Daniela Sobani - Poesie

Uomo non invadere l’innocenza dei bimbi

 

L’innocenza di quegli occhietti furbi,

sempre pronti a sorridere,

fondono il calore di un abbraccio.

La fermezza incosciente

di ogni gesto spontaneo.

Perché è la debolezza

dell’uomo perdente

che si accanisce

con chi forza non avrà.

Quindi tu, grande uomo

prima di profanare la limpidezza

di quel piccolo angelo,

guarda i suoi occhi innocenti.

Rivedi te un tempo passato?

Angelo tu fosti,

poi il tempo ti logorò.

Quella creatura divina

ha il diritto di vivere

ogni attimo della

faticosa vita.

Reprimi i tuoi logori pensieri.


 

Piccola bimba

 

Un sogno

Ballare, danzare

Con ali da farfalla

Volteggiare come

Foglie di un vortice

Le nubi, i miei teatri

Musica di ruscelli

Solfeggiano nei loro percorsi

E giungono le note ai fiumi

Applausi da bimbi innocenti

Lui mi creò con la creta, ma dimenticò

Un piccolo piedino

Continuai a danzare

Volteggiare

Per bimbi come me

Creature incomplete.


Sommo poeta

 

Nell’animo son sommo poeta

Aver l’arte di pintore

Dipingerei

Il soffio del vento

Il sorriso di un bimbo

Il secco battito di ciglia

D’un vecchio al suo tramonto

La tremula mano

Di una donna gravida

Il rumore del deserto

Il silenzioso fruscio della sabbia

Il muto pianto di una madre

Accanto al suo bimbo morente

L’immenso vuoto che avvolge l’anima

Il respiro della morte

Una pennellata di colore

Ai rumori delle follie umane

Poeta scrivano

Sogno incurante

Tra il ritmo della strofa

Di chi non vede i colori

E non sente i rumori


Nonno

 

Addormentato, stanco

E dolorante nel cuore,

un vecchio sogna e sorride,

siede appartato, nessuno

accanto,

vecchi pensieri ritornano in mente.

Sono vecchio, lo sento.

Il tempo della giovinezza

Era ieri.

Fra mille riflessioni

Rimpianti, gioie represse

Volano nella mente

Logorata nel tempo che fu.

Più chino il vecchio

Come il tramonto all’orizzonte.

Alta la luna

Impallidisce le stelle

Non brillano più,

nonno.


Male oscuro

 

 

Sento il suo sgradevole alito

Lo sento ridere, ghigna, iena

Adesso non ho più tempo per te

Oscuro male

Ritorna più tardi, ho da fare

Dai, prova

Va’ e corri come i bimbi

Che alle volte dimenticano

Di rincasare!

 

Ma se non sei uno stronzo

Vai via con il vento

Che gonfia le vele della vita

Tu, piccola donna così vicino

Al mare oscuro, devi dare

Ancora amore, ti aspetta

Un po’ di tempo

Tu, male, maledetto, tu che

Dividi cuori, amori

Tu chi sei?

Come ti permetti?

Dio mi diede la vita

E tu perché la togli?

Quanto potrei dare ancora?


Lei ti chiama

 

 

È al tramonto che lei ti chiama

Correvi felice

Passavi il giorno tra le spighe

Ondulanti dal soffio del caldo vento

Un magico mondo ti crearono

Per giocare con la fantasia

Sognavi cavalli, le loro criniere al vento

Le rondini ti erano amiche

Aspettavi il loro arrivo

Libero bimbo dormi e sogna

L’alba arriverà, lei ti sveglierà

Tu, piccino, non lo sai

Stavi solo sognando

Lassù vola con le rondini cullati sulle nubi

Volgi lo sguardo ingiù

Lei ti chiama

Ma tu non scenderai

Guarda il sorgere del sole, osserva il tramonto

Lei ti chiamerà sempre

Tu fanciullo che il giorno è capriccio

Corri nei prati

Quando lei ti chiama

“Si, arrivo mamma!”


La mia amica

 

 

Quanto tempo è passato,

amica d’infanzia?

Amica di risate innocenti,

amica di tradimenti,

complice delle mie pazzie.

Quante albe, luminose

Ai raggi del mattutino sole, addormentato

A contare le luminose stelle,

contrastanti con il buio del cielo.

Con te ero tranquilla.

Oggi sei venuta,

dopo tanto tempo.

E a raffica ti raccontai

Tutto il tempo che non c’eri!

Sai, scrivo ancora il mio segreto

Libro!

Tutti pazzi questi artisti.

Cosa scrivi?

La vita che scorre.

Ci siamo messe

A ridere.

Come da piccole!


Figlio di un’onda

 

 

Scaglio tutto di me

Consumata da afosi estati

Logorata da avversi paesaggi

Trafitta da pugnali nemici, ingiurie su di me!

Calle solitarie mi tennero nascosta

Non mi nasconderò più tra vie oscure

Figlio mio

Siedi, mangia, dormi

Apri la porta, prendi i tuoi stracci

Io rimango con i miei fardelli

Bassa prende già la luna

È sorta tardi, tra i bragozzi addormentati

Folle il mare si gettò sulla laguna

Custode dei miei segreti

Ti portò via da occhi indiscreti

Non ti seguiranno

Le falsità su tua madre

Vai con l’onda

Difendi la tua nascita.


A mia madre

 

 

Tutto spero tu mi perdoni

Per i miei screzi,

di non aver avuto il coraggio

di baciarti, abbracciarti.

Con dolci mani mi hai cullato

Al tuo seno, con avidità

Le mie labbra succhiavano,

le piccole manine toccavano il tuo seno,

allora morbido, giovane.

I tuoi giorni con me

Sono passati così veloci.

Tu mi aiutavi a crescere

E lo hai fatto

Fino alla fine della tua vita.

Per te la primavera

Non ritornerà.

Rimani sempre

Una fresca rosa.

Vivo nell’attesa

Dei tuoi passi

Del tuo conforto.

Ti sogno,

ti vedo bella!

Non sei arrabbiata?


Storia di un marinaio

 

Dopo la guerra, molte famiglie sfollate ritornarono nelle loro città, dato che essa aveva distrutto molte abitazioni. Un gruppo di queste persone si presentò in Comune e il Sindaco capì che era uno stato di emergenza: non avevano una casa. Venne loro concesso il permesso di occupare una zona nei pressi del mare, già abitata da pescatori, con reti, barche e mezzi rudimentali.

In poco tempo costruirono la scuola e la chiesa, dove arrivarono i frati dalla terra ferma, che diedero molto aiuto. Così incominciò la vera vita, con i pescatori. Tutte le famiglie dovettero imparare a pescare per vivere. Gli uomini appresero i consigli del nonno Tonio, detto Prusio, che diceva: “il mare ci dà i suoi pesci ma bisogna stare alle sue regole; lui ti inganna, le sue maree, i venti, la maledetta Bora”. Così guidò i nuovi pescatori a una vita di stenti ma anche meravigliosa, scoprendo nuove dimensioni con la Natura, che ti appaga se la rispetti.

Al calar della luna o nella luna piena, Prusio con mio padre Bruno, sapeva dove il pesce passava, e lì gettavano le reti. Mio padre vogava con due remi, “Piano” diceva il nonno, “Fai scivolare piatti nell’acqua. Vedi, fanno scintille”; sembrava una polvere di stelle. “Gira lentamente il remo di destra”, “Facciamo un cerchio”, e il nonno gettava le reti come fosse un rito. “Alt! Fermo! Mettiamo le bandiere”, altro giro, altre reti, “Vedrai, ne compreremo delle altre più nuove, così prenderemo più pesci”.  Da buon padre incoraggiava il figlio non abituato alla vita di mare e di stenti.

Mio padre vedeva il nonno come un mago del mare e tutti lo rispettavano; era il più anziano. Chiedevano consigli sul tempo; era molto importante sapere la situazione del mare per poterlo affrontare. Quando un mare non faceva ritornare un pescatore, il nonno, con tutti gli altri, partiva alla ricerca della vittima. Conosceva le correnti, si inoltrava fino alle foci dell’Isonzo, tra le basse maree, tra cannelle e paludi e aspettava fino a quando le correnti non portavano a galla il disperso; portava a casa il suo pescatore sempre.

Nel contesto la piccola isola, che non attaccava con la terra ferma, fioriva come un fiore. Si formò un piccolo centro; non mancava nulla, se il mare riempiva le reti! C’era anche un lato comico, tra il nonno e il frate; sembravano don Camillo e Peppone. Il nonno, da gran partigiano, era il vero comunista; quando vedeva arrivare il frate scalzo, iniziavano i vari insulti. Erano comici tutti e due, ma onesti. Alle volte, da donna adulta, ritorno alla mia infanzia guardando don Matteo, il prete che corre in bici con le gonne al vento.

Una sera il nonno sentì aria giusta e decise di affrontare il mare di notte. Prepararono tre battane e c’era anche lo zio Odone, il più matto zio che esista; lui ci faceva ridere. Noi bimbi, privi di tante cose ma ricchi di tanti ricordi felici; i nostri genitori alle volte mangiavano solo il caffellatte per non farci mancare nulla. Non avevano luci, solo lumi a petrolio; così la flotta partì per mete conosciute solo dal nonno.  Ricordo mia mamma e mia nonna che mi mettevano a letto, ma loro rimanevano alzate fino al rientro. Se le reti erano colme di pesci sarebbero corse al mercato per vendere il pesce, riempiendo le cassette che mettevano sulle bici legate con uno spago, cercando di arrivare prima delle altre mogli dei pescatori. Non fu come predisse il nonno. Dopo la mezzanotte si alzò il famoso “Neverin”, che annuncia un temporale. La furia del vento sollevò il mare creando un manto di neve. Con i soli remi non si può affrontarlo e il nonno lo sapeva. Guidò allora le battane nelle piccole rientranze della costa di Duino, dove, narra la leggenda, la dama si gettò dalla rupe più alta per la morte del suo amato. Fortunatamente, l’insenatura formata dalle rupi, salvò i pescatori. Il nonno al rientro disse “la leggenda fa parte della storia”. Lui aveva le sue culture, che si tramandavano di generazione in generazione. Forse con mio padre finirono.

C’era il periodo delle seppie, dei calamari, delle passere, che mio padre prendeva con le mani; mi diceva che erano “furbe”, perché si mimetizzavano sotto la sabbia. Quando la sabbia tremava, io ci mettevo sopra il piede. Mi facevano il solletico. Allungavo la mano, le prendevo sul dorso, ma il più delle volte infilavo sott’acqua anche la testa. E poi felicità.

La famosa “tratta” era un unico grande evento, dove partecipavano tutti i pescatori. Il pesce, d’inverno, si rifugiava nel bacino dove il nonno aveva il suo casone. I pescatori sapevano che il pesce entrava dal golfo con l’aiuto delle correnti. Aspettavano fino a quando le reti non si gonfiano, quando il pesce brulicava saltando nelle reti. Le squame emettevano strani colori, molto belli, perché illuminati dalla luna. Era una grande festa. Se l’annata era buona, i pescatori si comperavano le reti nuove, il filo di nailon e piombi più pesanti. Le reti rotte dai pesci venivano cucite con un ago o guccia e la navetta. Vedevo mia madre ricucire le ereti, mentre cantava le sue operette; sembrava ricamasse un velo da sposa.

Il nonno affrontava il mare ogni giorno. Osservavo il suo viso scuro, ma non era tintarella, oggi di moda, bensì i solchi causati dalla fatica, in simbiosi di odio e amore per il mare, una esistenza che sapeva di sale, ricca pur nella miseria di limpidezze marine, di albe, tramonti, tra il canto d’amore dei gabbiani…

Un giorno uscì dal golfo, dirigendosi dove lo portava la corrente. Forse si sentiva di rimanere un po’ da solo. Per la prima volta alzò la sua vela rossa, fermò il timone con uno spago, si sdraiò, il sole lo accecò, chiuse gli occhi e lasciò che il mare lo portasse. Si appisolò ma lo svegliò un grido di un gabbiano. L’uccello sorvolava il mare con ci fosse una minaccia in arrivo. Il nonno, osservando il gabbiano, parlò con Dio. Non ricordavo che il nonno fosse disposto a parlare con il Signore; troppe ferite aperte per invocare. “Qualsiasi cosa tu mare sputerai, sono qui!”. L’orgoglio fu tenace. Non aveva paura, ma Dio gli fece un regalo. Un gruppo di delfini giocava attorno alla sua battana; rise, felice, ritornando alla sua infanzia. Solo i bimbi sorridono così. Al ritorno, mi prese sulle ginocchia e mi raccontò dell’accaduto. Mi disse: “Ricordati, non affrontare la vita se non sei sicura di vincere. Sappi rinunciare. Quando potrai acquistare sicurezza, sarai vincitrice!”

Io ero piccola, ma ho impresso nella memoria un grosso temporale. Dalle terrazze della grande casa, infondo al golfo nubi nere, lampi, saette e poi le trombe marine. Erano tre, alte e coprivano tutto il golfo, avvicinandosi minacciose verso la piccola terra ferma. La paura nei volti. Si imbattevano le potenti onde sulle famose “sise”, le trombe erano sempre più vicine; una si frantumò sulla costiera di Duino, l’altra venne risucchiata dal mare, sempre più alto. Pensai: “Come nelle favole, i cattivi muoiono”. Il grande temporale distrusse molte cose. Fu ricostruito tutto.

Il nonno aveva i suoi obiettivi nella vita, provata, segnata come tutte le generazioni delle due guerre. Furono anni duri per quella generazione, ma quante cose ci hanno trasmesso! Amore, non invidie e gelosie, rispetto per i nostri genitori, i nostri nonni, per la natura, per il mare, che ci permetteva di vivere una vita umile ma con tanta dignità.

Passarono inverni freddi dove alle volte non si pescava; il mare era avaro. Primavere dove il sole riscaldava le terre umide, fiorivano i fiori e germogliavano gli alberi. Poi l’estate esplodeva nella sua maestosa bellezza. Si potevano pescare, con le fiocine e con i ferri, le cappe lunghe e quelle rotonde. Le basse maree facilitavano la pesca di questi crostacei.

Il nonno alla sera mi portava a guardare il cielo, blu scuro, con la luna e le stelle, come diamanti. Ora non vedo cieli come allora. Tante stelle cadenti nelle notti di agosto. “Esprimi un desiderio”, mi diceva il nonno. Quanti ne feci; ancora adesso continuo a farli. Mi ricordano i miei nonni, mio padre e la mia dolce madre. Forse le stelle sono loro?

Chi affronta il mare, sappia che non è mai da sottovalutare. Lui ti parla; un minimo ondeggiamento, un soffio di vento, ti avvertono del suo cambiamento. Il nonno aveva orecchie e occhi e rispetto.

Anche io ho una barca, solco i mari della Croazia. Alziamo la vela e il mare ci porta lontano, e nel silenzio assoluto ricordo le parole e i fatti accadutomi nella mia infanzia, con nostalgia. Incrociamo delfini che giocano fuori e dentro l’acqua, e tartarughe enormi che ti passano accanto. Assaporiamo il pesce pescato da noi, quello che il mare ci dona.

Il misterioso mare ti affascina, ti attrae, nei suoi aspetti irreali.


 

Colpevole

 

Tu, colpevole amore

Mi lasciasti.

Vento, soffia per me.

Libera il sole dalle nubi.

I suoi raggi

mi riscalderanno il cuore

per un nuovo amore.

Ho già sofferto,

lui non mi ingannerà.


Giardino

 

 

Alte mura lo racchiudono.

Ali d’aquila lo sorvegliano.

Zampilli di fontane

gorgheggiano.

Cinguettii accompagnano

i sogni

sul prato di mille fiori.

Un soffio di vento

ti accarezza, amore.

Racchiuso nel giardino

non fuggirai più.

Né porte

né cancelli.

Solo tu nel giardino.

Ti raccoglierò

fra i mille colori

e il sogno

sarà realtà nel mio giardino.


La rete

 

 

I gridi di gabbiani all’alba

Son grigi e tristi

Invadono il respiro della laguna

Il secco muto di ieri

Mi trovai sotto un manto

Di reti

Mi invasero oscuri pensieri

Mi trovai morta tra i sottili fili delle reti

Era il tuo gioco d’amore?

Il vento gelido mi strappò

Dalla tua presa

Mi gettò tra calle ombrose

Fitte nebbie mi nascosero

Morì lentamente calpestata

Dal tuo muto amore.


L’amore è unico

 

L’amore non è unico.

Diverso l’amato,

Mani non eguali.

Il tatto fa il gioco dell’amore.

I cuori ti furono donati

I battiti non eguali.

Tu lo ami

Lui si concede a te.

Ti ama.

L’altro

Sa amare e giocare, come bimbi.

E tu ami giocar,

ridere e piangere.

Piacere di amare.

Felicità e agonia,

si può dare

a due cuori?

Tu hai bisogno.

Sei donna e bambina,

giochi e ami,

con i tuoi amori.


Le chiavi

 

 

Ridammi le chiavi

che dimenticai.

Tu le hai chiuse

nel tuo cuore.

Il mio io, il mio cuore, il mio corpo.

Mi soffochi,

sto stretta.

Tu non mi ami!

Vuoi che sia una cosa tua.

Geloso ed egoista, il tuo io.

Non sono un oggetto d’oro

che nascondi al mondo!

Apri la porta,

fammi vivere di realtà.

Voglio uscire.

Tiranno!


Rumore

 

Tanto rumore

Ti fece lasciarmi.

Caddi sull’erba e sassi,

sono la schiava inseguita;

mi assordano d’insulti.

Vago nell’aria della sera.

Un grido tra la folla

La mia voce

danza per le strade silenziose.

La luna avvolta

nella nebbia ombrosa

illumina la scura via.

Conosco il mare di tormento.

È tempo che spieghi a me stessa

ciò che mi è già noto.

Lo strapperò di dosso.


Sii sempre

 

Sii sempre naturale e spontanea

Sii come un fiore.

La natura apre ogni mattino

Centinaia di fiori

E ogni sera al tramonto

Permette ad essi di proteggersi

Rinchiudendosi e addormentandosi

Pronti ad una nuova alba

Ad un nuovo tramonto.

 

Osserva albe e tramonti

In essi vedrai

Il mio volto, il mio amore

Guarda il rosso del mare

Cala il sole vedrai la mia mano

Che si tende a te

Ti accarezza i capelli, oro

Contrastano con il rosso sangue che scorre per te.


Sulla laguna un riflesso

 

Ogni gioco di questa vita

È un riflesso del passato

Ti ricordo al grido di un gabbiano

Dentro di me, un’emozione

Un qualcosa che dilata in me

Crea uno spazio nuovo

E ti sento vicina.

Ricordi il nostro modo di guardare

Le lente barche al rientro dal mare

Mi manchi e vorrei averti  

Ma il riflesso del passato

Solo osservo la laguna

Vedo il tuo riflesso

Ma è un gioco.


UOMO VUOTO

 

Bastardo

La stupidita degli uomini

Non la capisco

Ambiguo dolce amaro

Accanimento malati

Inconsci di affliggere atti di violenza

Mio padre ‘?

Visioni sbiadite lontane

Intravedo

Odo farfugli ovattati

Fra sillabe e sillabe

Oscene dilagano

Fra frastornanti risate malsane

Cosa li trascina nella massa di melma

Vittime di vecchie false verità

Complici di questa sete di violenza

Troppi silenzi ti proteggono

È l’amore di chi tu uccidi dentro

Chiudono gli occhi sorde ai loro pianti

Sole mute sperando il domani tu guarisci

No non è possibile

Donna creata da Dio bellezza amore

Va contro a chi si nutre di violenza

Cammina con la   forza verso la cruda verità

Libera la tua anima

Cammina libera alla luce del nuovo giorno   


SE TI METTESSI  

 

Perché non indossi i miei vestiti

I miei colori il mio profumo

Già guardiano del tuo corpo

Perfetto al mio sguardo

Le esili mani battiti di ali di farfalle

Sorridi e tutto mi è chiaro

Si piccola fanciulla ti amo

Non oso saper che tu lo sappia

Non avrei più il coraggio di venerarti

E pur ti bacerei

Con labbra gonfie di sentimenti puri

Fanciulla mia passione  

Al buio di stelle spente

In segreto amo   il tuo acerbo corpo

I seni boccioli di rose

L’odore delle piccole labbra

MI giungono selvaggia

Come cavalli impazziti per praterie lontane

Non cavalcherò cavalli per raggiungerti

Perché   io donna desiderò  

Te fanciulla