Uomo non invadere l’innocenza dei bimbi
L’innocenza di quegli occhietti furbi,
sempre pronti a sorridere,
fondono il calore di un abbraccio.
La fermezza incosciente
di ogni gesto spontaneo.
Perché è la debolezza
dell’uomo perdente
che si accanisce
con chi forza non avrà.
Quindi tu, grande uomo
prima di profanare la limpidezza
di quel piccolo angelo,
guarda i suoi occhi innocenti.
Rivedi te un tempo passato?
Angelo tu fosti,
poi il tempo ti logorò.
Quella creatura divina
ha il diritto di vivere
ogni attimo della
faticosa vita.
Reprimi i tuoi logori pensieri.
Piccola bimba
Un sogno
Ballare, danzare
Con ali da farfalla
Volteggiare come
Foglie di un vortice
Le nubi, i miei teatri
Musica di ruscelli
Solfeggiano nei loro percorsi
E giungono le note ai fiumi
Applausi da bimbi innocenti
Lui mi creò con la creta, ma dimenticò
Un piccolo piedino
Continuai a danzare
Volteggiare
Per bimbi come me
Creature incomplete.
Sommo poeta
Nell’animo son sommo poeta
Aver l’arte di pintore
Dipingerei
Il soffio del vento
Il sorriso di un bimbo
Il secco battito di ciglia
D’un vecchio al suo tramonto
La tremula mano
Di una donna gravida
Il rumore del deserto
Il silenzioso fruscio della sabbia
Il muto pianto di una madre
Accanto al suo bimbo morente
L’immenso vuoto che avvolge l’anima
Il respiro della morte
Una pennellata di colore
Ai rumori delle follie umane
Poeta scrivano
Sogno incurante
Tra il ritmo della strofa
Di chi non vede i colori
E non sente i rumori
Nonno
Addormentato, stanco
E dolorante nel cuore,
un vecchio sogna e sorride,
siede appartato, nessuno
accanto,
vecchi pensieri ritornano in mente.
Sono vecchio, lo sento.
Il tempo della giovinezza
Era ieri.
Fra mille riflessioni
Rimpianti, gioie represse
Volano nella mente
Logorata nel tempo che fu.
Più chino il vecchio
Come il tramonto all’orizzonte.
Alta la luna
Impallidisce le stelle
Non brillano più,
nonno.
Male oscuro
Sento il suo sgradevole alito
Lo sento ridere, ghigna, iena
Adesso non ho più tempo per te
Oscuro male
Ritorna più tardi, ho da fare
Dai, prova
Va’ e corri come i bimbi
Che alle volte dimenticano
Di rincasare!
Ma se non sei uno stronzo
Vai via con il vento
Che gonfia le vele della vita
Tu, piccola donna così vicino
Al mare oscuro, devi dare
Ancora amore, ti aspetta
Un po’ di tempo
Tu, male, maledetto, tu che
Dividi cuori, amori
Tu chi sei?
Come ti permetti?
Dio mi diede la vita
E tu perché la togli?
Quanto potrei dare ancora?
Lei ti chiama
È al tramonto che lei ti chiama
Correvi felice
Passavi il giorno tra le spighe
Ondulanti dal soffio del caldo vento
Un magico mondo ti crearono
Per giocare con la fantasia
Sognavi cavalli, le loro criniere al vento
Le rondini ti erano amiche
Aspettavi il loro arrivo
Libero bimbo dormi e sogna
L’alba arriverà, lei ti sveglierà
Tu, piccino, non lo sai
Stavi solo sognando
Lassù vola con le rondini cullati sulle nubi
Volgi lo sguardo ingiù
Lei ti chiama
Ma tu non scenderai
Guarda il sorgere del sole, osserva il tramonto
Lei ti chiamerà sempre
Tu fanciullo che il giorno è capriccio
Corri nei prati
Quando lei ti chiama
“Si, arrivo mamma!”
La mia amica
Quanto tempo è passato,
amica d’infanzia?
Amica di risate innocenti,
amica di tradimenti,
complice delle mie pazzie.
Quante albe, luminose
Ai raggi del mattutino sole, addormentato
A contare le luminose stelle,
contrastanti con il buio del cielo.
Con te ero tranquilla.
Oggi sei venuta,
dopo tanto tempo.
E a raffica ti raccontai
Tutto il tempo che non c’eri!
Sai, scrivo ancora il mio segreto
Libro!
Tutti pazzi questi artisti.
Cosa scrivi?
La vita che scorre.
Ci siamo messe
A ridere.
Come da piccole!
Figlio di un’onda
Scaglio tutto di me
Consumata da afosi estati
Logorata da avversi paesaggi
Trafitta da pugnali nemici, ingiurie su di me!
Calle solitarie mi tennero nascosta
Non mi nasconderò più tra vie oscure
Figlio mio
Siedi, mangia, dormi
Apri la porta, prendi i tuoi stracci
Io rimango con i miei fardelli
Bassa prende già la luna
È sorta tardi, tra i bragozzi addormentati
Folle il mare si gettò sulla laguna
Custode dei miei segreti
Ti portò via da occhi indiscreti
Non ti seguiranno
Le falsità su tua madre
Vai con l’onda
Difendi la tua nascita.
A mia madre
Tutto spero tu mi perdoni
Per i miei screzi,
di non aver avuto il coraggio
di baciarti, abbracciarti.
Con dolci mani mi hai cullato
Al tuo seno, con avidità
Le mie labbra succhiavano,
le piccole manine toccavano il tuo seno,
allora morbido, giovane.
I tuoi giorni con me
Sono passati così veloci.
Tu mi aiutavi a crescere
E lo hai fatto
Fino alla fine della tua vita.
Per te la primavera
Non ritornerà.
Rimani sempre
Una fresca rosa.
Vivo nell’attesa
Dei tuoi passi
Del tuo conforto.
Ti sogno,
ti vedo bella!
Non sei arrabbiata?
Storia di un marinaio
Dopo la guerra, molte famiglie sfollate ritornarono nelle loro città, dato che essa aveva distrutto molte abitazioni. Un gruppo di queste persone si presentò in Comune e il Sindaco capì che era uno stato di emergenza: non avevano una casa. Venne loro concesso il permesso di occupare una zona nei pressi del mare, già abitata da pescatori, con reti, barche e mezzi rudimentali.
In poco tempo costruirono la scuola e la chiesa, dove arrivarono i frati dalla terra ferma, che diedero molto aiuto. Così incominciò la vera vita, con i pescatori. Tutte le famiglie dovettero imparare a pescare per vivere. Gli uomini appresero i consigli del nonno Tonio, detto Prusio, che diceva: “il mare ci dà i suoi pesci ma bisogna stare alle sue regole; lui ti inganna, le sue maree, i venti, la maledetta Bora”. Così guidò i nuovi pescatori a una vita di stenti ma anche meravigliosa, scoprendo nuove dimensioni con la Natura, che ti appaga se la rispetti.
Al calar della luna o nella luna piena, Prusio con mio padre Bruno, sapeva dove il pesce passava, e lì gettavano le reti. Mio padre vogava con due remi, “Piano” diceva il nonno, “Fai scivolare piatti nell’acqua. Vedi, fanno scintille”; sembrava una polvere di stelle. “Gira lentamente il remo di destra”, “Facciamo un cerchio”, e il nonno gettava le reti come fosse un rito. “Alt! Fermo! Mettiamo le bandiere”, altro giro, altre reti, “Vedrai, ne compreremo delle altre più nuove, così prenderemo più pesci”. Da buon padre incoraggiava il figlio non abituato alla vita di mare e di stenti.
Mio padre vedeva il nonno come un mago del mare e tutti lo rispettavano; era il più anziano. Chiedevano consigli sul tempo; era molto importante sapere la situazione del mare per poterlo affrontare. Quando un mare non faceva ritornare un pescatore, il nonno, con tutti gli altri, partiva alla ricerca della vittima. Conosceva le correnti, si inoltrava fino alle foci dell’Isonzo, tra le basse maree, tra cannelle e paludi e aspettava fino a quando le correnti non portavano a galla il disperso; portava a casa il suo pescatore sempre.
Nel contesto la piccola isola, che non attaccava con la terra ferma, fioriva come un fiore. Si formò un piccolo centro; non mancava nulla, se il mare riempiva le reti! C’era anche un lato comico, tra il nonno e il frate; sembravano don Camillo e Peppone. Il nonno, da gran partigiano, era il vero comunista; quando vedeva arrivare il frate scalzo, iniziavano i vari insulti. Erano comici tutti e due, ma onesti. Alle volte, da donna adulta, ritorno alla mia infanzia guardando don Matteo, il prete che corre in bici con le gonne al vento.
Una sera il nonno sentì aria giusta e decise di affrontare il mare di notte. Prepararono tre battane e c’era anche lo zio Odone, il più matto zio che esista; lui ci faceva ridere. Noi bimbi, privi di tante cose ma ricchi di tanti ricordi felici; i nostri genitori alle volte mangiavano solo il caffellatte per non farci mancare nulla. Non avevano luci, solo lumi a petrolio; così la flotta partì per mete conosciute solo dal nonno. Ricordo mia mamma e mia nonna che mi mettevano a letto, ma loro rimanevano alzate fino al rientro. Se le reti erano colme di pesci sarebbero corse al mercato per vendere il pesce, riempiendo le cassette che mettevano sulle bici legate con uno spago, cercando di arrivare prima delle altre mogli dei pescatori. Non fu come predisse il nonno. Dopo la mezzanotte si alzò il famoso “Neverin”, che annuncia un temporale. La furia del vento sollevò il mare creando un manto di neve. Con i soli remi non si può affrontarlo e il nonno lo sapeva. Guidò allora le battane nelle piccole rientranze della costa di Duino, dove, narra la leggenda, la dama si gettò dalla rupe più alta per la morte del suo amato. Fortunatamente, l’insenatura formata dalle rupi, salvò i pescatori. Il nonno al rientro disse “la leggenda fa parte della storia”. Lui aveva le sue culture, che si tramandavano di generazione in generazione. Forse con mio padre finirono.
C’era il periodo delle seppie, dei calamari, delle passere, che mio padre prendeva con le mani; mi diceva che erano “furbe”, perché si mimetizzavano sotto la sabbia. Quando la sabbia tremava, io ci mettevo sopra il piede. Mi facevano il solletico. Allungavo la mano, le prendevo sul dorso, ma il più delle volte infilavo sott’acqua anche la testa. E poi felicità.
La famosa “tratta” era un unico grande evento, dove partecipavano tutti i pescatori. Il pesce, d’inverno, si rifugiava nel bacino dove il nonno aveva il suo casone. I pescatori sapevano che il pesce entrava dal golfo con l’aiuto delle correnti. Aspettavano fino a quando le reti non si gonfiano, quando il pesce brulicava saltando nelle reti. Le squame emettevano strani colori, molto belli, perché illuminati dalla luna. Era una grande festa. Se l’annata era buona, i pescatori si comperavano le reti nuove, il filo di nailon e piombi più pesanti. Le reti rotte dai pesci venivano cucite con un ago o guccia e la navetta. Vedevo mia madre ricucire le ereti, mentre cantava le sue operette; sembrava ricamasse un velo da sposa.
Il nonno affrontava il mare ogni giorno. Osservavo il suo viso scuro, ma non era tintarella, oggi di moda, bensì i solchi causati dalla fatica, in simbiosi di odio e amore per il mare, una esistenza che sapeva di sale, ricca pur nella miseria di limpidezze marine, di albe, tramonti, tra il canto d’amore dei gabbiani…
Un giorno uscì dal golfo, dirigendosi dove lo portava la corrente. Forse si sentiva di rimanere un po’ da solo. Per la prima volta alzò la sua vela rossa, fermò il timone con uno spago, si sdraiò, il sole lo accecò, chiuse gli occhi e lasciò che il mare lo portasse. Si appisolò ma lo svegliò un grido di un gabbiano. L’uccello sorvolava il mare con ci fosse una minaccia in arrivo. Il nonno, osservando il gabbiano, parlò con Dio. Non ricordavo che il nonno fosse disposto a parlare con il Signore; troppe ferite aperte per invocare. “Qualsiasi cosa tu mare sputerai, sono qui!”. L’orgoglio fu tenace. Non aveva paura, ma Dio gli fece un regalo. Un gruppo di delfini giocava attorno alla sua battana; rise, felice, ritornando alla sua infanzia. Solo i bimbi sorridono così. Al ritorno, mi prese sulle ginocchia e mi raccontò dell’accaduto. Mi disse: “Ricordati, non affrontare la vita se non sei sicura di vincere. Sappi rinunciare. Quando potrai acquistare sicurezza, sarai vincitrice!”
Io ero piccola, ma ho impresso nella memoria un grosso temporale. Dalle terrazze della grande casa, infondo al golfo nubi nere, lampi, saette e poi le trombe marine. Erano tre, alte e coprivano tutto il golfo, avvicinandosi minacciose verso la piccola terra ferma. La paura nei volti. Si imbattevano le potenti onde sulle famose “sise”, le trombe erano sempre più vicine; una si frantumò sulla costiera di Duino, l’altra venne risucchiata dal mare, sempre più alto. Pensai: “Come nelle favole, i cattivi muoiono”. Il grande temporale distrusse molte cose. Fu ricostruito tutto.
Il nonno aveva i suoi obiettivi nella vita, provata, segnata come tutte le generazioni delle due guerre. Furono anni duri per quella generazione, ma quante cose ci hanno trasmesso! Amore, non invidie e gelosie, rispetto per i nostri genitori, i nostri nonni, per la natura, per il mare, che ci permetteva di vivere una vita umile ma con tanta dignità.
Passarono inverni freddi dove alle volte non si pescava; il mare era avaro. Primavere dove il sole riscaldava le terre umide, fiorivano i fiori e germogliavano gli alberi. Poi l’estate esplodeva nella sua maestosa bellezza. Si potevano pescare, con le fiocine e con i ferri, le cappe lunghe e quelle rotonde. Le basse maree facilitavano la pesca di questi crostacei.
Il nonno alla sera mi portava a guardare il cielo, blu scuro, con la luna e le stelle, come diamanti. Ora non vedo cieli come allora. Tante stelle cadenti nelle notti di agosto. “Esprimi un desiderio”, mi diceva il nonno. Quanti ne feci; ancora adesso continuo a farli. Mi ricordano i miei nonni, mio padre e la mia dolce madre. Forse le stelle sono loro?
Chi affronta il mare, sappia che non è mai da sottovalutare. Lui ti parla; un minimo ondeggiamento, un soffio di vento, ti avvertono del suo cambiamento. Il nonno aveva orecchie e occhi e rispetto.
Anche io ho una barca, solco i mari della Croazia. Alziamo la vela e il mare ci porta lontano, e nel silenzio assoluto ricordo le parole e i fatti accadutomi nella mia infanzia, con nostalgia. Incrociamo delfini che giocano fuori e dentro l’acqua, e tartarughe enormi che ti passano accanto. Assaporiamo il pesce pescato da noi, quello che il mare ci dona.
Il misterioso mare ti affascina, ti attrae, nei suoi aspetti irreali.
Colpevole
Tu, colpevole amore
Mi lasciasti.
Vento, soffia per me.
Libera il sole dalle nubi.
I suoi raggi
mi riscalderanno il cuore
per un nuovo amore.
Ho già sofferto,
lui non mi ingannerà.
Giardino
Alte mura lo racchiudono.
Ali d’aquila lo sorvegliano.
Zampilli di fontane
gorgheggiano.
Cinguettii accompagnano
i sogni
sul prato di mille fiori.
Un soffio di vento
ti accarezza, amore.
Racchiuso nel giardino
non fuggirai più.
Né porte
né cancelli.
Solo tu nel giardino.
Ti raccoglierò
fra i mille colori
e il sogno
sarà realtà nel mio giardino.
La rete
I gridi di gabbiani all’alba
Son grigi e tristi
Invadono il respiro della laguna
Il secco muto di ieri
Mi trovai sotto un manto
Di reti
Mi invasero oscuri pensieri
Mi trovai morta tra i sottili fili delle reti
Era il tuo gioco d’amore?
Il vento gelido mi strappò
Dalla tua presa
Mi gettò tra calle ombrose
Fitte nebbie mi nascosero
Morì lentamente calpestata
Dal tuo muto amore.
L’amore è unico
L’amore non è unico.
Diverso l’amato,
Mani non eguali.
Il tatto fa il gioco dell’amore.
I cuori ti furono donati
I battiti non eguali.
Tu lo ami
Lui si concede a te.
Ti ama.
L’altro
Sa amare e giocare, come bimbi.
E tu ami giocar,
ridere e piangere.
Piacere di amare.
Felicità e agonia,
si può dare
a due cuori?
Tu hai bisogno.
Sei donna e bambina,
giochi e ami,
con i tuoi amori.
Le chiavi
Ridammi le chiavi
che dimenticai.
Tu le hai chiuse
nel tuo cuore.
Il mio io, il mio cuore, il mio corpo.
Mi soffochi,
sto stretta.
Tu non mi ami!
Vuoi che sia una cosa tua.
Geloso ed egoista, il tuo io.
Non sono un oggetto d’oro
che nascondi al mondo!
Apri la porta,
fammi vivere di realtà.
Voglio uscire.
Tiranno!
Rumore
Tanto rumore
Ti fece lasciarmi.
Caddi sull’erba e sassi,
sono la schiava inseguita;
mi assordano d’insulti.
Vago nell’aria della sera.
Un grido tra la folla
La mia voce
danza per le strade silenziose.
La luna avvolta
nella nebbia ombrosa
illumina la scura via.
Conosco il mare di tormento.
È tempo che spieghi a me stessa
ciò che mi è già noto.
Lo strapperò di dosso.
Sii sempre
Sii sempre naturale e spontanea
Sii come un fiore.
La natura apre ogni mattino
Centinaia di fiori
E ogni sera al tramonto
Permette ad essi di proteggersi
Rinchiudendosi e addormentandosi
Pronti ad una nuova alba
Ad un nuovo tramonto.
Osserva albe e tramonti
In essi vedrai
Il mio volto, il mio amore
Guarda il rosso del mare
Cala il sole vedrai la mia mano
Che si tende a te
Ti accarezza i capelli, oro
Contrastano con il rosso sangue che scorre per te.
Sulla laguna un riflesso
Ogni gioco di questa vita
È un riflesso del passato
Ti ricordo al grido di un gabbiano
Dentro di me, un’emozione
Un qualcosa che dilata in me
Crea uno spazio nuovo
E ti sento vicina.
Ricordi il nostro modo di guardare
Le lente barche al rientro dal mare
Mi manchi e vorrei averti
Ma il riflesso del passato
Solo osservo la laguna
Vedo il tuo riflesso
Ma è un gioco.
UOMO VUOTO
Bastardo
La stupidita degli uomini
Non la capisco
Ambiguo dolce amaro
Accanimento malati
Inconsci di affliggere atti di violenza
Mio padre ‘?
Visioni sbiadite lontane
Intravedo
Odo farfugli ovattati
Fra sillabe e sillabe
Oscene dilagano
Fra frastornanti risate malsane
Cosa li trascina nella massa di melma
Vittime di vecchie false verità
Complici di questa sete di violenza
Troppi silenzi ti proteggono
È l’amore di chi tu uccidi dentro
Chiudono gli occhi sorde ai loro pianti
Sole mute sperando il domani tu guarisci
No non è possibile
Donna creata da Dio bellezza amore
Va contro a chi si nutre di violenza
Cammina con la forza verso la cruda verità
Libera la tua anima
Cammina libera alla luce del nuovo giorno
SE TI METTESSI
Perché non indossi i miei vestiti
I miei colori il mio profumo
Già guardiano del tuo corpo
Perfetto al mio sguardo
Le esili mani battiti di ali di farfalle
Sorridi e tutto mi è chiaro
Si piccola fanciulla ti amo
Non oso saper che tu lo sappia
Non avrei più il coraggio di venerarti
E pur ti bacerei
Con labbra gonfie di sentimenti puri
Fanciulla mia passione
Al buio di stelle spente
In segreto amo il tuo acerbo corpo
I seni boccioli di rose
L’odore delle piccole labbra
MI giungono selvaggia
Come cavalli impazziti per praterie lontane
Non cavalcherò cavalli per raggiungerti
Perché io donna desiderò
Te fanciulla