Chiara Delle Monache

Poesie


Dolce, soave, incantata.

Quanto soffre questo cuore per il futuro a lui obbligato.
Altro non c’è se non la disperazione: disperazione da ciò che circonda la nostra vita
tranne se quest’ultima è Natura.

Dolce, soave, incantata è colei cui ho donato la mia beltà di vita;
colei, che in un albeggiato risveglio vedo stendersi tra nebbia e sospiri a me ormai cari.

Natura, così ricolma d’emozioni,
dai a me il conforto come di un’empatia dagli altri mai avuta.

Sdraiata sul tuo manto erboso, affacciata a quelle montagne di color verde freddo…
come se anch’esse provassero la mia tristezza;
e con lo sguardo rivolto verso voi: stelle,
così apparentemente prive di grandezza ma maestose come solo voi potete essere.

Cielo stellato ancora privo della tua luna-piena
ma
che sempre essa tu accogli come una tomba accoglie la sua eterna salma…

Cielo che sovrasti la mia nuca, volgo a te ogni minimo pensiero
e la mia più totale ammirazione
in quel che in te è racchiuso;
in quel che in te è infinito.

Quando vago nei tuoi prolissi campi di erba ed alberi,
io mi sento in sintonia con quel silenzio così soave
che parla di cicale, di farfalle, di fruscii…

Altro posto non vorrei al di fuori del tuo immenso bosco.
Tendi a me il tuo braccio di questo Olivo a me caro come se nel tuo chinarti per il vento
che diverso è dal chinarsi a causa del vento
volgi a me il tuo aiuto, la tua ninfa e la tua stessa vita,
senza avere paure o timori da provare
se mai quel tuo braccio così forte e robusto,
potesse chinarsi verso me e spezzarsi…

…Spezzarsi con un suono che troppo somiglia allo struggersi per quella mia finta vita.

Lontano da te ho provato a destarmi ma mai sono riuscita davvero a farlo
fin quando i miei piedi nudi non hanno toccato il tuo freddo e bagnato sentiero.

Lì il mio corpo e la mia mente – che ancora tra braccia di Morfeo si contorcevano –
si sono come liberati a quella insopportabile morsa chiamata città.

Natura: conforto e balsamo per me; così infinitamente egregia è la tua stessa
esistenza
che mai potrò desiderare posto altrove se non tra le tue spoglie o fiorite braccia.

 


 

La Fine Di Un Uomo…

Lontana per sempre se ne andò
anche quell’ultima stella
in quell’ultima notte…

Ed io, sola e spaesata cercai un appiglio per non cadere
e nella prolissa oscurità
corsi per raggiungere la mia anima.

Quando d’un tratto,
un sussurro mi rapì il respiro…

E in quel momento solo il mio sangue strisciò nelle vene
e solo il silenzio potei udire.

Paralizzata da quella bellezza funerea
non potei far altro che cadere
tra quella moltitudine di foglie
ormai troppo esauste per restare appese ad un ramo.

E solo il mio sangue strisciò nelle vene
e solo quel silenzio potei udire
e solo la luna rimase a guardare,
rimase ad ascoltare con le sue orecchie tese,
l’animo di un Viandante
in autunno
che muore… 

 


 

La Morte Infinita

Nel 1873, in una notte di metà settembre,nei meandri di qualche campagna sperduta, nacque un bambino di nome Richard Steven Tuckson; figlio di due abitanti del posto. La madre, Veronika, si guadagnava  poche misere monete tessendo giorno e notte in una piccola bottega in città e suo padre, Christofer Steven Tuckson, lavorava come fabbro per cesoie delle pecore per quando la lana non fosse divenuta troppo pesante e la stagione troppo calda per quel loro manto.

Il piccolo Steven cresceva senza ricevere attenzioni perché i suoi genitori ripudiavano quel figlio che nulla aveva somigliante a quei due…
Le giornate passavano lente, senza amicizie con cui sfogare la sua infanzia e Steven divenne sempre più ostile verso il mondo, -verso coloro che ne facevano parte…- ma a lui stresso niente di tutto ciò causava tristezze o vuoti nella sua giovane esistenza tanto che gli unici amici e corrispondenti che aveva erano la sua voce, il suo udito, il vasto oliveto della collina che segnò la sua esistenza…

Erano ormai passati 14 anni da quando il fanciullo era venuto al mondo e da quando aveva iniziato le sue giornaliere passeggiate per colmare ogni suo vuoto là: in quei boschi, macchie o campagne che circondavano la sua casa, studiandone giorno dopo giorno ogni centimetro; ma quel che più conosceva era quel suo sacro oliveto dove trovava il vero balsamo per le sue membra e rimanendo sempre più esterrefatto, crebbe nello splendore di quell’infinita natura.

 Si convinse che nulla, al di fuori di quel verde suolo, si sarebbe dovuto avvicinare alla sua anima e giorno dopo giorno il ragazzo diveniva sempre più estraneo alla vita che continuava al di fuori del suo vero mondo…
tanto che tutti in quella famiglia ritenevano Steven preda di problemi mentali che lo avrebbero potuto portare presto alla pazzia ma a lui non interessava ciò che i familiari gli continuavano a ripetere e silenzioso rimaneva ad ogni loro preoccupazione. 

Quelle lamentele non durarono molto perché misteriosamente i genitori si ammalarono e morirono qualche mese dopo agonizzanti dal dolore lanciando imprecazione verso quel figlio che ritenevano colpevole. 

Restò impassibile a quella morte Steven e lui stesso se ne stupì ma le sue lunghe giornate vennero colmate nella contemplazione della vita dell’alba che nasceva e nelle notti che mai si rifiutavano di accogliere le stelle. Queste, avevano per Steven il vero significato dell’esistenza e non quella vacuità dove erano condannati tutti gli altri esseri che lui ripudiava.

Così, lontano da tutti, passava intere giornate e notti al piè di quel colle di olivi. Raramente, se ne restava a casa, ma quando lo faceva, si rifugiava nella sua stanza dove un immensa libreria coronava la parete di fronte il letto e studiava tutti i libri di occulto che nel corso degli anni era riuscito a scovare nelle grotte che sottostavano le case, le strade e l’intero paese o alcuni libri di noti scrittori di quel periodo. Si innamorò anche della geometria ma che presto lo portò alla sua morte… 

Lesse le cose più oscure ma che come calamite lo attiravano verso quell’ignoto e più leggeva, più si rendeva conto che forse lui avrebbe potuto creare un varco verso quei misteri affinché avesse potuto vedere lui stesso quello che per anni aveva desiderato… 

In quei libri, infiniti capitoli vi trovò anche sulle pratiche della radioestesia e in breve tempo fece pratica e riuscì nelle tecniche più ostili senza il minimo sforzo… Sapeva che lui avrebbe oltrepassato le barriere divine e scientifiche di cui il nostro cervello e la nostra psiche sono prigionieri per trovare quello che più avrebbe confortato le sue membra…

Erano le 5.36 del 25 Ottobre 1887 e la notte si stava dileguando per fare posto al giorno che già all’orizzonte faceva la sua entrata; e Steven, che come ogni giorno si era svegliato prima dell’alba, si era già incamminato verso il colle di olivi con la sua solitudine e dell’oppio che aveva trovato ai lati di quelle grotte ormai dimenticate per sempre.

Caricò la sua pipa ed iniziò la sua giornata.

Prese una boccata… la sua percezione iniziò a mutare. In quei momenti Steven si sentiva parte di quella natura, di quell’universo e di quelle stelle ancora in cielo che misteri ignoti nascondono dietro di sé. Erano quelli i momenti migliori perché tutto ciò che aveva appreso della radioestesia, quel che sapeva dell’occulto e la sua mente stessa, riuscivano ad oltrepassare delle piccole barriere umane e divine imposte nell’uomo sin dall’inizio dei suoi tempi.

Qualche notte più tardi, Steven decise di passeggiare nelle campagne dietro casa e si fermò su un masso confinante con l’abisso, si sdraiò e osservò quelle infinite stelle che il cielo sempre accoglie…

Prese il suo taccuino e annotò quello che per lui parlava all’animo:

“Come può questo mondo essere così infinitamente connesso con l’universo e l’Ignoto ma ai nostri miseri occhi e sensi, tutto ciò risulta distante anni luce?;

Deve esistere un momento, un metodo e un perfetto ordine di numeri e simboli che al momento opportuno, allo spirito che non con gli occhi ma con l’animo vede, si aprirà e finalmente ogni legge che per noi qui esiste, svanirà…”

Steven rimase sdraiato su quel masso per ore ed ore…

“E, mentre tutto attorno vi era silenzio, ad un certo punto le mie membra vennero come ipnotizzate da una strana forza che mi catturava: ora a destra… ora a sinistra… in continuo tumulto.

Non riuscivo a capire che cosa era quello strano essere senza materia che mi faceva vacillare; era come se i movimenti che compivo, non venivano da me ed io non riuscivo a destarmi da quell’incubo…

Credo passassero ore prima che ritornai cosciente e mi fermai d’improvviso capendo finalmente quello che stava succedendo…

Qualcosa da altrove stava risvegliando in me ogni più oscura memoria di quello che era il mio destino.”

Steven tornò a casa mentre nel cielo infinite lingue di fuoco facevano la loro entrata dopo quella notte mista ad alba, al di fuori di ogni concezione terrena.

Subito si rese conto che quello che qualche ora prima gli sembrava strano, ora cominciava a prendere sempre più significato e, se prima quella folle calamita lo aveva come portato in un’altra dimensione terrorizzandolo, ora, cercava tra centinaia di fogli su quei suoi libri, un modo per riportar le sue membra in quello stato di trance… anche se mai avrebbe immaginato di raggiungere quella dimensione ultraterrena.

Si assopì tra tutti quei testi e pensieri, e, non appena si addormentò, una visione – più che un sogno- si presentò nella sua mente. Strani esseri urlanti lo chiamavano a sé persuadendolo con le loro strane parole di una lingua mai conosciuta sin dai tempi Antichi. Gli rivelarono ogni loro intenzione di accoglierlo tra quel popolo solo se lui fosse riuscito a raggiungerli… Improvvisamente un urlo da quegli esseri si alzò all’unisono e Steven, come paralizzato, riuscì solo a destarsi da quella strana visione che lo aveva catturato per un’ora soltanto anche se a lui sembrò un’eternita…

Ogni volta che era sveglio e cosciente, cercava il più possibile di evadere dalla realtà che lui non sentiva sua e capì di voler far davvero parte di quella civiltà – se così può essere definita- che proliferava di misteri e cose ignote.

Capì che tutto quello che avrebbe voluto in quella sua tormentata esistenza, era di non farne parte e iniziò a cercare nei più remoti luoghi attorno a quella che era la casa in cui viveva a nel suo vasto oliveto, un punto in cui avrebbe potuto evadere attraverso un portale che solo lui avrebbe potuto creare ed aprire…

Un giorno, mentre passeggiava, vide in lontananza tre olivi cresciuti in modo da formare un triangolo perfetto: subito sentì come una specie di attrazione verso quel luogo… un’attrazione come quella provata qualche giorno prima su quell’altura; ma soprattutto, vide in quegli alberi, la saggezza che solo Antichi tronchi possono celare. Così, quella notte, andò subito ad osservare quelle stelle lontane proprio al centro di quei tre Saggi, provando un piacere quasi carnale nello stare disteso, quasi cullato dal muoversi del vento tra le fronde ad osservare Saturno e Venere ed ogni costellazione lassù lontana…

Nei suoi pensieri una strana sinfonia iniziò ad echeggiare mentre tutto attorno, uno strano silenzio si levò piano: tutti gli insetti si fecero muti e persino il vento smise di soffiare, il cielo divenne di un colore talmente scuro da far rabbrividir la pelle, non seppe dire se era una temperatura fredda o calda: tutto era sospeso e immobile come se nessuna regola vigesse e il tempo si fosse fermato.

Vacillò per un istante e non riuscì a trovare la forza per rialzarsi o pensare a qualcosa, non riuscì a capire cosa stava succedendo o a dire una parola. Ma in un istante capì quel si stava verificando attorno a lui e una consapevolezza atroce gli percosse tutte le membra fino al midollo… tale che in un balzo, si rizzò in piedi e, mentre quella straziante sinfonia ancora risuonava nelle sue orecchie, iniziò ad allontanarsi da quel posto cercando di non muovere nemmeno una foglia al suolo…
E assordante era quel silenzio che le orecchie iniziarono a fargli male mentre il cuore gli batteva come non mai… ma tutto lentamente riprese a vivere: cicale, civette e persino i venti di Zefiro.

Arrivò a casa con la testa che più pesante era divenuta e la mente esausta da quel che aveva appena pasato; senza nemmeno accorgersene si fece l’alba e il canto dei galli destò come d’improvviso il ragazzo che tra la notte e le prime luci si era perso ed incantato. 

Sapeva che lui, e solo lui, avrebbe aperto quel varco misterioso che nessuno aveva mai osato oltrepassare.

Sapeva che presto sarebbe arrivato il momento perfetto in cui ogni cosa si sarebbe allineata… passò l’intera giornata senza dormire a studiare quel triangolo:”Si! Il triangolo sarà la porta, l’ingresso per quel sogno/incubo. E’ il triangolo!”- continuava a ripetere –”il simbolo più perfetto e solido in natura e grazie ad esso che il varco si aprirà!”

Passò la notte nel suo letto ma il sonno non arrivò mai e Steven iniziò a sentirsi preda dell’ignoto. Sapeva che quel varco era vicino ad aprirsi tanto che non esitò un istante in più. Il giorno seguente mentre aveva un libro di radioestesia in mano, ebbe un illuminazione e capì che se fosse riuscito a far allineare le radici di quei sacri alberi, l’ignoto che era celato, sarebbe riuscito a viverlo e forse ad abbandonarsi in esso.

Sapeva bene che se voleva agire alla perfezione, avrebbe dovuto compiere i suoi passi nel modo più perfetto possibile.

Collegò quegli alberi con una linea a terra disegnata con un ramo di olivo e accese su quel perimetro sei candele nere incise con uno spillone, accese degli incensi al sandalo, si mise a fianco di uno dei tre Saggi ed iniziò a camminare da un albero al’altro –stando attento a seguire quelle linee dapprima tracciate- recitando precise parole.

In questa valle
 si nascondono
 le tue paure.

In questa valle
si nascondono
le tue follie.

In questa valle
si nascondono
i tuoi rimpianti…

Oh re delle tenebre
tu mi hai condotto qui
per svagare con i tuoi demoni,
per svagare con i miei demoni…

Prese il pendolo e continuando a camminare, lo mosse in varie direzioni. La sua destrezza in quei riti che si svolgevano ogni notte, fece si che le radici di quegli alberi sacri crebbero a forma di un triangolo perfetto e seppe che avrebbe dovuto solo catturare il momento perfetto per raggiungere quegli esseri e quei misteri a lui familiari.

Una mattina, al sorgere dell’alba, successe l’inaspettato: mentre stava passeggiando da solo tra le brughiere e i fetidi stagni, Steven, iniziò a raggelare e a tremare come mai era successo prima. Il suo volto si irrigidì completamente, i suoi occhi grigi si spalancarono; divennero vitrei e la sua bocca rimase serrata per circa dieci secondi poi, cadde a terra privo di sensi…

Si destò di soprassalto con la luna alta in un cielo spoglio di stelle e così nero da far venire le vertigini e non appena i suoi occhi si aprirono, le prime cose che scorse furono olivi e tutto quello che sentì furono lugubri risate provenienti da lontano, come se fossero le eco da una lontananza infinita… 

Capì subito ove si trovava ma non ricordava nulla di quell’alba così macabra e rossa tranne se non per quello che nella sua mente successe in quei secondi di morte apparente.

“Era una notte carica d’energia ed elettricità, il cielo era completamente ricoperto da una nuvola prolissa: rossa come il sangue e nera come la pece, ovunque, lampi e tuoni assordanti facevano la loro danza macabra lassù in quel cumulo di nubi ed io non vedevo niente, se non buio, fin quando la mia mente non si è separata da quel corpo che prima ospitava me per poi cadere priva di sensi e morta al di sotto dell’oscurità più nero.

Non sapevo esattamente dove mi trovavo ma attorno a me sentivo solo ghigni e risa soffocate da un terrore che anche io riuscivo a percepire benché fossi solo energia e non più materia.

In un istante sono stato catapultato fuori da ogni terrena visione sconfinando in quell’eterno abisso e sprofondando sempre più in basso come se venissi attirato da qualcosa di inumano (probabilmente)… La mia caduta stava avanzando e la mia energia stava proseguendo con una velocità che supera qualsiasi vostra terrena misura di velocità. Più della velocità della luce. 

Mi contorcevo come da una sorta di nausea mortale ma non riuscivo a destarmi da quello che speravo fosse un incubo come quelli che spesso nelle notti senza luna mi appaiono macabri, ma purtroppo ogni cosa era reale e di man mano vedevo alcuni simboli appartenuti alla popolazione Maya ed usati durante i rituali più sacri; piramidi dove le entità più oscure si sono celate sin dai tempi Antichi e sapevo che quello che ero divenuto poteva viaggiare e scoprire ogni mistero da sempre ben custodito finché pian piano sono stato catapultato di nuovo in quello che oso chiamare la mia salma. 

Niente di più sconvolgente posso dire di avere provato quando la cosa che ero divenuto è dovuta tornare nei limiti di quel cumulo di epidermide. Quello fu il brivido più potente di qualsiasi droga esistente, di qualsiasi paradiso dantesco che io potessi provare e che in un istante riassunsi tutto con un battito di ciglia e capii ciò per cui sicuramente morirò.”
Disse Steven di ciò che era stato quando fù morto…

La scena delle piramidi confinanti con quelle Maya fu quella che rese il ragazzo un estraneo per sempre… 

Ogni notte da quando aveva scoperto quel triangolo, Steven si sentiva preda del centro di quella calamità e rare erano le volte che i suoi passi incoscienti non si dirigevano in quel luogo così misteriosamente incantevole e macabro.

“Tra il 18 e il 19 Ottobre del 1894 alle ore due e quarantacinque della mattina, quando la luna aveva quasi del tutto compiuto la sua rotazione, capì che qualcosa dalle viscere della terra e dell’inferno mi stava chiamando perché niente di più oscuro risuonò nelle mie orecchie: quell’insieme di ghigni e risa soffocate che avevo già udito anni prima… Sapevo che un giorno finalmente sarei riuscito a varcare quella soglia quando ad un tratto, senza preavviso ogni cosa si fece immutabile, la testa mi pullulava di strani pensieri e di nuovo sentivo in ogni cellula del mio corpo, che bramavo di andare via da quella casa per raggiungere il folle triangolo che aveva radici profonde fino all’inferno.
Cercai con tutto me steso di lottare per impedire a quell’energia di farmi preda ma vano fu il tentativo che, in breve tempo, mi ritrovai in piedi all’inizio di quel vasto oliveto; Senza rendermene conto i miei passi si dirigevano sempre più vicini a quel che era il varco…
Un vento fortissimo iniziò a soffiare che quasi mi fece perdere l’equilibrio: freddo come un corpo ormai morto e carico di un odore putrescente simile al tanfo di una carcassa lasciata al sole; sopra la mia testa, improvvisamente, quella nuvola simile ad un manto di velluto, si squarciò in due e un cielo privo di stelle e di luna vidi; solo il nero più infinito vi era lassù: come se tutto intorno non fosse mai nato ed esistito.

Tremai inconsciamente e, mentre  nel cielo ogni cosa mutava, qualcosa di dimensioni esorbitanti: come fosse fatta di particelle di energia con una struttura precisa più che di materia vera e propria, si presentò sopra la mia testa ad una distanza di appena trenta metri circa, così che potei vederne il perimetro –tale era quella misteriosa oscurità che regnava in quella notte.-

Quasi simile ad un volatile ma che mai sarebbe potuto essere possibile: lungo almeno cento metri e con un apertura di circa sessantasei metri per lato; iniziò a percorrere un ellisse sopra la mia testa: silenzioso ed agile compì tre volte quello spostamento che un immenso stupore misto a paura si impossessarono dei miei occhi…

Appena compiuta anche la terza rotazione, quelle nubi dapprima squarciate, ritornarono ad essere un manto unico ricoprendo ogni cosa lassù: persino quell’essere… mentre gorghi infernali si levarono alti tra quegli olivi.

Ancora pochi passi e senza consapevolezza, mi ritrovai al centro di quel triangolo secolare le cui radici mi trascinavano nelle viscere di quello che più inumano si può immaginare. …

Iniziai a vacillare, simultaneamente, la vista divenne opaca, le palpebre si chiusero sotto un peso insostenibile e le gambe cedettero facendomi collassare a terra in uno stato di morte apparente quando  finalmente il mio corpo si separò e divenni quell’energia eterna che sempre avevo bramato divenire per scoprire ogni cosa celata.

Non sapevo quello che avrei potuto provare o scorgere fino a quando sentì che qualcosa mi trascinava ad una velocità paurosa verso le viscere della Terra. Capii che il mio corpo non era più fatto di materia: ossa, sangue o pelle, la mia vista era completamente mutata e una specie di melma grigiastra ricopriva quello che ora ero divenuto. Sapevo soltanto che in me ancora vi era la coscienza e la consapevolezza umana.

In un lampo, venni scaraventato a terra con talmente tanta forza che persino l’essere che ero vacillò anche se sapevo che se fossi stato materia sarei morto all’impatto.

Mi sentivo paralizzato e una moribonda nausea mi percorreva le viscere… 

Ad un tratto, da lontano, delle urla soffocate che già mi avevano fatto visita nei miei incubi iniziarono ad avvicinarsi sempre di più verso di me… e anche se nulla era possibile vedere con quelle tenebre, la melma che avevo indosso, vibrava ad ogni mutamento d’aria e capii che mancava poco affinché quegli strani esseri mi raggiungessero… 

Si fermarono a circa tre metri di distanza da me scrutandomi nei minimi dettagli mentre tutto attorno un silenzio funebre scese. Sapevo che erano fatti come me e sapevo che non avevano nessun foro che servisse come bocca per parlare o nutrirsi ma solo una specie di sfiatatoio sopra l’apice del ‘corpo gelatinoso’. Ci fu un momento di suspense prima che qualcuno di loro, lo stesso che nella mia visione passata mi aveva rivelato la loro possibilità di accogliermi, si mise davanti a quel mio corpo immateriale e mi parlò. Non so dire in quale lingua mi parlò ma nessuna di quella che esiste o fu mai esistita gli somigliava. 

Non riuscivo a capire come fosse possibile ma poi mi spiegarono che tramite delle onde di materia che vibravano nell’aria, i loro pensieri si spostavano da un essere all’altro.

Quelle sue parole lentamente si insinuarono nei miei pensieri e piano iniziai ad intendere quello che mi stava dicendo:

<Noi siamo gli Sdruinan e sappiamo tu chi sei: per anni i tuoi sogni sono stati disturbati da questo varco e questa nostra legione. Ci hai permesso, grazie al confine chiamato sonno, di evadere da questo luogo per poter osservare chi era degno e chi avrebbe potuto unirsi a noi.>

Finì la frase e nello stesso istante, tutto quel popolo, emise un riso così lugubre e potente, da farmi tremare il manto di melma.

Qualcosa dentro me, non credeva ai pensieri di quel capo abominevole e quelle risa confermarono le mie paure.

In un istante capii che quello sarebbe stato più che un inizio, la mia fine materiale ed energetica e mi preparai a quello che loro mi avevano riservato da anni.

Mi presero e mi portarono ad una distanza talmente elevata dal punto in cui arrivai che non seppi dire per quanto tempo strisciammo. Intanto le mie membra si stavano abituando a quella forma che ero divenuto e pian piano quell’incavatura che fungeva da punto visivo, si faceva sempre più acuta e nitida tanto che iniziai a scorgere la forma di quei Sdruinan e quel loro mondo.

Ci fermammo al limite di quella che sembrava la vetta di un vulcano talmente profondo da far venir le vertigini e che ancora zampillava di magma incandescente. Mi dissero che quel vulcano chiamato Hanan, era un punto sacro che veneravano da migliaia di ere e dove molti esseri di quella legione si gettavano sperando di destare Qios-Som: il demone che vi viveva mostrandogli la loro devozione così succube e malata.

Interi riti si successero nel corso di quelle epoche ma mai riuscirono a far emergere da quelle profondità Qios-Som in quanto non gli bastava quello di cui gli Sdruinan erano formati,sapevano che il loro demone, si sarebbe destato soltanto con il sacrificio di un essere umano. 

Oramai sapevo che quella era la fine che mi avevano riservato ingannandomi nei miei sogni affinché in quello che per loro era il giorno predetto, si sarebbe avverata la profezia.

Tutti i Sdruinan erano presenti per il risveglio di quel sacro demone e la mia consapevolezza si faceva sempre più straziante perché minuto dopo minuto, da quel vulcano, un calore incandescente misto ad un tanfo di putrefatto si levava verso di me…

Sapevo che ero stato io a segnare la mia fine attraverso quel portale ed ora, mentre tutto attorno a me, gorghi, canti ed urla, risuonavano alti, solo un ultimo sacrificio si compì a Quios-Som… Il sacrificio di un ultima energia immateriale… Il mio sacrificio… 

Che anche se niente di materia avevo, la più terrificante delle morti provai con quell’atroce sofferenza che la mia energia potesse subire capendo finalmente quello che è l’ignoto… il mistero… la morte…”

Quella notte, strane urla si sentirono lacerare e squarciare il cielo sopra quello che un tempo era un oliveto.

Solo nuvole sature di sangue furono in quella notte così buia ma così misteriosamente soffocata da una pioggia che trasformò l’orizzonte in bagliore quasi rosseggiante…

E, se prima in quell’oliveto vi era un portale che portò Steven alla morte; ora di quel varco non rimane nient’altro che desolazione…