Elena Locatelli - Poesie e Racconti

Rimane solo la nebbia

 

Rimane solo la nebbia

e

il cieco peso della mia voce,

il sordo abisso delle mie guance,

lo zoppo andare delle mie ore, un tempo nostre.

 

Rimane solo la nebbia

e

quell’odore umido

della scia di niente

che ti ha seguito.


A Franca

 

Che tu non c’eri più

me l’hanno detto per disattenzione.

Per noncuranza.

Come una bella rosa lasciata sul tavolo della cucina

ad appassire.

Hai scelto l’autunno,

due giorni prima del tuo compleanno

(ultimo vezzo di donna,

quella cifra in meno sui cartelloni).

Non ti ho voluta vedere,

per pigrizia del mio cuore, già affaticato.

Avrei visto ciò che non potevi permettere che vedessi,

solo il dolore che eri diventata

dopo la lotta.

 

Un abbraccio che sa di mare,

di soprammobili etnici e di portafoto d’argento.

Questo eri.

Questo continuerai ad essere.


 

Trovami tutte le parole

 

 

Quelle incagliate nel fondo della bottiglia di porto

Che fanno a gara con la farina

E mi rubano pantofole e sogni.

Trovamele tutte

E mettile in una grande cassa di un legno che non conosco.

Sali in macchina e portaci via

fino a quando ci addormenteremo.

Lasciamole sotto il ciliegio,

credo gli piaccia, in fondo,

e andiamocene con i nostri cuori di felpa.

Qualcuna tornerà a grattare la porta di casa mia,

qualcuna troverà un’altra dimora,

molte non ce la faranno

e altrettante la pianteranno finalmente di essere.

Trovami tutte le parole,

non dimenticarne nessuna.


Kabul

 

Di queste case troppo vuote,

Di queste tombe troppo piene

Non voglio parlare, non voglio sentire.

Da solo mi basta lo scricchiolare dell’anima

Per colmare il vuoto della mia tragedia.


Ignorante

 

“Sono troppo ignorante

-mi dicevi, gli occhi a terra, il cuore stretto-

sbaglio i congiuntivi,

non ho studiato,

le poche cose che so

le ho imparate

dal bosco,

dalla neve,

dal legno,

dalle nuvole,

da te”.

 

Avevo bisogno, per salvarmi,

di tutti i tuoi “se avrei”.


 

Quinta costante. Il piede fisso a mezza potenza sull’acceleratore.

“…che sta vendendo milioni di dischi. E ora passiamo ad un altro genere, sempre sintonizzati, sempre pronti, sempre all’ascolto, sempre carichi qui…a Virgin Rock Radio… Vai Mark…”

Una canzone pseudo rock anni ottanta che lei non conosce, ma orecchiabile abbastanza da farle abbassare il finestrino della macchina per condividerla idealmente con il mondo.

Troppo zarro il braccio fuori? Agosto. Niente è troppo zarro ad agosto.

Se solo fumasse, probabilmente, anche la sigaretta che sputa arrogantemente il suo tabacco, già assaporato, sull’asfalto sarebbe consentita. Ma non fuma. E quindi niente cenere volante piena di libertà.

Lui potrebbe. Lui sì. Quando si concede degli “strappi alla regola”. Quando dopo una serata insieme le dice che sì, ha voglia di una sigaretta. E se la accende.

Invidia. Quanto in quel momento odia quella sigaretta sospesa fra le dita, che diventa incandescente al contatto con le sue labbra. Quella sigaretta un po’ troia che prende un posto che non le è proprio, la spodesta, senza chiedere il permesso, e gli fa chiudere gli occhi alla prima boccata.

Gelosa di una sigaretta.

Lui riderebbe, magari.

Magari sorriderebbe.

 

The Clash. London Calling. Yeah. Molto. Rock. Molto rock.

 

Arianna canticchia riproducendo anche quello che nella sua intenzione dovrebbe essere l’assolo di chitarra. Gli occhiali da sole in testa che le fermano i capelli. Il gomito sinistro fuori dal finestrino – zarro?- e la mano destra che picchietta a tempo sul cambio.

Un coglione con una Mini di un colore improponibile dietro di lei scalpita perché vuole superare, ma non può. E lei, stronzetta, va ancora un po’ più piano…e quando finalmente avviene l’agognato sorpasso con tanto di sgasata e sguardo truce, Arianna ride. Perché? Perché sì. Perché quando non hai orari ed è la strada stessa che ti scivola delicatamente sotto le ruote, dicendoti che non devi correre, tanto arriverai, lui ti aspetta, è una vita che lo fa, come direbbe Fabio Volo, allora puoi goderti il viaggio. Quando arriva l’inverno, poi, la ventola del riscaldamento posizionata al massimo diventa un sottofondo vagamente felino. Fa anche un po’ compagnia, se si aspetta lui. Se lui c’è, il riscaldamento viene alzato i primi due minuti e poi si spegne. Non c’è più bisogno di calore artificiale. E neanche della sigaretta.

Non hanno bisogno di nient’altro.

 

“Beat on the brat…with the baseball bat…oh yeah…with a brat like this always on your back…what can you do?”

 

I Ramones nelle orecchie e il trucco leggermente sbavato sotto l’occhio sinistro…Fossero i Kiss riuscirebbe a credere nei segni del destino. Con la falange dell’indice tenta di risolvere la situazione. Ma non importa. Non importa perché sta già girando attorno alla rotonda e tra poco sarà sul cavalcavia. Ora quella rotatoria viene affrontata afferrando il volante con una sola mano. Le prime volte con la patente fresca no. Impensabile. Le prime volte erano devastanti. Se poi sul sedile passeggero c’è la persona che ami, che non vuoi deludere, che vuoi che dica “guidi proprio bene”, tutto è ancora più difficile. Però tanto bello.

Quella dolce ansia.

Quel brivido lungo la schiena.

La gamba non abituata un po’ tremante per lo sforzo che la frizione comporta.

Un bacio, solo un bacio, e si scioglie tutto.

 

Pochi metri ormai. Si chiede quante volte avrà fatto quella strada. E quante diverse Arianna avranno posteggiato in quella piccola via, più discreta dello stradone principale. “Arianne” speranzose, emozionate, stanche, con gli occhi lucidi, arrabbiate, spaventate, esaltate, con un regalo sul sedile, con una canzone preparata nel lettore cd che sembri casuale, ma che crei atmosfera, magari da cantare tutti e due sottovoce. E ancora, preoccupate, agitate per non essere all’altezza, con i discorsi preparati in testa, addirittura con racconti stampati silenziosamente di notte e riposti prima di partire nel cassettino davanti, racconti che lui non leggerà mai.

Forse.

 

“Ciao tesoro..” Lui sale in macchina.

“…”

“Tutto ok?” Sguardo preoccupato.

“Per quanto io possa pensarti, tu riesci sempre a spiazzarmi.”

Sorride. E tutta la strada percorsa ha un senso.

 

“Andiamo?”

 

“Andiamo.”


 

“Sono giorni che è davanti a quel quadro, Padre.”

Dall’altra parte della rete un paio di stanchi occhi azzurri si sollevano divertiti.

“Evidentemente ama il suo lavoro, Matteo. Che il buon Dio ti faccia diventare meno sospettoso, figliolo!”

Quel ragazzotto di campagna esce dal confessionale. Apre la tendina con fare risoluto. Questa volta no. Non si sta sbagliando. Non crede che la Perpetua stia avvelenando il Don o che qualcuno abbia messo dell’oppio nell’incensiere. Stavolta è sicuro.

“Padre, ha finito il restauro ieri mattina. E ora sono le sette di sera. Nessuno l’ha vista uscire dalla chiesa la notte scorsa…”

Don Stefano alza lo sguardo verso le arcate a vela. Verso l’impalcatura e l’affresco.

E infatti guardando attentamente nell’ombra la trova lì.

Quieta come un gatto di porcellana, seduta sulle assi di legno, il colore secco su tutta la tuta e una strana casuale maschera tribale sulle guance, i capelli castani legati dietro la nuca ancora odoranti di fissante, quasi bella con i raggi colorati provenienti dalla grande vetrata. Raggi di un sole affaticato.

Ma nessun pennello in mano.

“Signorina – la chiama quel vecchietto con la tonaca e gli occhi cielo – tutto a posto? Figliola, lo sa, vero, che non la paghiamo a ore?”

La ragazza non si muove. Ma sorride. E risponde.

“Ne sono al corrente, Padre. Stasera me ne andrò.”

Rivolta più al quadro che a quella coppia di piccoli uomini.

***

Costantino vede stagliarsi nel cielo la croce che lo condurrà alla vittoria. Non ha più alcuna incertezza e i timori della notte nella tenda imperiale dell’accampamento si sono dissolti. Sarà il segno che il suo popolo cerca.

Il braccio destro levato in alto per indicare la salvezza e quello sinistro piegato davanti al suo esercito, ormai santo, da offrire a Dio.

Niente di diverso da ciò che Elle può aver trovato nei suoi manuali di iconografia sacra, un lavoro non troppo difficile vista la tecnica pittorica piuttosto semplice antica di cinque secoli e facilmente ricostruibile.

Colore su colore è riemerso tutto. Anche lui.

Allontanarsi da quel volto è una sofferenza che non avrebbe mai immaginato.

Il punto focale della scena è l’imperatore, alla sua sinistra si compattano almeno 15 figure, sei visibili interamente e riconoscibili come centurioni, le altre intuibili solo per scorci:uno scudo, una mano levata, un cimiero, una lancia… un viso. Quel viso.

Quel viso rivolto altrove. Che se ne frega degli angeli là in alto con le loro arpe. Quel viso che magari sta pensando a casa, o alla donna a cui ha dovuto dire “arrivederci”, perchè “addio” faceva troppa paura.

Le labbra sottili in un dolceamaro sorriso, come tutti i sorrisi di cui vale la pena parlare, appena accennato, enormi occhi color dell’autunno inoltrato, magari secondo i canoni un po’ troppo grandi per le proporzioni di quel viso così sproporzionatamente armonico, così lucidi e troppo umani in un affresco così divino.

L’unico viso che non parlava di guerra o di fede, ma che si chiedeva che fede può esserci nella guerra. Una inarrestabile, eretica dolcezza.

Elle ritira i pennelli attorno a lei, disposti come il cerchio magico che disegnava da bambina per proteggersi quando bisognava spegnere la luce e le ombre venivano a cercarla, e si asciuga quelle lacrime strane.

Che sanno di vittoria.

E di sconfitta.

“Arrivederci”.

Addio fa troppa paura.

***

“Sì, non si preoccupi signor Leoni…Il suo quadro di famiglia sarà come nuovo nel giro di un paio di giorni… Sì, non c’è più molto da fare. La chiamavo per confermare l’indirizzo a cui devo farlo recapitare… Roma? Sì esatto… saremo nelle mani delle poste, signore…Buona giornata a lei.”

Un ritratto del diciottesimo secolo di un conte dall’aria altera con il suo cane da caccia. E un sacco di muffa. L’antenato del signor Leoni non sarebbe stato entusiasta di come era stata trattata la sua fedele riproduzione su tela. E neanche il suo cane avrebbe fatto i salti di gioia.

E quel ritratto è, per giunta, grosso come il quel piccolo monolocale tutto imbrattato. Si ricorda di aver tentato, in principio, di dare qualche mano di vernice uniforme, ma erano stati vani propositi, fino a che le pareti erano diventate bloc notes di bozzetti e enormi tavolozze.

Continuerà domani. Con la luce pura del mattino. Ora è tutto un po’ troppo arancione per poter fare un buon lavoro che non richieda ritocchi. Il tramonto impertinente sul mare d’argento la chiama alla finestra. E le onde, subito smentite dagli strilli dei gabbiani, continuano inarrestabili a fare promesse che non potranno mantenere.

Elle si accovaccia sulla finestra con la sua tazza di tè verde caldo e fumante, il maglione lungo sulle mani per non scottarsi.

E poi lo vede. Chinato su una rete da pesca da rammendare.

Avrebbe riconosciuto quel profilo ovunque. Dopo più di un anno.

Una inarrestabile ed eretica dolcezza.

Le cade la tazza e tutto tace.

‘Non devo perderlo’

Sbatte contro la scatola dei pennelli.

‘Qualsiasi cosa accada’

Apre la porta e non la chiude nemmeno.

‘Non se ne andrà un’altra volta’

Si butta giù dalle scale travolgendo la signora Di Leva che trasporta due pesanti sacchi della spesa. Non la sente nemmeno quando mugugna qualcosa riguardo alla fretta di questi giovani d’oggi.

‘Non te ne andare, ti prego’

Schiaccia il pulsante e apre il portone.

‘Gli dirò tutto’

Corre a perdifiato lungo tutta la discesa che va alla spiaggia dei pescatori.

‘Ciao, sono Elle…No. Come va? No. Vuoi Salire da me?…No. Ho bisogno di un modello…No.’

Si toglie le scarpe al volo e le getta via. Nessun intralcio, nessun impedimento.

‘Non te ne andare’

Corre sulla sabbia. Lui alza quegli occhi sproporzionatamente armonici.

‘…’

Elle si ferma. E parla.

“Io…io…io ti ho trovato in un affresco”

Che cosa stupida da dire.

Lui sorride. A modo suo. Con le sue labbra sottili. Un sorriso che vale la pena di raccontare.

“E io ti ho trovato.”

Dolceamaro.

“Finalmente”.


Io e Luca

 

“Così però è davvero troppo facile!”

Lo guardai sorpreso. Eravamo sdraiati sull’erba da almeno due ore e non gli avevo sentito dire nemmeno una parola. Aveva la voce un po’ roca per colpa di quella sigaretta che aveva rubato dalla tasca del cappotto di suo padre. Non ci piaceva veramente, ma ci sentivamo così grandi, così uomini, così veri e reali a inalare quel fumo disgustoso e magico.

Non gli chiesi una spiegazione, solo lo guardai. Non c’era bisogno di domande, sapevo già che lo irritavano da morire, “le vere risposte arrivano da sole senza essere chiamate” diceva sempre. Mi limitai a fissarlo.

“Non si può semplicemente sperare di poter vivere le cose con una rete di protezione, vivere davvero, dico. Non è onesto, né leale, è solo scorretto, e da codardi. A volte è meglio morire per tua scelta che sopravvivere per lo sforzo di altri.”

Capii a cosa si stava riferendo. Quella mattina a scuola ci avevano fatto leggere la storia di quel greco dal naso adunco che si faceva chiamare a volte Ulisse, a volte Nessuno (tutto dipende da chi glielo chiede e questo avvalora la teoria che le domande portano solo a inganni, meglio aspettare che le risposte arrivino da sole), che si era fatto legare dai suoi compagni all’albero maestro della nave per poter ascoltare il meraviglioso e fatale canto delle sirene senza caderne vittima. Agli altri tappi nelle orecchie, e via così.

Io avevo ingenuamente creduto che fosse stata molto intelligente ed estremamente scaltra l’idea di saziare la sete di conoscenza, senza pagare un prezzo tanto alto. La mia timida perplessità doveva avergli sfiorato le ciglia, mi guardò un secondo, sospirò e continuò a perdersi nelle stelle.

“Sì, sì… Furbo è stato furbo, niente da dire. Ma l’onestà dell’esperienza è un’altra cosa. È rimasto con il debito attaccato alle sue orecchie troppo affamate e alla sua anima troppo ladra per pagare quello che c’è da pagare. Doveva finire tra le braccia della sua sirena, a morire guardandola negli occhi e impazzire perché non potrà mai averla completamente. E poi essere divorato pezzo a pezzo. Sarebbe stato più onesto.”

Lo capii e guardai le stelle con lui in silenzio. Erano giorni strani, frenetici, crudeli e gentili. I nostri genitori erano seri e tristi e noi non capivamo o non volevamo capire perché. Io scrivevo le notizie scolastiche sul giornalino di classe e Luca mi dava in mano le sue poesie perché le pubblicassi. Le copiavo con la mia Olivetti e custodivo gelosamente i suoi fogli scritti a mano. Aveva quella grafia leggera e allungata che non c’entrava nulla con i solchi profondi delle sue parole. La mia era infantile e falsamente troppo creativa per uno che era poco più che un compilatore, mi vergognavo di quella scrittura che non mi rispecchiava e per questo avevo fatto carte false per la mia piccola Olivetti. Anche in quel caso Luca mi aveva tacciato di disonestà, ma solo quella sera, sotto le stelle e con le sirene nel cuore, cominciai a capire cosa veramente volesse dire.

“Dai, bello mio… Vado a casa che devo finire di leggere tutte quelle stronzate di geografia.”

Sospirai.

“Io rimango qui ancora un po’.”

Si allontanò come la primavera.

Continuando a sbagliare, mi chiesi quando sarei stato capace di ordinare al mio equipaggio di sciogliere i nodi che mi stringevano i polsi e il respiro.


Già so cosa farà.

La preferirà a me.

Sceglierà lei.

Lei che è così viva, calda. Lei che si fa sfiorare. Lei che si fa accarezzare. Lei che sa sorridere senza cadere in mille pezzi.

Come dargli torto? Io sono l’esatto contrario.

Inutilmente bella, se nessuno mi può amare.

Fredda, distaccata, incapace di sorridere e di arrossire. Trasparente, futile. Solo un bel soprammobile. Qualcuno mi lancia un’occhiata ogni tanto, ma poi ritorna alla conversazione con gli amici. Quella signora con l’abito giallo sta dicendo al marito che mi hanno fatto proprio bene. Sembro opera di un artista.

Se solo sapesse quanto si soffre a stare in questo corpo. Tutta arte sprecata.

 

Stanno arrivando proprio tutti. E’ evidentemente finito l’aperitivo nel parco. Con questa bella giornata e questo sole non potevo proprio stare fuori anch’io.

Ho potuto solo vederlo di sfuggita quando è entrato nel salone a cambiare un paio di nomi per l’assegnazione dei posti a tavola, venti minuti fa.

Alto, elegante. Come se potesse non esserlo… E’ il fratello della sposa.

L’eleganza non è l’abito che si indossa, ma come lo si indossa… Questo lo so anche io che di abiti non ne indosso.

Ha preso la penna dal taschino della giacca e ha fatto le correzioni dell’ultimo minuto sul tabellone. Poi, mentre rimetteva la penna la suo posto, si è girato e mi ha vista.

Ha fatto l’espressione che fanno tutti quando mi vedono per la prima volta.

Mio padre stesso poco dopo la mia nascita l’ha avuta sul volto. Meraviglia, un po’ di imbarazzo. Spaventoso fascino. Così effimero come me.

Poco dopo si dimenticano già di avermi vista.

Invece lui no. Lui si è fermato, ha sospirato e mi ha sorriso.

 

E poi è entrata lei, con il suo abito pesca e i capelli biondo rame.

Lei viva, lei calda. Lei che vuole lui e io lo so.

Ha riso. La risata più dolce che si possa immaginare, miele sonoro.

“Dan! Ti stanno cercando tutti!- si è accorta che guardava verso di me- Che fai? Aspetti che ti risponda? Muoviti a segnare Mark e raggiungici… Non sta bene abbandonare una povera fanciulla così…”

Ha sbattuto le ciglia, gli ha fatto l’occhiolino.

Ha fatto marcia indietro ed è uscita.

 

Lui l’ha seguita sorridendo, ma prima di abbandonare la sala si è girato ancora a guardarmi.

 

A guardare me, che sono solo una statua di ghiaccio con un cuore, immobile vicino alle bottiglie di vino.

 

Darei qualsiasi cosa per farmi sciogliere dalle sue mani.


 Suonami una canzone

 

17 Settembre

 

Addomesticare il dolore. Puntargli un coltello alla gola e urlargli di tacere, sibilare con disprezzo tra i denti di non farsi più sentire, schiaffeggiarlo fino a intontirlo rendendolo innocuo, iniettargli nelle vene una droga che lo porti al silenzio. Con la schiena appoggiata al tronco di quella quercia, Arianna cercava l’arma giusta per uccidere quella morsa che la consumava dall’interno, minuto dopo minuto. Non aveva ancora pianto.

Non l’aveva ancora fatto solo perché temeva che non sarebbe stata mai abbastanza forte per smettere. Che cosa stupida. Tutti prima o poi smettono.

Ma non credeva che le sarebbe stato possibile. E quindi non piangeva. Aspettava seduta nell’erba, all’ombra della pianta, con il vestito della domenica e le scarpe lucide. Aspettava che finalmente quel dolore fosse rinchiuso nel vaso di Pandora del suo cuore perché non voleva più domande, non voleva più consigli, non voleva più giudizi.

Aveva dato una possibilità alle persone che aveva accanto di capirlo, quel dolore, e tutti, uno dopo l’altro, avevano fallito miseramente. Suo padre, il parroco, Lucia…

In quel pomeriggio ancora caldo di metà settembre chiudeva gli occhi e si soffermava su ogni piccolo dettaglio, cercando di sentire ogni cosa con gli altri sensi che aveva: così appariva improvvisamente il profumo dell’erba da tagliare e della terra fresca, il solletico dei petali delle pratoline sulle caviglie, il passerotto, o forse una cinciallegra, sul ramo più alto della quercia e il vento che fischiava leggero tra le ruote della sua bicicletta bianca, lì accanto a lei. E piano piano quella stretta al cuore si allentava e la lasciava respirare. Sapeva che non sarebbe durato a lungo, ma era il momento di agire, o sarebbe rimasta lì per sempre.

Si alzò, salì velocemente sulla sua Bianchina, non guardò la stupenda e terribile villa alle sue spalle e pedalò veloce verso casa.

 

“Oh, bene! Eccoti! Devo finire i conti per domani che siamo a fine mese… Direi che non è andata malissimo, dai… Chiudiamo in positivo… O almeno, credo…”

Il Signor Azzurri, proprietario della libreria “Parole di carta” di Buonconvento in Toscana, non ci sapeva proprio fare con i numeri. Amava le parole e non apprezzava qualsiasi segno grafico fosse così “senz’anima come quelle cifre lì”.

Non gli piacevano a tal punto che per i normali conti di tutti i giorni aveva da sempre chiesto un controllo aggiuntivo della figlia, che durante il liceo era ben contenta di aiutarlo a gestire le entrate e le uscite del piccolo negozio. Poi, dal semplice lavoro di ragioniera, era passata a proporre nuove idee e nuovi libri per modernizzare un po’ quell’inventario che si era fermato a prima della guerra.

Perché dopo la guerra la gente aveva voglia di leggere per dimenticare ciò che era stato. O per ricordare com’era prima. O per avere una speranza ancora.

Perché la guerra era passata anche per l’unica libreria di Buonconvento. Ed era stata atroce.

Non perché mancassero i soldi per vivere, grazie a Dio non fu il loro caso, ma proprio perché ancora c’era qualcuno che comprava i libri. Per bruciarli. Perché costavano meno della legna da ardere, confiscata dall’esercito. Gli Azzurri amavano così tanto ogni copia di ogni scaffale per accettare con leggerezza il fatto che sarebbe stata profanata in quella maniera così crudele. Ma quei pochi soldi servivano. E così consegnarono al rogo Omero, Plauto, Dante e Leopardi, avendoli venduti per trenta denari.

“Hai calcolato le “Poesie” di Maragall che ho venduto ieri? Eri già uscito e non le ho segnate.”

“Sei riuscita a venderlo?! Non ci posso credere… A chi può interessare un catalano che parla di mucche?”

“A chi magari ci vede qualcosa in più di una mucca, papà… Se abbiamo tempo stasera, da qualche parte l’avevo trascritta. Dagli una occhiata seria. A parte il titolo quella poesia è notevole…”

Fitta di dolore non addomesticato del tutto.

“Stasera non so se riesco, piccola… Devo preparare l’ordine per quegli spartiti che mi avevi chiesto.”

Il dolore sta vincendo, Arianna. Rimandalo giù, strozzalo.

“Sì. Solo se fai in tempo. Non preoccuparti.”

Un paio di respiri ancora e passa…

“Come si chiamava? Debussy? Derussy? De Sanny?…”

Arianna si gira di schiena e ricaccia indietro le lacrime. O così o piangerà per sempre.

“Debussy, papà. Il primo che hai detto. Vado in camera a riposare un po’.”

Chiude immediatamente la porta dietro di sé.

Non si può addomesticare il dolore.

Pensa questo mentre piccole gocce di acqua salata le rigano il volto.

 

Un anno prima.

“Guarda, Lucia! Senza mani!” Urlava come una ragazzina appena uscita da scuola mentre staccava le mani dal manubrio della sua bicicletta nuova e bianca.

Lucia la guardava e rideva, pedalandole a fianco.

“Tra un po’ anche senza denti, stupida! Attaccati!”

“Che noiosa che sei diventata da quando te ne stai a Firenze! Va bene, va bene… Eseguo i suoi ordini, signora professoressa!”

Frenavano e si andavano a sedere sulla fontana. Col fiatone, felici e un po’ spettinate. Come dovrebbero essere tutte le ragazze della loro età.

“Parlami di Firenze.”

“Ma, Ari, ancora?!? Non ti sei stancata di sentirmi dire sempre le stesse cose? Beh, le suore sono inflessibili. Bombe o non bombe, ma basta uno sgarro al coprifuoco e non mangi più la frutta per due settimane. Ragazzi ovviamente nemmeno l’ombra…se capita di incrociare quelli del collegio le pinguine urlano – Occhi a terra e mente a Dio! -, ma tutte riusciamo a mandare i bigliettini di nascosto perché la Carla ha il cugino che è al secondo anno lì e si parla così… Tutte le settimane si aspetta che la Carla vada a trovare gli zii per avere notizie. E poi, vabbè, i corsi…”

“Cosa state facendo ora? Livio? Plutarco?” Curiosità che divora.

“Macchè! Si fa Platone… Uno strazio, ma si deve. A fine mese esame con versione di 150 parole. Insuperabile. Dai, Ari, vieni anche tu a Firenze con me! Non sei mai uscita da qui… Sai quanto ci divertiremmo insieme contro le pinguine?”

“Sai che vorrei- Arianna sospirava pensando che è vero, non è mai andata fuori dai confini di quel paesino – ma non sono ricca come te. Stiamo bene, ma l’Università è davvero una spesa che non mi sento di far sostenere a papà adesso. La libreria sta riprendendo lentamente e ci vuole lavoro…e qui ci sto bene, in fondo. Ho i miei libri, e con quelli vado dove mi pare.”

Poteva sembrare una magra consolazione, ma per Arianna era davvero così. Le bastava un buon libro e una tazza di tè caldo, forte e amaro. La felicità costava davvero pochissimo. Il padre sei anni prima l’aveva iscritta al liceo perché voleva che imparasse ad amare la letteratura almeno quanto l’amava lui, e la piccola Azzurri non aveva deluso le aspettative. Anzi, le aveva superate. E infatti la scelta di non iscriversi all’Università era stata sofferta e per nulla facile. Un po’ la guerra, un po’ la paura del padre a sapere la figlia così lontana nella tentacolare città, Arianna aveva optato per farsi una cultura polverosa e alternativa nel negozio di famiglia, leggendo poeti valenziani, maestri siciliani e prosisti neogreci. Traduceva molti testi dal francese per il padre, e stava cercando di imparare un po’ di inglese.

E alla fine si era convinta che era molto meglio così.

“La mia sognatrice alternativa…-e la abbracciava forte-…è che mi manchi lì in in educandato, Ari, mi manchi da morire…”

“Sai sempre dove trovarmi…”

“Qui?” Chiese Lucia indicando la fontana al centro della piazza.

“No…- La libraia posò il dito indice sul cuore della futura dottoressa in lettere

-…qui.”

 

“Lo senti anche tu?” Arianna aveva improvvisamente frenato.

“Cosa dovrei sentire?” Lucia la raggiunse e frenò a sua volta.

“Questa musica… Credo sia un pianoforte. Viene da là.” Indicò con la testa un sentiero tra i campi che portava a una grande e maestosa villa che fino a pochi istanti prima le due ragazze credevano disabitata da almeno 3 o 4 anni.

Lucia fece spallucce.

“Boh, saranno nuovi felici abitanti di Buonconvento. Io me ne vado a casa, Ari… Sono stanca e domani devo fare la valigia di nuovo.”

Si scambiarono un veloce bacio sulla guancia. Lucia partì veloce verso casa, ma Arianna rimase ferma. Dei nuovi abitanti? A Buonconvento? E nessuno ha visto nulla? Non un carro per i traslochi né qualcuno presentato in Chiesa la mattina a messa, come era solito per i nuovi arrivati. E poi quella melodia… Mai sentita prima, eppure era come se la conoscesse da sempre, fatta da pause e rincorse. Scale di note che con naturalezza arrivavano in punti nascosti dentro di lei che non sapeva neanche di avere.

Non sapeva dire quanto tempo era passato da quando Lucia se n’era andata, ma il cielo aveva quella luce che precede la violenza di sangue del tramonto. Era tardi. Doveva andare a casa. Ma non si mosse. Solo dopo alcuni istanti ricominciò a pedalare. In direzione della villa.

 

La musica veniva senza dubbio dal lato destro della costruzione, che si apriva in una veranda le cui colonne portanti erano avvinte dall’edera e dalle rose selvatiche. L’erba era alta e il sentiero ormai un ricordo. Ma mancavano pochi metri ormai. Lasciò cadere silenziosamente la bici e si diresse lentamente in direzione di quelle note. Appoggiò le mani all’angolo della facciata e cautamente sporse la testa oltre il limite per spiare che vita c’era dietro tutto questo.

E lo vide. Un pianoforte a coda esattamente al centro del patio, nero e lucente come un enorme insetto tropicale, con i suoi denti d’avorio e le sue gambe esili. Aperto, qualche petalo di rosa gli svolazzava impertinente vicino, ma non lo toccava, in segno di rispetto.

Stette lì trattenendo il fiato. Riusciva a scorgere solo le dita frenetiche e delicate che si rincorrevano sui tasti, ora lente, ora rapide, ora pesanti, ora solo in grado di sfiorare, quando le note dovevano essere carezze gentili. Dita lunghe, affusolate. Mani bellissime. “L’idea di mano nell’iperuranio…”

Fece un piccolo passo avanti e, alla fine, vide lui.

Gli occhi chiusi, ma felici, la testa un po’ inclinata mentre suonava. I capelli corti e castano scuro, senza lacca, sulla trentina. Una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti e dei pantaloni neri e orribili, i suoi vestiti erano tutto il contrario del suo strumento sublime. Si dondolava piano avanti e indietro cullato dalla musica che sembrava uscisse direttamente da qualche parte recondita della sua anima e, chissà per quali canali, arrivava così alle spalle, alle braccia, ai gomiti, agli avambracci, ai polsi, alle falangi fino alla punta delle dita in un soffio.

L’uomo aprì gli occhi, girò lo sguardo e la vide seminascosta dal muro, con un vestito leggero e bianco che svolazzava e i capelli sciolti. Smise di suonare.

“No, la prego, continui… Se preferisce me ne vado, ma lei continui…”

Non sapeva nemmeno lei perché lo aveva detto.

Lui sorrise, richiuse gli occhi e riprese a suonare.

Lei non respirò fino all’ultima nota.

Lui chiuse il pianoforte, sempre con le palpebre abbassate, e lo accarezzò morbidamente. La guardò allora, immobilizzata e in apnea.

“Chopin. Un notturno. Lo conosce, signorina?”

Arianna scosse la testa. Di musica a Buonconvento non ne arrivava praticamente mai. L’uomo aveva uno strano accento, probabilmente era straniero, e una voce che scivolava come la musica di questo Chopin che sembrava fatta apposta per sgusciare dietro le tende della camera da letto di due amanti innamorati.

“Si ferma a prendere una tazza di tè, signorina? Dovrà perdonare il disordine. Ma un fornelletto e una teiera li ho sicuramente. Se mi aiuta possiamo trovare anche le tazze.”

Era tardi. Suo padre si sarebbe preoccupato non vedendola rientrare. Sarebbe andato da Lucia a chiedere che fine aveva fatto e avrebbe scoperto che si erano salutate molto prima. Sarebbe andato in ansia e l’avrebbe cercata ovunque.

“Io veramente dovrei…”

“Mi scuso. Domani alla stessa ora? Mi troverà qui.”

Arianna indicò sorpresa la veranda “…qui?”

“No…-Il pianista sorrise, si alzò e si avvicino a lei. Le baciò una mano con delicatezza. Poi la guardò negli occhi, andando più in profondità, fino al cuore

-…qui.”

 

Il giorno dopo tornò. Il cielo rosa e l’erba alta. La musica la portò alla veranda. Una melodia più alta e più lieve e continua. Lui suonava ad occhi aperti questa volta e le sorrise quando arrivò, senza staccare le dita dai tasti. Arianna non aveva detto nulla a nessuno di quell’incontro. Era una cosa sua, solo ed esclusivamente sua, come sentiva sua quella musica, e quelle dita che si rincorrevano malinconicamente sulla tastiera infinita. Aveva portato un pacchetto di biscotti da tè che aveva in casa, e ora si sentiva stupidissima, in piedi così con la sua bustina color panna in mano.

La melodia finì rallentando e con una solenne nota di chiusura.

“Era ancora Chopin?” chiese timidamente.

“No, signorina. Oggi era Debussy, morto a Parigi nel ’18. Ha portato dei biscotti, vedo. La ringrazio infinitamente. Io, però, devo ancora trovare le tazze. Ma prego, entri, si accomodi.”

E le favorì l’ingresso alla casa  dalla porta a vetri laterale. Appena entrata Arianna si rese conto di come i mobili fossero davvero pochi e di come la stanza fosse spoglia. Un tavolino pieno di spartiti con una lampada ad olio metà consumata, uno specchio, un vecchio dipinto dalla tela sgualcita e moltissime scatole ancora sigillate per terra. E polvere. Un sacco di polvere. Il pianista strofinò una sedia velocemente con uno straccio e la invitò a sedersi.

“C’è ancora molto da fare qui. Ma siamo appena arrivati e prima di cominciare qualsiasi cosa Juan e io dobbiamo ambientarci un po’.”

“Juan?”

“Oh sì, il pianoforte. E’ il mio compagno da così tanti anni che ho perso il conto. Questa volta ha voluto stare fuori. Non so se è perché ritiene che la casa sia troppo polverosa o perché aspettava lei, signorina.”

Lei sorrise. Le piaceva il suo modo di parlare, lento, calmo e straniero. Forse spagnolo. Le piaceva che non si fossero presentati. Le piaceva che parlasse del suo pianoforte come se fosse una persona, le piaceva il modo in cui apriva affannosamente tutte le scatole per trovare delle tazze.

“Trovate! Fornelletto e teiera già pronti. Prego, signorina.” la passò la tazza dopo averla riempita, e immediatamente si mise a cercare lo zucchero.

Arianna non poté trattenere una risata. Lui la guardò divertito e sorpreso:

“Cosa c’è, signorina?”

“Mi scusi, è che…no, non ce la faccio…cioè…non si preoccupi e non si offenda,ma lei invita una estranea per un tè e non ha nemmeno lo zucchero?”

L’espressione dell’uomo si addolcì.

“Oh, ma lo cerco solo per me. So che lei lo prende senza zucchero. Forte e amaro, come piaceva a sua madre.”

Arianna si immobilizzò con la sua tazza fumante in una mano e i biscotti ancora chiusi nell’altra.

“E questo come lo…?”

E lui, con dolcezza:

“Semplice, signorina. Me lo ha detto Juan la prima volta che l’ha vista.”

 

Arianna portava libri e fragole a quell’uomo dallo strano accento e al suo pianoforte. Giorno dopo giorno, lei gli leggeva qualcosa mentre lui suonava, principalmente Chopin e Debussy, che le piacevano tanto e toccavano corde molto più distanti nel tempo e nello spazio di quelle fisiche del corpo di Juan. Il pianista amava l’Odissea perché ammirava la costanza di Penelope e la lealtà di Telemaco, le chiedeva sempre di leggergli Saffo e i sonetti di Quevedo perché li sentiva “veri e spietati” e poi le offriva il tè.

E parlavano e ridevano.

Sempre.

“E sentiamo… Cosa le ha detto oggi Juan di me?”

“Che non le piace la parola ‘flemma’ e che non sa cucire, signorina.”

“Tutto vero, purtroppo…”  ammetteva non senza un po’ di vergogna lei.

“Non si preoccupi, signorina. ‘Flemma’ non fa impazzire nemmeno me.”

 

Un giorno, al solito orario, Arianna arrivò ed ebbe un tuffo al cuore non sentendo nulla, se non una leggera brezza tra le fronde degli alberi. Nessuna nota, nessun accordo. Lasciò cadere malamente la sua Bianchina e corse a perdifiato attraverso tutto il cortile con il cuore che le rintronava nelle orecchie.

E li trovò lì, allo stesso posto, entrambi in silenzio a guardarsi.

“Non l’ha mai chiesto a nessuno, prima… Sono un po’ imbarazzato, signorina… Juan vorrebbe invitarla a sedersi sopra di lui mentre suoniamo, se lo desidera.”

Le sfuggiva la motivazione, il perché anche lei si sentisse imbarazzata e lusingata per l’offerta al tempo stesso. Capiva che era una concessione molto personale, ma non avrebbe saputo spiegare precisamente cosa significasse nell’etica di un pianoforte a coda. Appoggiò i libri di uno sconosciuto poeta catalano per terra e sopra di loro mise la ciotola di lamponi che aveva raccolto. Si avvicinò a Juan dolcemente e lo accarezzò con la cura con cui si accarezzano le cose più belle.

Brivido.

Con l’aiuto di uno sgabello già messo lì si sedette sopra di lui lentamente.

Chiuse gli occhi e iniziò la musica più straordinaria che avesse mai ascoltato in vita sua.

Quando li riaprì non sapeva più se erano passati 5 minuti o un anno. Non sapeva con precisione dov’era, sapeva solo che non se ne voleva andare. Che se era necessario avere un futuro, il suo doveva essere lì. Il pianista era di fronte a lei in piedi con gli occhi lucidi.

Disse solo:

“E allora non se ne vada, signorina, la prego.”

Passò tutta la notte.

Amore, lamponi e poesie.

 

Per mesi Arianna si era sentita più di una semplice libraia, si era sentita la melodia che scandisce il tempo della vita di un’altra persona. Si sentiva tutte quelle note tutte insieme, era una sua creatura fatta di parole e di aria, e non voleva essere nient’altro. Lavorava febbrilmente in negozio, aspettando solo di chiudere, mentre sceglieva cosa gli avrebbe letto e immaginava cosa avrebbe ascoltato. Aveva chiesto a suo padre di far arrivare degli spartiti dalla Francia perché voleva imparare a leggere anche quelli, a vedere il mondo con gli occhi di quell’uomo così strano, eppure così “vero e spietato” come le poesie che amava.

Se l’amore che aveva solo letto sui libri esisteva davvero, non poteva essere tanto diverso. E lei ce l’aveva. Lei e nessun’altra. Che orgoglio e che superbia in questi pensieri. Alla fine tutta quella felicità ti presenta un conto troppo salato, che non vuoi pagare, ma lei come una pittima viene a chiedertelo ogni minuto, ogni straziante secondo, fino all’ultimo centesimo, fino all’ultima goccia di sangue.

E lui se n’era andato. Così come era arrivato, senza preavviso.

Aveva lasciato una busta in mezzo alla veranda, chiusa e fatale.

Dentro un messaggio scritto con una penna nera sopra una spartito bianco.

“Torneremo, signorina. Sa dove trovarci. Con amore, Juan e io”.

 

17 e 18 Settembre

Sembrava che tutto quel dolore che aveva represso non dovesse finire mai. Piangeva silenziosamente, vibrando ad ogni contrazione dell’addome e mordendosi le labbra per non urlare, seduta al centro di camera sua, rannicchiata con le ginocchia al petto. Ogni minuto di quella notte lunghissima e crudele.

I primi raggi di sole che accarezzarono il suo guanciale intonso la trovarono ancora lì. Ma non piangeva più. Dondolava ritmicamente con gli occhi chiusi.

Si fermò, li aprì. Si guardò attorno. Si lavò la faccia e cambiò vestito.

“Piccola, vado ad aprire! Ti ho lasciato il tè caldo sul tavolo!”

Bevve il tè sola in cucina. Bollente da ustione, ma non lo sentiva nemmeno.

Raggiunse il padre in negozio. Sorrise perfino.

La bestia si era calmata. Per ora.

 

La giornata proseguì fiaccamente. Arianna faceva un po’ di pulizia sugli scaffali più alti, quelli dei saggi critici che non legge mai nessuno, impolverati e stanchi di dare opinioni acide su opere che non sarebbero stati in grado di riprodurre.

La piccola porta si aprì. Da dove era lei poteva solo ascoltare la conversazione, ma non le interessava, non le interessava nulla.

“Buongiorno, caro signore! In cosa le posso essere utile?” Suo padre era un’entusiasta e lo era sempre stato. Una di quelle persone con l’argento vivo, un filantropo convinto e sincero. Quasi fastidioso.

“Buongiorno, Signore. So che ha ordinato degli spartiti di Debussy. Sarei interessato a comprarli tutti quando arriveranno. Sono un regalo.”

Arianna non capiva più nulla, la vista le si annebbiò. Era lui. Il volume di Sansone le cadde dalla mano urtando il pavimento con un tonfo che lei non sentì nemmeno.

“Ne-nessun problema, signore… Se mi lascia il nome glieli tengo da parte. Credo che in un paio di settimane debbano arrivare.”

“Certamente. Juan Sànchez, scriva pure. Ah, un’altra cosa, se permette…-Arianna percepì un sorriso che il pianista non era riuscito a trattenere

- Sono tornato questa mattina dall’Argentina, e sono tornato per chiederle la mano di sua figlia.”