Domenico Livoti - Poesie

OTTO BRACCIA DI GRATITUDINE

 

Non c’è niente da fare, anche l’acqua ha le sue inconfondibili pecularietà.

Parlo di acqua di mare e in particolare di quella del mio mare, di quella immensa distesa che si abbatte con inesorabile continuità sulle spiagge e sulle coste rocciose di Milazzo.

Proprio là, dove si eleva in tutto il suo caratteristico folclore il castello di Milazzo e poi verso la baia del Tono, dove un’antica tonnara fermava le scorribande dei tonni, là in quelle acque ho imparato a diventare un apneista.

Il castello adesso riposa in silenzio e osserva la varia umanità che si muove d’estate sulla lunga battigia.

 

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Un tempo è stato protagonista di una cruenta battaglia che ha determinato il destino dell’Italia.

Su quella ampia spiaggia Garibaldi ha rischiato di essere sconfitto, ma con l’arrivo e l’aiuto di centinaia di nuovi volontari è riuscito a capovolgere le sorti della battaglia per involarsi poi verso Messina.

Ebbene l’acqua della baia del Tono è diversa.

Ha un’altra consistenza, ti sostiene a galla meglio, ti ricopre come cristallo fuso e ti avvolge nel suo fantasmagorico e rilucente abbraccio.

L’acqua del Tono ha anche una salinità diversa.

Ti viene voglia di sciacquarti la bocca e allora senti un qualcosa che sa di casa, di confidenza, di antichi sapori, di ritrovate alchimie, di risapute freschezze, di arcane amaritudini.

L’acqua del Tono ha una trasparenza unica perché le onde si specchiano su un fondale di luccicante ghiaietto.

Il sole vi penetra dentro e si scompone in miriadi di fili luminescenti che accrescono ancora di più l’interna luminosità dell’acqua.

E poi la temperatura!

In un tuffo liberatorio, che ti sottrae alle frecce infuocate del sole, il mare ti riceve nella sua fresca eppure calda accoglienza.

E’ un mistero, ma l’acqua del Tono diventa fredda se la vuoi sferzante ed effervescente, diventa fresca se hai bisogno di un abbraccio vivificante, diventa calda se hai voglia di rimanervi dentro un’intera giornata per apprezzare il fatto che ci si può fidare dell’onda se tu ad essa affidi il tuo spirito e il tuo pesante corpo.

Io amo entrare nel mare con la maschera e il boccaglio perché non voglio che quel mondo sotto di me rimanga misterioso e irraggiungibile.

Cerco la vita in esso, cerco movimenti argentei, riflessi dorati, occhi curiosi, emozioni subacquee.

Quando nel mare di settembre mi è passato vicino un cucciolo di pescespada, è stato come avere compreso per un attimo il mistero di quell’immensa distesa azzurra.

Mi ha guardato indolente e curioso e poi è svanito nell’azzurro.

Mi è bastata quella visione per riempire il mio cuore di gioia, e ogni volta che riesco a riprodurre nella mia mente quell’attimo mi sento

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più in sintonia con me stesso, perché il mio padre mare mi ha concesso di entrare in contatto con la sua anima selvaggia e vagabonda.

Ora entro nel mare senza fucile subacqueo, mi beo della varia vita che in esso si svolge e cerco di volare tra i massi sommersi spiando dalle tane cosa si dicono i pesci.

Fu così che notai una vecchia e arrugginita nassa su un fondale di circa otto metri.

L’avidità dell’uomo ha reso anche questa pesca, già di per sé subdola, ancora più squallida.

Un tempo le nasse erano fatte di giunco e sembravano delle campane che riposavano sul fondo.

Erano un pregevole prodotto dell’ingegno artigianale, anche se l’inganno era la sua anima perversa.

I pesci penetravano dentro la campana attirati da esche o da pane ormai scioltosi nell’acqua e poi non riuscivano più a venirne fuori perché gli spuntoni rivolti verso l’interno li sospingevano inesorabilmente sempre dentro.

Ora le nasse sono fatte di ferro ricoperto da una rete per galline. E’ un orrido manufatto, che rimane adagiato sul fondo con la sua ingombrante e inquinante sagoma.

In quella nassa c’era accucciato in un angolo un grosso polpo.

Quando scesi sul fondo mi accorsi che tutte le ventose dei grossi tentacoli sporgevano dalla rete, premevano con tutta la loro forza contro quell’assurda trappola e avevano perso tutto il loro potere.

Quando appoggiai la mia mano non avevano infatti più energia.

Salendo in superficie decisi che dovevo liberare quel povero polpo.

Scesi varie volte, ma non riuscivo ad arrivare ad afferrare quel povero essere che mi osservava avvilito e vinto.

Poi mi accorsi di una finestrella sulla nassa, chiusa con il nodo di un laccetto.

Mi iperventilai parecchie volte in superficie e scesi in varie riprese tentando di sciogliere quel nodo rinsecchito.

Quando riuscii ad aprire quello sportellino, allungai la mano e afferrai per la testa il grosso polpo, che si aggrappò immediatamente a tutto il mio braccio.

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Accucciato com’era aveva ritrovato nuove energie e le ventose premevano sulla mia pelle come se mi volessero succhiare il sangue. Intanto che risalivo stavo pure attento a non arrivare alla portata del becco che mi avrebbe lacerato la mano.

Emersi con il polpo avvinghiato all’intero braccio e urlai il mio trionfo attirando lo sguardo di Luciana.

– Povero! Lascialo andare adesso! –

– Certo! –

Aprii la mano e il polpo si staccò dal mio braccio segnato da numerosi cerchietti rossi.

Appena libero il polpo si fermò a mezz’acqua e s’imporporò, divenne letteralmente rosso porpora e si aprì in un grande mantello con le otto braccia distese.

Lo raggiunsi e cominciai a grattargli la testa in mezzo agli occhi che mi osservavano come sbalorditi e incantati.

E allora avvenne il prodigio!

Un braccio si sollevò verso di me e mi diede un buffetto sulla spalla.

Poi un altro si allungò verso di me come se volesse battere cinque con la mia mano protesa.

Mi bloccai anch’io a mezz’acqua e giuro che dai miei occhi sgorgarono, immediate e improvvise, lacrime di gioia.

Mentre scendeva verso il fondale come un magnifico drappo rosato, continuai a giocare con lui e a fargli il solletico e uno dei suoi tentacoli a turno si allungava in una timida carezza.

Quando raggiunse il fondale si accucciò, assunse i colori dei sassolini e mentre scompariva magicamente davanti ai miei occhi commossi alzò l’ottavo braccio e ….. mi salutò!

 

°°°

( da “Mari e Monti” racconti)


AMAMI

Amami

fino a quando il dolor dell’abbandono

non sarà giunto alla pelle

perché io possa controllar le venature

pur nell’angoscia della mia solitudine.

 

Amami

pur tra le salmastre evasioni

di un cuore naufragato ai confini

di un mare in tempesta.

 

Amami

perché possa tornare da te

ogni volta che l’ansia di partire

mi sconvolge di più

dei tuoi amplessi.

Non c’è amore senza abbandono.

Non c’è gioia senza dolore.

Non c’è partecipazione senza solitudine.

Si abbandona per trovar la forza di ritornare.

Lo spirito ha bisogno di rinvigorirsi lontano dalla sicurezza e dal calduccio di un’alcova.

Chi può dire di non aver provato un attimo di evasione dopo un rapporto pur infiammato e passionale?

Perciò amami, perché ritornerò!

( da “Il vecchio e il promontorio”)


L’INIZIAZIONE

Finalmente soli!

Mi gira un po’ la testa. E’ come una vertigine schiumosa che invece di rendere i miei sensi più addormentati me li solletica in modo inebriante. Sento, vedo, odoro meglio di ieri, meglio di oggi, meglio di sempre.

Finalmente ho diciotto anni!

E’ come se avessi raggiunto il traguardo di una maratona.

Adesso tutto è possibile!

E ora, in questo preciso momento, sono con te!

Le risate dei miei coscritti arrivano confuse e sincopate. Secondo me hanno ormai le menti così ottenebrate dalla birra che fra poco crolleranno uno nelle braccia dell’altro e dormiranno fino a domani a mezzogiorno.

Loro non ce l’hanno fatta a resistere. Io sì perché volevo essere adesso qui con te. Da solo.

E’ stata una brillante idea quella di scendere qui sotto nel cuore del crotto dove un’aria sotterranea arriva chissà da dove tra giganteschi massi caduti dal monte decine di migliaia di anni fa.

Quei “sorel” pizzicano la mia pelle e mi viene una grande voglia di riscaldarmi con te.

Ci troviamo tra antiche botti e damigiane impolverate. Il tavolo è di noce e laggiù in fondo c’è una “comoda” quella sedia che ha un buco coperto per i bisogni corporali durante la notte.

Sorrido pensando al vaso che si nascondeva in quel buco, ma mi ricompongo subito.

Non voglio, in una situazione del genere, che il mio sorriso venga male interpretato.

Da sopra ormai arriva solo il silenzio, un lungo profondo silenzio!

Cristo! A ben pensarci la libertà conquistata con i nostri diciotto magnifici anni si è bruciata in una sbornia gigantesca che si è spenta in quel silenzio ormai quasi assoluto.

Ti guardo. I tuoi lineamenti sono,come direbbe un prof. in questi casi, ah,ecco, classici, puri.

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La classicità non l’ho mai capita, tutte quelle storie di antichi greci mi sono sembrate sempre il frutto di una fantasia malata: centauri, dei, ninfe, titani, ciclopi, eroi, mostri….troppi miti che s’incrociavano tra di loro e non sempre ne capivi il cosiddetto messaggio nascosto!

Forse la classicità però è quella dei due bronzi di Riace, è quella della Venere di Milo, che ho imparato a guardare con occhi sensuali sui libri di Storia dell’Arte.

E la purezza è quella del marmo lavorato,è quella del vetro trasparente, è quella dell’idea di una forma, è quella fantasmagorica e variegata dell’immaginazione prima dell’evento.

Allungo la mia mano.

Non è in cerca di calore, perché l’aria fredda del “sorel” comincia a farmi tremare! No.

Io so che c’è lì in bella mostra un quadro di cui tutti i crotti di Chiavenna si fanno un vanto. Una scritta trovata in un crotto a metà Novecento e che recita così: Qui si vende vino bono e si fa scola di umanità!

Vino buono e scuola di umanità! Quella scuola che stavo cominciando a frequentare da quando è scoccata l’ora dei miei diciotto anni.

E la mia mano si allunga per provare un brivido di quella umanità.

Le mie narici cominciano a fremere, cominciano a percepire un minimo di lussuria in quell’aria frizzante da crotto, un pizzicore piacevole mi solletica.

Tu sei lì in attesa.

Ancora non conosco la tua anima, intuisco il tuo fuoco, percepisco il tuo sapore, intravedo il color di porpora che fra poco invaderà la mia mente e mi sprofonderà in quel silenzio che è ormai palpabile in quello storico crotto valchiavennasco.

Alla fine non riesco più a trattenermi e la mia mano si avvolge attorno al collo ….. di quella bottiglia di Barolo del ’56 che mio padre teneva come una reliquia nella sua cantina e che mi aveva regalato perché finalmente a 18 anni io divenissi un uomo!


IL PIANTO DEL MARE

Se è vero

          che il mare ogni tanto piange,

quante lacrime ha versato per te

che lo hai sfidato, amato, rispettato?

Ma

          le sue lacrime sono visibili

solo a chi possiede

                       un’anima marina,

solo a chi, nella più cupa tempesta,

invece della costa cerca il largo.

 

( da “Morte, a Lampedusa, di un amico in apnea”)


IL CIECO BARTIMEO

Rabbi,

apri la mia mente,

allarga i miei orizzonti,

fammi uscire da questo buio tenebroso!

Regalami i colori!

Non conosco tutte le parole

che sento pronunciare

perché la luce non è entrata

dentro la mia immaginazione!

Rabbi,

sento i tuoi passi!

Ascolto la tua voce,

ma non vedo il Tuo Volto!

Il Tuo Volto non nascondermi, Signore!

Getterò il mio mantello a terra

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e con umiltà chiederò il tuo perdono!

Renderò il mio animo più leggero

perché tu possa elevarlo alla luce!

Rabbi, ascolta la mia preghiera

e ferma il tuo andare per il mondo!

Ecco, vedi,

sono riuscito a dire al mio cuore

“Alzati e cammina!”

E ora vorrei aggiungere

“Ti vedo, Signore!

Finalmente posso camminare accanto a te

senza perdermi per la via!”

 

( da “Il Poema di Gesù”)


LUCIANO

E’ quasi sempre sconosciuto

a noi

il senso di un dolore o di una perdita.

Che restano lì sospesi

anche quando un attimo di felicità

s’insinua

tra le trame di una vita.

Tu

hai già un’aria di serietà,

una sorta di consapevolezza,

una nascosta punta di fede,

una tua personale saggezza.

E non ti ho mai visto ridere appieno.

C’era sempre dentro al tuo sorriso,

come in un’incerta luce del mattino,

una specie di spina

che torturava il tuo viso

a una bonaria accettazione di un destino.

 

( da “A due passi dai banchi di scuola”)


PERCHE’ ?

Non chiedermi

perché non temo le tempeste,

le pareti ghiacciate e gli abissi.

 

Non chiedermi

perché non torno indietro

quando le nubi mi accecano

e mi cerca insistente da ogni angolo

la solitudine.

 

Alfine

lassù

in cima

mi sento così potente e così piccolo

che mi viene sempre da piangere.


PIZZO STELLA

Aggrappato alla croce

dilaniata dalle tempeste

lassù sul Pizzo Stella

ho bevuto il calice amaro

dell’inganno.

 

I panorami erano estesi

le aquile volavano nei cieli

e silenzi ineffabili regnavano.

Ma il cuore anelava

all’ampia strada di un mare natìo

dove le albe e i tramonti

sono essenziali.

 

Preferisco annegare

che precipitare in un abisso!


CAPODANNO  SUL PIZZO BADILE

Inaccessibile, sul filo dello Spigolo

te ne vai attingendo stupore

nella pace incontrastata dei nevai.

 

Chi capirà la tua libertà?

 

Chi seguirà le tue orme sui ghiacciai

turbato dai silenzi dei crepacci?

 

Tu hai colto l’inconsistenza delle parole

e te ne vai nei cieli dell’assurdo

dove si può intuire

sognare

e pregare.

 

( da “Scaglie di granito”)