti frammentava, ti studiava, ti analizzava in ogni particella e di te sapeva più lui che tu di te stesso. Tutto si è perso, perché oggi l’evoluzione ha portato miglioramenti tali, tanto che i giornali e giornaletti ne sono pieni, tanto che ogni volta che guardi le notizie su internet ti stupisci e meravigli, tanto che in ogni luogo che frequenti, comprese le biblioteche, trovi ogni sorta di volantino che ti promette guarigioni miracolose per ogni problema piccolo o grande che ti attanaglia. Ma quando ti soffermi dentro questa estasi di illusioni, ti guardi attorno facendo roteare i tuoi occhi a destra e a sinistra, alzando all’inverosimile gli orecchi e ti chiedi e ti domandi, dov’è tutta questa soluzione, dove sono tutte queste scoperte, il tempo è passato così velocemente che non me ne sono accorto? Sono ormai già in un passato? Dove ho vissuto in questi anni?, perché il dolore io ce l’ho ancora, perché il mio star male è quotidiano, perché non ho ancora risolto il mio malanno? Forse non hai fatto caso che nel frattempo, mentre ti crogiolavi nel tuo malessere, mentre ti abbandonavi ad esso il tuo medico si è diviso, frazionato in tanti altri medici chiamati “specialisti”, ed ora non hai più a portata di mano colui che conosceva la tua storia famigliare, ma hai a disposizione

tanti piccoli dottori che per ogni parte del tuo corpo conosce ogni singolare frammento e, non è forse meraviglioso? Peccato che non conosce te, peccato che quanto ti rechi da un di loro, la prima cosa che ti volge davanti al naso è la sua parcella, esclusa la marca da bollo, che paghi sempre tu, e non solo stai male e sei costretto con poco piacere a farti visitare, a pagare un diritto costituzionale che ti spetta, ma ci devi anche pagare le tasse, perché lo stato non è in grado di darti cure e di porti nella condizione di ricevere anche un semplice aiuto. Ed è appunto che di fronte a tale eminenza, esponi i tuoi problemi, o meglio ci tenti, perché attento, nel quarto d’ora che hai a disposizione non puoi mica raccontargli quello che ti succede, non puoi mica ragguagliargli in tutto e per tutto quello che ti accade. E nel mentre tenti di dire una parola in più vieni subito stoppato, quasi il tuo interlocutore volesse mettere l’accento sul fatto che è lui colui che ha la sapienza e la saggezza, tu sei solo colui che ascolta. Ma non dovrebbe essere il contrario?, Non dovrebbe essere lo specialista ad ascoltare, a farti rilasciare le tue dichiarazioni, a chiederti cosa mangi, cosa bevi, se dormi, se sei sereno, se vivi tranquillamente, che lavoro svolgi, se fumi, se ti droghi e quant’altro per capire le cause del tuo star male? No, il tempo è denaro, si fa un rendiconto veloce, come un calcolo delle probabilità, tu sei un numero, la matematica è in tutto e vive di tutto, sono le statistiche a determinare perché stai male, quale sia il tuo dolore e l’intensità, quale sia la cura migliore, e soprattutto quale sia il farmaco necessario. Perchè altrimenti se trovassero la cura nello specifico della mia malattia chiamata comunemente “Emicrania Cronica”, (essendo appunto cronica cosa mi curo a fare), come potrebbero le cause farmaceutiche vendere tutti gli antidolorifici di cui il popolo ne fa un uso improprio? Come potrebbero i tanti moment, dopomoment, primamoment, i duramoment riempire i banchi delle farmacie? A proposito, i panettieri sono spariti, i lattai si sono dissolti, i negozi con le insegne “commestibili, sono stati seppelliti, ed al loro posto si ergono con una illuminazione natalizia permanente, l’insegna imponente della croce verde, blu, rossa, della mitica ed essenziale farmacia. In alcune città d’arte ce ne sono a quantità smisurata, la spesa ormai non si fa più dal bottegaio ed anche nei supermercati ci sono le corsie piene di farmaci così detti da banco. Ippocrate, dove sei? Cosa penserai di questi specialisti studiosi che si riempiono la bocca di numeri, di calcoli, ma soprattutto di quanto il loro nome possa avere valore, mentre tu povero uomo, che cerchi soluzioni per il tuo dolore sei costretto unicamente a rassegnarti che cure non hai? L’importante è, che in TV stasera ci sia il Grande Fratello!


Il giorno in Ospedale

Apro gli occhi 7B giro gli occhi sul lato destro 7A volto la testa 7D, sopra di me 7C. Non è un gioco dell’oca dove saltelli con una paperotta in mano e lanci un dado. No, non sono numeri dei box dove si trovano cavalli di razza prima di una gara. Sono dei letti bianchi, tutt’intorno colori tenui scoloriti, un arancio pallido, un verde pallido, un grigio pallido, una sedia pallida. Un bancone pallido dove alcune donne che indossano anch’esse un camice verde pallido, starnazzano senza darti pace. Sembrano papere in uno stagno che sguazzano a destra e a sinistra, cercando di rubarsi un pezzo di pane, lanciato da una persona generosa. Una stanza di ospedale, con 4 lettere, le prime dell’alfabeto, e lo stesso numero delinea la degenza di altrettanto 4 numeri, persone ignote con i propri dolori, anch’essi ignoti, in attesa di essere smascherati. Un luogo asciutto, in tutti i sensi, dove il dialogo non esiste, il medico ogni giorno propone il suo monologo e non appena accenni con la testa ad esporti sopra il letto, questi ti volta le spalle e si dirige, per esibirsi in un altro monologo, in un altra stanza, con altri 4 numeri, e persone ignote con dolori ignoti. A volte l’odore del fumo che raggiunge la stanza, ringalluzzisce il corpo che flaccido e perso affonda nel letto da giorni, facendoti illudere che ti trovi in un vecchio bar a mangiarti qualcosa di sfizioso. A volte invece non lo sopporti perché il dolore è così forte che ti sembra di essere finito in una camera a gas di cui il tuo cervello non ne può immaginare neanche un angolo. E’ un ospedale questo, dove mi trovo, con gente che grida, che chiede aiuto, che si approfitta, che muore nella solitudine. A colazione, a pranzo e cena, vengono decantati tutti questi numeri a cui è associato un vassoio, dove un cibo ordinato il giorno prima ti viene servito scondito e talmente scotto che avere i denti e non averli non fa differenza. Così come non fa differenza se sei stanco e cerchi di dormire ma non puoi perché alle 5,30 del mattino ti fanno il prelievo. Ritenti con entusiasmo, ma solo mezz’ora dopo sei costretto ad alzarti perché ti rifanno il letto. Riprovi questa volta in un sordo silenzio e con movimenti così lenti da non provocare nessun rumore, come se avessi rubato qualcosa e ti tocca nasconderti, a rinfilarti nel letto. Non lo sai ancora, in agguato arriva l’aggeggio che non serve a spaccarti i timpani, come sembra, ma a rilevarti la febbre, l’accompagna lo stritola braccia che invece ti rileva la pressione che, sia che risulti alta, sia che risulti bassa, la voce meccanica risponde: “ va bene”. E invece non va bene nulla perché avevo deciso di dormire, ne ho il diritto, sono malata e sono qui per essere curata. No, non mi spetta perché arriva la colazione, devi alzare lo schienale altrimenti ti rovesci tutto addosso. Finalmente ho la pancia piena di un liquido mezzo freddo, che chiamano te, che più che bene mi fa venire la nausea, ma in fondo mi dico, mi da un po’ di quelle energie che qualcuno o qualcosa mi ha portato via. Riabbasso lo schienale nella speranza che nessuno veda o senta e mi metta in punizione. Chiudo gli occhi e prego i sogni di venirmi incontro, ma una voce, in un solo balzo raggiunge il mio comodino e poggia con la delicatezza di una lastra d’acciaio, le pillole. Ad un mio cenno di consenso la voce soddisfatta si allontana. Colazione ingurgitata, pillole ingerite, percorso minato superato, questa volta ancora più speranzosa, mi metto con il corpo su un lato, ovviamente rivolto verso la finestra, la porta aperta, non è concesso chiuderla per via delle oche che starnazzano, ritento di prendere ciò che ormai è diventato un miraggio; sennonché un rumore di spazzoloni e spazzolette e due gigantesche anitre pronunciano un efferato buongiorno. Ma quale buongiorno, quello dei sogni che non mi avete concesso di fare? Così i tuoi occhi sempre più stanchi sono costretti a rimanere aperti per vigilare che la polvere, che ti viene distribuita in testa, non finisca anche nel tuo bicchiere e galleggi sull’acqua. Vorresti urlare ma non puoi, altrimenti nel catetere infilato nel braccio ti sparano in vena qualche veleno. Questa volta con determinazione minacciosa, espressa inconfutabilmente in volto, comodamente mi riposizione nel letto, inconsapevole che comincia l’orario delle visite mediche e volente o dolente ti

tocca ascoltare le disgrazie altrui, oltre agli odori altrui, ai versi altrui, alle russate altrui; ricomincia il monologo. Passa un ora che si può pensare di pace ma di pace non è ed arriva il pranzo. Mangi, disfatto, inerme. Tutto questo tempo e tutto questo spazio con un montacarichi parlante che per tutto il giorno ripete, con voce registrata quattro frasi, come i quattro numeri della mia stanza, di cui quella più insistente dice: “liberate la corsia”. Fine della via Crucis.


 Il Momento

Un momento nuovo
finalmente permane in me,
rinasce la voglia di sorridere
alla gente dai volti sconosciuti,
ridona l’allegria di sempre
che si riflette in un tagliacarte affilato.
L’amore è grande
il sentirsi amata
incita la vita
a ridarsi spinta.
Gli occhi guardano,
scrutano,
ammirano in maniera diversa,
più intensa,
più leggera,
più intonata,
la giornata.
E quel colore languido,
oscuro,
che offuscava tra il fumo di una sigaretta concitata
è svanito, per aver sentito, ciò che da tempo attendevi.
Nel profondo
speravi fosse così,
gioivi per questa tenera illusione,
ma era necessario sentirne le parole
ripeterle,
in tono più soave,
più ammirevole,
penetrabile.
Che gioia immensa aver saputo,
aver sentito,
che forse rappresentavi qualcosa di importante.


Dolcezza

Dolcezza sconfinata,
se ne va ogni volta,
ritorna,
sempre più insistente,
con l’eleganza di un sorriso incerto,
e vive di te.
Dolcezza sconfinata,
si appropria del mio respirto,
invade il pensiero,
riempie di gioia
questa insolita vita,
esplode in uno sguardo,
profondo,
incostante,
teneramente entusiasmante.


Ritratto

Due mani nelle mani,
gli occhi fermi ad osservarsi,
il desiderio di un bacio
represso,
espressione solo mentale.
Tutto si svolge in un attimo,
trascorso,
cosi velocemente da non poter concedere spazio sufficiente
per altre parole.
Il contorno:
l’asfalto,
ti porta lontano, così lontano da me.
La voglia di ritrovarti presto,
un arrivederci
per chissà quando.
Il ritorno
ai soliti colori,
quel paesaggio tinto di frattaglie di vita
mi sono famigliari,
mi ritrovo scaraventata
in quello che come sempre
diventa, un ricordo
dolcissimo.


La Casa Diroccata

Un muro diroccato,
una vecchia che piange,
un ricordo lontano,
una bomba caduta,
una vita distrutta.
Un meraviglioso pino
dominava il colle,
ricordava quei giochi proibiti,
ora che anche lui fa parte di un passato lontano.
Un tremolio,
un sasso scagliato,
una fotografia ingiallita.
Una giacca riposta in un armadio consumato,
abitato da cimici e tarme
che ingeriscono la vita
nella divisa di un colonnello.


Il bene perduto

Immagini, pensieri si elevano,
distaccandomi dal mondo.
Mi chiudo in quel vortice di silenzi accesi.
La testa brucia, le mani si perdono nel vuoto,
gli occhi si stringono in un gesto involontario.
L’attimo mi sfugge per comprendere,
lascio ogni parola dentro di me.
Si accascia l’incertezza,
diventando un macigno nero azzurro,
toglie il respiro che vorrei reprimere perché più veloce del battito del mio cuore.
Non oso guardare perché non voglio realmente capire
questo mondo circolare che non mi appartiene.
Non ha spigoli,
non ha diversità,
si racconta sempre uguale,
statico nel suo muoversi,
non diverte,
non emoziona.
Lascia solo un tempo inerte e disperato,
perché già passato.
Il non fare, il voler fare,
le mani che si stringono e percorrono la stessa linea,
senza farti cadere,
spazzando ogni lacrima possibile.
Non ho paure vivibili,
solo tanta malinconia, per un bene perso.


Il ballo della giornata

Il sorriso innocente che quotidianamente accompagna la giornata.
Una frenesia intrigante che muove e rimescola il tempo.
Una follia accecante che irrompe, ogni qualvolta, la solitudine si espande.
Un’ esplosiva voglia di lasciarsi andare verso mondi lontani,
il voler a tutti i costi sognare, per vivere qualcosa che ormai non c’è più.
Ed il pensiero inarrestabile ricerca continuamente un perché.
Il perché di tutto questo difficile vivere,
una ragione per ogni sacrificio iniziato e senza fine.
La ricerca per una forza perduta,
la voglia di un non so che, e questa irriducibile tristezza che non lascia assaporare
quel poco che di nuovo la vita offre.
Si, sembra ogni giorno il ripetersi di un altro,
uguale nella forma,
uguale nella misura,
uguale nei movimenti,
uguale nella monotonia.


La contrapposizione: Affetto e Amore

L’affetto è intrinseco all’Amore,
ti lega in maniera necessaria, senza condizioni, senza aspettative.
L’affetto utilizza la ragione, la pazienza, la sopportazione
facendosi carico dei sentimenti altrui.
L’affetto è a prescindere, ti accarezza, ti schiaffeggia , ti importuna.
L’affetto è legame, è qualcosa che ti porta verso l’alto,
che ti spinge verso l’altro.
Tutto, sempre, senza conseguenze.
L’amore è un’altra cosa e non va confusa con la passione,
l’amore è intellettuale, spirituale, energia attiva e invisibile;
ma nello stesso tempo l’amore è corpo.
Lo riconosci quanto ti senti strappare le viscere,
quando ti provoca dolore, quando non ti accorgi che è illusione, quanto ti trasporta
in un mondo che non è più tuo, quando perdi la capacità di concentrazione,
quando vedi l’altro come non è.
L’amore sono le notti insonni,
l’amore è egoismo, è non pensare all’altro, per la felicità propria,
l’amore è crudeltà è violenza, impazienza, incomprensione,
l’amore è tutto l’amore per la vita,
la cessione della propria.


Le luci della notte

Luci della notte che non cambiano,
non vendono un fiore immerso, che spalanca i suoi petali.
Ombre che si scambiano sorrisi, si guardano
scoprendo che non si assomigliano.
Luci che non cambiano, non vedono passi falsi
in quel via via di vita che non è per te.
Solo in un istante appare la gioia
che svanisce come un pallone bucato.
Sale al cielo, facendo perdere ogni traccia di se.
Luci della notte che appaiono,
disgregandosi in piccoli frammenti di cristallo roseo
che si stampano su di una antica pergamena.
Sono le luci delle mie lacrime notturne.