Diego Romano

Poesie


Un velo triste su quel muro.
Giocare.
Quanti giochi da bambino.
Nozioni di essere un soldatino, eroe di quelle avventure.
Lego che giocavo per quelle storie.
Case, fatte di cartone, che facevamo, per quelle favole.
Supereroi che si facevano con un po’ di plastica.
Giocare, con quei giocattoli fatte da quelle mani.
Sogni di quel bambino.
Sogni che si facevano per essere quel grande.
Fanciullo che vedeva quel papà.
Padre che diventava un vecchio.
Strade che faceva per essere quell’eroe.
Eroe che ogni giorno si vestiva per quel lavoro.
Lavoro dalle otto alle cinque.
Industria che tingeva i suoi capelli di bianco.
Quel bianco che gli ha fatto male.
Ospedale.
Corse in quel posto.
Aspettare in quella sala dall’odore di anestetico.
Giocare ancora per quel tempo.
Colori di una carta di caramella che diventa un racconto.
Racconti che facevo per non essere solo.
Aspettare quel momento che si dipingeva di piccoli pensieri.
Ricordi di quei momenti che ero con lui.
I bancali che raccoglievamo per l’inverno.
Spese del sabato per la settimana.
La sera che ci raccontavamo le favole di quel giorno.
Giorno che ci divideva per i nostri impegni.
Scuola che mi teneva come alunno.
Fabbrica che lo voleva suo.
Mattino di ogni giorno che ci preparavamo.
Quel bagno che facevamo a turno.
Quelle colazione fatta di caffè e latte.
I sacchetti composti per l’ora di pranzo.
Sera che ci riunivamo.
Le nostre scarpe che tenevamo assieme su quella porta.
Compiti che facevamo.
Cena che mangiavamo.
Goldrake, che guardavamo, su quella televisione.
Poi, a quell’ora, tutti a letto.
Un ultimo abbraccio della giornata.
Quelle coperte che mi tirava sulla testa.
Le preghierine per essere stati bravi.
Quel giorno.
Essere lì in quella sala.
Dottori che non ti dicevano niente.
Essere quel piccolo che non vogliono parlarmi.
Ascoltare quei bisbigli.
Quell’abbraccio di quei grandi.
Lacrime su quel volto di quella donna.
Adesso che mi parlano.
Adesso quelle parole.
Non capivo niente.
Sentire quella parola.
Vedere quel suo corpo su quel letto.
Quel velo che coprivano il suo volto.
Quei suoi occhi che non si aprono più.
Piangere, forse no.
Funerale.
Quella tomba vicina a mamma.
Quella lapide fatta di quelle storie.
I racconti che si sono fermati.
Rimane solo una favola.
Rimane solo quelle scarpe, sue, vicino alla porta.
Rimane solo quel disegno in cucina.
Rimane solo quel velo triste, che ho rubato, dal suo volto spento.

 


 

Stringimi.
Uomo dio.
Ricordi di quelle messe che mi portavi.
Quella tua mano che mi teneva.
Giochi fatti su quel bancone per la messa.
Ora per essere pio.
Ora che dovevo ascoltare.
Quelle parole da quel pulpito.
Quelle preghiere che non capivo.
Requiem per gli antenati.
Ave Maria per i vivi.
Ricordi di quei fiori che raccoglievi da quelli buttati lì.
Quel tuo viso che era circondato dal velo.
Storia di una frase fatta in quei anni.
Anni di quel boom.
Anni di quella scuola che odiavo.
Un piccolo stelo per una terra che si nutre di quei anni.
Anni che passano sotto i cieli di stelle, di soli, di pianti.
Felicità di averti scelto.
Un gioco che io facevo per essere con te.
Uno schiaffo che non davi mai per i miei capricci.
Lezioni, fatte in casa, da quel vangelo che amavi tanto.
Crescere per essere uomo.
Uomo che ti vedeva sempre bella.
Poi quella bomba in quella piazza.
La distruzione che ha colpito tanti.
Quei tanti che si vedevano stesi lì.
Il tuo corpo che stava sotto a quelle rovine.
Dolore che si sposta all’anima.
Anima che si corrompe di odio.
Messa per quei sacrifici.
Un prete che non sapeva cosa dire.
Ricordi di quei fiori che non facevano del tuo.
Una bara che si spezzava da quelle radici.
Una terra che ti avvolgeva.
Quel dio che ti ha preso così.
Quella sua lode che mi viene da stare male.
Quel tempo che volevo con te.
Quella tua vita che mi ha visto crescere.
Volontà che si trasforma in odio.
Odio che ricerca la sua origine.
La caccia che si apre.
Trovarli.
Uno ad uno, quei miserabili.
La loro religione che impone quella jihad.
Guardarli in quei loro occhi.
Scorgere quel loro dio.
Capire.
Un dio che vuole la guerra.
Un dio che benedice le bombe.
Uomini che si fanno dio per quel loro paradiso.
Mi impongo una maschera.
Faccio un patto.
Quelle mie opere diventano oscure.
Quella mia anima diventa un nuovo dio.
E poi accorgersi del bambino che era in me.
Scoprire di avere ancora un desiderio.
Quella sua mano.
Quel suo viso.
Ricordi che se ne vanno.
Un ultimo gesto prima di essere quel dio.
Stringimi, da quel tuo paradiso.

 


 

Grazie di essere tuo figlio.
Preghiera del primo mattino.
Quella colazione fatta di latte e miele.
La notizia di quel vecchio giornale che sta lì.
Vacanze che sanno di quella avventura di un sogno.
Giocare con i fiori per essere una ape.
Domande che sorgono in quel gioco che si fa.
Diventare grandi.
Sognare la storia infinita.
Quel racconto che ti leggevo per essere quell’eroe.
Quel pranzo della domenica fatto da solo noi due.
La promessa a mio padre.
La bicicletta che non usavi più.
Un fiore che sa di memorie.
Quel loto che affonda nel tuo ricordo.
Quelle preghiere a San Giuda.
Quelle nozioni che ti facevano bella.
Un letto che era vostro.
Padre che ti aspettava.
Quella sua parte che ti sei appropriata nel dormire.
Il cuscino che odorava ancora di lui.
Forse, gocce di quei racconti che passavi a me.
Fiabe di quel prima della guerra.
I vostro incontro.
La notizia del fronte russo.
Quel matrimonio che ha deviato quel fronte.
Prigionia.
Quella prima stella della sera.
Tornare.
Amanti che diventano genitori.
Lavoro che non c’era.
I bambini che non arrivavano ai cinque anni.
I più fortunati che sopravvivevano.
La casa avuta in quei anni.
La quota per ogni mese.
Scuole per quei figli.
E poi, io.
Trovato su quelle scale.
Portato da te.
Lotte per essere tuo.
Scuole, maestre, giudici che indagavano.
Crescere per essere felice.
Quel giorno che hai chiuso gli occhi a papà.
Dopo.
Ogni giorno quella festa.
Ogni ora il tuo sorriso.
Quel tuo viso che si faceva antico.
Quel tuo essere che sapeva.
La favola che mi preparavi.
Le mie lettere che non sapevo che tenevi.
Camminare per quelle vie.
Quella notte che ti ho chiuso gli occhi.
Fiori che non volevi per quel momento.
Persone che neanche sapevano di te.
I pochi che eravamo.
I tanti che ti aspettavano.
Quel letto che ora e vuoto.
Le preghiere che ora non dico più.
Non vederti su quella lapide.
E poi le tue novelle.
Quei miei scritti che hai messo in quel posto segreto.
Le tue parole che riecheggiano nella casa.
I sogni che vengo da te.
I racconti che continui a insegnarmi.
Vederti in pochi istanti.
La scala che sta ancora lì.
Sperare in quel tuo paradiso.
Sperare che la notte finisca.
E poi, di nuovo, essere tuo figlio.
Grazie per essere stata mia madre.

 


 

La tavolozza, di colori, che sta in un cielo di perdizione.
Volare.
Ali che si aprono ad un mio segno.
Cantare.
Quella lira che mi fa da compagnia.
Vedere.
Creature che si vestono di quella, loro, fantasia.
Animali che girano e mangiano come dio comanda.
Segni di quelle forme che si affacciano a quel nuovo mondo.
Gloria di quel dio che ha creato il tutto.
Assaporare, tra quei alberi, i loro frutti.
Quel giardino in mezzo al niente.
Quella terra che è fatta dal pensiero di dio.
Luce, acqua, terra in una vera sinfonia.
Amare tutto quello che si vede.
Quel mio cuore che si inebria di tale bellezza.
La mia anima che santifica ogni attimo di quei momenti.
Angelo che sta lì.
Quel mio compito di guardiano di quell’eden.
I canti che io faccio.
Quel pubblico fatto di ogni sorta di essere vivente.
La notte che ci innalza a quel stato di riposo.
Perfezione.
L’anima mia che si esalta.
Le mie piume che diventano ancora più splendide.
Quella mia natura che si incarna in quel parco.
Oh, mio cuore.
Adesso è il momento di dormire.
Il mattino.
Quella nuova creatura che gira lì.
Quella sua armonia che è simile a me.
La sua pelle che riflette la mano di dio.
Ogni altra creatura che si inginocchia e prende il nome da lui.
Ogni essenza che si fa custode di lui.
E poi quel nome che si da.
Il primo che regna lì.
Gelosia che mi prende il cuore.
Quel mio paradiso che si macchia di lui.
Volare sopra quel cielo.
Chiedere la giusta risposta.
Quella voce che non c’è.
Tornare su quella terra.
Le mie ali che cambiano colore.
Quel colore che non sa più risplendere.
Devo scacciarlo.
Quel frutto proibito.
L’inganno che mi viene in mente.
La sua amica che fa al mio gioco.
Tentarla, amarla.
Quel gioco di un amore falso.
Quelle mie parole che la inebriano di vanità.
Il frutto che, lei, ruba.
Il suo morso che da.
Quel morso che fa dare a lui.
Il castigo di quella disobbedienza.
Quel giardino che ritorna mio.
Di nuovo volare.
Di nuovo cantare.
Quel creato che non viene da me.
Quel loro risentimento, per la mia gelosia.
Gli animali che si fanno forza.
Quella loro forza, che mi scacciano da lì.
I cancelli che si richiudono.
Il mio canto che non vogliono più sentire.
Quel cielo che non riesco più entrare.
Quell’essere che è fuori prima di me.
Il suo ridere.
Quelle sue mani che sono sporche di fango.
Quel fango che mi sporca la faccia.
La mia luce che si appanna.
Quella gelosia che diventa rabbia.
Quella rabbia che diventa odio.
Odio verso di lui.
Lui che diventa il mio nemico.
I suo figli che gli voglio tutti nella perdizione.
Quel cielo che si macchia di quei colori della mia anima.

 


 

Quel triciclo rosso.
Vecchio, stanco.
Quella vita che ho fatto.
Sogni buttati via.
Gioie che nascono per quella necessità.
Quella casa che ho vissuto.
Nato lì.
Cresciuto in quell’alloggio
Bambino.
Ricordi che vanno via.
Memorie che si fanno a stento.
Eppure, io piccolo.
Quel piccolo monello.
Quel fanciullo che girava su quel triciclo rosso.
Felicità di quel piccolo giocattolo.
Girare, in lungo e largo, in quell’appartamento.
Mia madre che faceva da mangiare.
Corrergli dietro, per quanto facesse.
Girare per quelle strane stanze.
Il profumo di cioccolato, fatto con il latte, che preparava.
Correre per essere quel cavaliere, su quel strano destriero.
Guardarla da quel mio piccolo mezzo.
Quando era seduta a fare la calza.
Quando intonava quella sua fiaba cantata.
Quella luce del giorno che mi faceva giocare.
Girare, forse per quell’avventura che mi piaceva.
Correre girando su quelle ruote.
Quell’abitazione di quel palazzo.
Le strade che non si poteva andare.
La città che faceva paura.
Uscire con lei.
Trascorrere quelle vie per la spesa.
Accanto a lei.
Tenendola per la sua gonna.
E poi a casa.
Ancora su quel triciclo.
Ancora che viaggio per quelle sue melodie.
Ave Maria che canticchiava.
La sua mano che girava la farina.
La sera, andare a letto.
Quel lettino accanto al suo.
Quel mio addormentarmi, nel raccontargli le mie storie.
Dormire.
Sognare.
Svegliarmi già al primo mattino.
Accorgermi che è già in piedi.
La colazione già in tavola.
Il suo letto già rifatto.
Quel triciclo che è lì.
Storie fatte di quelle vacanze di bambino.
Crescere ancora un po’ per non salirci più.
Noia di diventare grandi.
La scuola che mi fa schifo.
La maestra che mi odia.
Gli anni che se ne vanno.
Da bambino a uomo.
Da uomo che oggi lavora.
Quella casa che ora è mia.
Quella via che mi ha fatto crescere.
Rimanere solo.
Quel tempo che porta via tutti.
Quegli appartamenti, che ad uno ad uno, si scambiano.
Ormai solo.
Ormai vecchio.
Seduto su questa panchina di fronte a quel palazzo.
Quel triciclo rosso, con una ruota sgangherata buttato in quell’angolo.
Chiudo gli occhi, e mi vedo.
Tornare ad essere quel bambino.
Quell’appartamento che, ora, è alla periferia delle nuvole.
Mia madre che sta lì.
Quel suo da fare per quella casa.
Il letto rifatto.
La colazione pronta.
Ed io che sono felice, che giro, di nuovo, su quel mio triciclo rosso.