Fabrizio Conti - Poesie e Racconti

7 novembre 2020

 

 

Non mi trovavo all’inizio e nemmeno a metà del tribolo

ero proprio un poveretto sul patibolo,

 

quando il dolore e la confusione mentale diventarono così invadenti

che a nulla valse stringere i denti.

 

Invocati a mani giunte dal fondo della fossa,

i miei due angeli custodi all’unisono sentenziarono: qui ci vuole la croce rossa!

 

Così, in una mattina velata di nebbiolina

che nascondeva a stento uno splendido sole pieno di brina,

 

è arrivato un ragazzotto tutto educato

che parlava come un libro foderato.

 

Mi fa tante domande, ma proprio tante

Sempre con sguardo gentile e accomodante.

 

“Tra 2 giorni è il suo compleanno,

le passerà ogni affanno”.

 

In quel momento, per quanto soffrivo,

sospiro e piangendo dico “Chissà se ci arrivo'”.

 

La Stefi mi abbraccia e il buon uomo mi stringe la mano con forza e decisione

Sembra voler dire: “non fare il cojone!”.

 

È venuto il momento di andare,

la navicella non può aspettare.

 

A causa di un mio mancamento,

salgo sulla barella con in alto il mento.

 

Dopo aver memorizzato i 4 occhi che volevo assolutamente rivedere,

via per le scale di corsa come fere.

 

Da sdraiati il cielo è ancora più bello,

e certi occhi ti mandano via di cervello.

 

Prima di andare vediamo come va il cuore,

dice mentre mi attacca alla macchina con amore.

 

“Slivellamento in 2vs..non è proprio inf… Forse è una miocardite…

Avviso la moglie e ce ne andiamo al Silvestrini, hai bisogno di curare le tue ferite”. 

 

Slivellamento? Inf? Miocardite so che vuol dire.

Questo virus è bastardo, attacca gli organi nobili, proprio lì vuole finire.

 

Eh già, più nobile del cuore… Via, codice rosso!!!!!

La navicella viaggia veloce, corre a più non posso.

 

Non riesco a riconoscere nulla,

le sirene che vanno spiegate e l’ossigeno lentamente il dolore annulla.

 

Prendiamo un altro infermiere, non so dove sale

e finalmente arriviamo all’ospedale.

 

Tutto va veloce, che frenesia,

eppure tutto funziona come fosse una sinfonia.

 

E proprio quella fiera dove tutto è ben organizzato, 

è pronta per me, proprio per me, che mi presento mezzo accartocciato.

 

Mi sistemano alla meglio e cominciano con analisi, radiografie

ecocuore, elettrocardiogramma, pressione, ed altre diavolerie.

 

Il marziano buono e i suoi aiutanti mi salutano con energia.

In bocca al lupo, veloce, forte, e se ne vanno via.

 

Ed eccomi nelle calde mani di una squadra di api operaie

che svolgono il proprio lavoro come mondine gaie.

 

Una volta fatti tutti gli esami attendo con trepidazione.

C’è una finestra aperta, troppa aerazione.

 

Fortuna che la Stefi mi ha messo la coperta più pesante,

meno male, l’amore si sente anche da distante.

 

Dopo una attesa lunga e sfiancante,

arriva una dottoressa mingherlina, dolce e per niente esitante.

 

“Allora al cuore non c’è niente,

Stai tranquillo Fabrizio l’ecocuore non mente!”

 

Passa un altro po’ e torna con un sorriso largo ma non troppo,

“non c’è niente neanche ai polmoni e nelle analisi c’è solo qualche piccolo intoppo!”

 

A quel punto, senza volerlo, appena la tensione si è allentata

ho cominciato a piangere e la dottoressa con discrezione si è allontanata.

 

Diventato un malato non preoccupante,

comincio a diventare un paziente itinerante.

 

“C’è bisogno di posti, non ce ne sono più, come si fa?”

“sposta quello, metti quell’altro di là…”

 

Così mi ritrovo nella stanza del dottore

insieme ad un uomo ansimante, ansimante anche se ha il respiratore.

 

All’improvviso, tutta la mattina sperata

arriva lei la dottoressa tanto aspettata.

 

La conosco da sempre, ma oggi ha un sorriso insolito, forte, dolce, stanco

di un altro mondo, che bello averla a fianco!

 

Mi sento l’uomo più fortunato del pianeta

Si prende cura di me una persona così lieta

 

Sono cosciente di essere un povero paziente

Che in quello stato non può veramente fare niente

 

Eppure senza alcun merito o diritto acquisito

Tutte quelle attenzioni mi fanno sentire preferito

 

Poche parole e poi via di corsa a lavorare,

i malati sono tanti, non si può indugiare.

 

Per sicurezza mi fanno l’emogas.

Provano a farmi l’emogas…

 

Un infermiera dolcissima prova a bucare qua e là,

ma niente da fare l’arteria non ci sta.

 

Salto come un grillo dal dolore,

ma alla fine riesce a portar via qualcosa e mi torna il buon umore.

 

Torna dopo pochi minuti e c’è qualcosa che non va.

Mi attaccano subito all’ossigeno, non ricordo quanti litri, 4 o 5, chi lo sa.

 

Non capisco cosa sia capitato,

ho sempre regolarmente saturato!

 

Il dottore mi toglie l’ossigeno per vedere come va

e in effetti saturo bene, in realtà.

 

L’emogas che ho dovuto fare

dovrebbe  comunque il ritorno a casa ritardare.

 

Nel mio girovagare, condivido lo spazio con un povero Cristo tutto remissivo

che ha appena scoperto di essere positivo.

 

Intanto la mia giornata

È da tanti messaggi e preghiere accompagnata

 

Pur nel susseguirsi degli eventi 

Ho tutti ben presenti

 

Che sollievo e che compagnia

Saper di non essere solo, lì in corsia!

 

Poi arrivo in una stanza di sgombro, sprovvista di tutto,

con altri 3 vecchietti conciati per le feste, messi male di brutto.

 

Uno sta tutto storto su una sedia a rotelle

prova a respirare con l’ossigeno, ma le prospettive non sono belle.

 

Un altro se l’è fatta sotto, non ha resistito,

perché in quel trambusto generale, non è stato assistito.

 

Quello a me più vicino sembra essere un po’ più sveglio

ma è arrivato la notte, ed è ancora lì, parcheggiato alla bell’e meglio.

 

Gli si è scaricato il cellulare e non riesce ad avvisare a casa, poveretto.

Prova a ricordare il cellulare del figlio, provo a comporre il numero, ma niente, non è corretto. 

 

“Sono un po’ confuso”, si scusa docilmente…

Con il telefono fisso facciamo centro, finalmente.

 

Parla con il figlio, comunicazione essenziale,

ci risentiamo più avanti, io sto non c’è male.

 

Dopo un po’ di tempo arriva il dottore

che non mi rimanda a casa se l’emogas non risulta senza errore.

 

Va bene, riproviamo, se è proprio necessario.

Stavolta l’infermiera trova subito l’arteria e con un solo salto è finito il calvario.

 

Il risultato è buono, ma il dottore è inclemente,

“tenga il saturimetro e cammini per 5 minuti speditamente”.

 

Veloce e a passo costante, mi esorta con decisione!

Vengo da 10 giorni di febbre, diarrea, e non ricordo da quando non mangio, con precisione.

 

Non mi reggo letteralmente in piedi, però il dottore ci tiene.

Finiscono i 5 minuti, va tutto bene.

 

Come a voler rispettare il nostro patto

il dottore in pochi minuti torna ed il foglio è fatto.

 

Ti passeranno a prendere con la navetta

Ma deve fare un bel giro, non avere fretta

 

Aspetto, aspetto e aspetto…

Il freddo aumenta, fortuna la coperta che copre tutto il letto.

 

Finalmente alle sette, o giù di lì,

arriva la navetta, è la mia ora, sìiiiii!!!

 

Racimolo le mie cose e saluto i miei commilitoni

come fossimo vecchi amici, che sensazioni…

 

Entro nella navetta e mi fanno adagiare:

quanto è scomoda, ho freddo, ho tanto bisogno di bere e di mangiare.

 

Il viaggio è strano

al termine di questa giornata provare a ragionare è proprio vano.

 

Provo, da sdraiato e tutto legato, a capire dove siamo, dove stiamo passando

ma non ci riesco, so solo che la navetta sta navigando.

 

Fuori è buio e nebbioso,

sembra tutto tenebroso.

 

Finalmente devo dare le ultime indicazioni per arrivare a casa mia.

Arriviamo, mi slegano, scendo e vado via.

 

Grazie, grazie infinite, dico a quei ragazzoni

Loro mi salutano a debita distanza e ripartono veloci, verso altre missioni.

 

Dopo una giornata così piena di accadimenti,

sono di nuovo a casa, che tempesta di sentimenti.

 

Mentre salgo le scale,

mi vengono incontro quei 4 occhi per cui tanto dolore vale.

 

La mattina gli avevo detto “torno presto” con una carezza,

non so perché ne avevo la certezza.

 

Ora, stanco, affamato, in preda a mille emozioni,

a questa giornata non so dare definizioni.

 

Una cosa è chiara,

e su questo di certo non si bara:

 

sono proprio tanto amato,

anche se non l’ho per niente meritato.

 

E tutti gli sguardi d’amore oggi ricevuti sono un pegno,

di un Amore più grande sono segno.

 

È questo Amore, più che la salute quello che mi serve,

per ricordare anche nella tribolazione, che tutto è bene, senza riserve. 


 

 

In trasparenza

 

In trasparenza ammiro l’Oltre

Dentro e dietro l’altro

 

In-credibilmente,

eppure altrettanto realmente

 

Non è meno altro

Non è meno Oltre

 

Anzi, quanto più l’altro è terso

Tanto più risalta l’Oltre e vice-verso

 

… E così l’altro diventa così spesso

Che veder lui o l’Oltre è lo stesso.

 

Guardando la Claudia, Rob, Gas, Beppe, Ferro e la Paola, Branco e la Cri e tutti i miei amici di Milano (tutti e ciascuno)


 

La vita sotto la neve

 

Sospesa

In attesa di una pronta ripresa

 

Incerta

Perché ogni cosa rimane coperta

 

Stupita

Per ogni cosa che sembra infinita

 

Impaurita

Perché mette a rischio la vita

 

Meravigliata

Per quel genio che se l’è inventata

 

Incantata

Perché sospende le cose in un aria fatata

 

Festosa

Come fosse del mondo la candida sposa

 

Silenziosa

Come quando a terra la neve si posa

 

E finalmente in pace

Perché con lei tutto intorno si tace


 

L’etichettatore

 

“Ecco qua un bel carretto!”

Esclamò soddisfatto il commesso provetto

 

“Questa invece è una bella livella”

E appiccicò un’etichetta anche su quella

 

Conosceva tutto a perfezione

Aveva sempre pronta una definizione

 

Passava il giorno a catalogare oggetti

Sentenziava sicuro pregi e difetti

 

Era così abituato ad etichettare,

che altro non sapeva fare

 

“Ho una moglie perfetta”

e via con l’etichetta

 

“Anche la figlia non è niente male

Direi che è proprio originale”

 

E poi, contento di ciò che aveva fatto,

Si metteva a dormire tutto soddisfatto.

 

Le giornate scorrevano senza sorprese

Una volta etichettate, le cose, erano come attese

 

Quel lunedì, su incarico dell’associazione degli etichettatori

Entra nel negozio un uomo grigio, senza colori

 

“Caro signore, collega etichettatore

Lei che ha svolto sempre il suo lavoro con tanto onore

 

Ha un incarico molto semplice, a ben vedere

Dovrà etichettare sé stesso, dicendo solo cose vere. 

 

La descrizione dovrà essere così accurata

Che non potrà essere in alcun modo interpretata”

 

Che compito banale, per principianti

Pensò tra sé e sé… Lo sanno fare tutti quanti!!! 

 

E così, come era solito fare

Si mise subito a lavorare

 

Dunque… Innanzitutto come mi chiamo

Proprio da quello cominciamo

 

Da ciò deriva che sono figlio

Sennò il nome da chi lo piglio? 

 

Così per descrivere me senza approssimazione

Dovrei risalire per lo meno alla terza o quarta generazione! 

 

Una volta definita la genealogia

tralasciando qualche nonno e qualche zia

 

Non era soddisfatto della descrizione,

c’era qualcosa che faceva eccezione

 

Pensò che per descrivere sé stesso compiutamente 

Parlare solo dei propri avi non era sufficiente

 

“Sono un onesto lavoratore

Faccio da tanti anni l’etichettatore

 

Ho una moglie e una figlia strepitose

Devo dire anche queste cose

 

Poi c’è la lista delle cose che mi piace fare

Per sapere chi sono, devo dire cosa mi piace gustare

 

La lettura, il calcio, la musica e la natura…

Descrivere tutto ciò che mi piace è veramente dura”

 

Ma lui era così ligio ai suoi doveri

Che dovette includere anche i suoi pensieri

 

Erano così vasti, profondi e pieni di intuizioni…

Come faccio a descrivermi senza approssimazioni?

 

E poi per parlare di sé era necessario 

Parlare dei suoi amici, un mondo così vario

 

Ogni amicizia, anche quella meno vera

Aveva contribuito a farlo diventare l’uomo che era

 

E le esperienze che aveva vissuto?

Da ciascuna aveva appreso ciò che l’aveva cresciuto

 

I desideri, come si immaginava il futuro, 

Non erano meno importanti di tutto il resto, questo è sicuro

 

E così l’elenco andava avanti senza confine 

Più ci pensava, meno ne vedeva la fine

 

Mentre rincorreva tutti i particolari che costituivano il suo volto

In un mosaico che non aveva ancora risolto

 

Fu percosso da una evidenza di cui non si era mai accorto 

Ogni tentativo di etichettare sé stessi è quanto mai contorto

 

Più si entra dentro ad ogni singola persona

E più si scopre che ogni definizione è inadeguata, non funziona 

 

Che scoperta sensazionale, sono qualcosa di infinito, di misterioso

Se non riesco a definirmi neanche io stesso, sono proprio portentoso!

 

Nacque in lui una specie di venerazione

per avere di sé stesso questa percezione 

 

Scoprì di botto, in un istante

Il Mistero nel suo io, così esorbitante

 

Era questa la sua perfetta definizione

Senza la quale non c’era comprensione

 

Così tutto intorno a sé divenne nuovo, stupefacente

E capì che etichettare tutto non serve proprio a niente

 

E’ molto meglio lasciarsi stupire e guardare attentamente

Perché in tutto c’è qualcosa che la rende sorprendente


 

Lo scalpello

Un racconto per bambini di tutte le età

 

In uno scaffale pieno di arnesi

C’erano in bella mostra alcuni scalpelli appesi

 

Non essendo mai stati usati,

Sembravano proprio imbalsamati!

 

Il corpo di ferro, la forte testa

Tutti dritti e con la punta lesta,

 

Erano intenti a parlamentare

Su cosa dovessero diventare.

 

“Io sono così bello

Che non posso certamente rovinarmi il cappello!”

 

“Io invece sono nato stanco

E non ho certo voglia di fare il saltimbanco!”

 

“Io veramente cosa sono non lo so

Ma di certo a qualche cosa servirò!”

 

Disse fiero uno scalpello

Ignaro d’aspettare il suo martello.

 

La discussione si fece furente

Quando entrò un uomo con il basco pendente.

 

Capelli arruffati e fare scattoso

Cercava proprio uno scalpello voglioso.

 

“Chi di voi mi vuole aiutare

In un’opera in cui mi voglio cimentare?

 

Faremo insieme una cosa grandiosa:

Uno sposo in braccio alla sua sposa”

 

“Non aspettavo altro che d’essere usato!”

Disse lo scalpello all’uomo scalmanato,

 

“cominciavo a dubitare della mia utilità

Con tutta questa inattività!”

 

Iniziando la sua avventura

Cominciò ad avere un po’ di paura

 

Quante botte e quanto stridore

Per seguir di quell’uomo tutto l’ardore!

 

Pian piano la punta si arrotondava

Mentre l’opera di marmo si completava

 

Ormai sfinito per il tanto lavoro

Si riposò un momento su di un cuscino d’oro

 

Con la testa tutta disfatta

Si mise a guardare quell’opera ormai fatta:

 

che spettacolo, che meraviglia,

Più che una sposa sembrava una figlia!

 

Teneva in braccio il suo sposo

Che sembrava giacere in un tenero riposo

 

Lo scalpello allora si commosse profondamente

A veder quella scena così attraente!

 

Vedendo cosa aveva scolpito

Capì di botto a cosa era servito.

 

Aveva messo a disposizione le sue doti

Ad un certo Michelangelo Buonarroti!

 

Veramente felice d’aver detto di sì

Ad un uomo valoroso così,

 

Si addormentò tutto stupito

Immaginando domani a cosa sarebbe servito! 

 

 

 

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Giacomino la talpa

Un racconto per bambini di tutte le età

 

Giacomino era una talpa molto strana. Al contrario dei suoi amici non sopportava il buio delle scure gallerie scavate nella terra. Preferiva vivere sulla superficie dove la luce del sole illuminava tutto e il calore lo riscaldava pigramente. Passava intere giornate a pancia all’aria guardando le nuvole cambiare continuamente forma. I suoi genitori e i suoi amici si affaccendavano scavando gallerie alla ricerca di lombrichi, vermi e delizie di ogni genere e rimproveravano spesso Giacomino:

“Aiutaci Giacomino, non fare sempre lo svogliato!” Ma lui rispondeva:

“Perché devo lavorare tutto il giorno quando qui sopra è così bello, non ci sono gallerie da scavare, tutto è disponibile senza fatica?”

Mano a mano che passavano gli anni perciò Giacomino vedeva sempre meglio e lavorava sempre meno, il minimo indispensabile per procurarsi il cibo necessario a sopravvivere. Un’estate però avvenne un fatto molto strano: per circa tre mesi non piovve mai e la terra divenne dura come non lo era mai stata. Giacomino tentò come sempre di scavare le sue gallerie cercando la parte più morbida, soffice, più superficiale, ma per quanto la cercasse non riusciva proprio a trovarla. Tutto era diventato duro, impenetrabile: il musetto e le povere zampe di Giacomino, a causa dello scarso uso che ne aveva fatto per tutto quel tempo, erano diventate incapaci di perforare anche la minima crosta che quell’estate così siccitosa aveva formato. La situazione si faceva di giorno in giorno più difficile: Giacomino dimagriva terribilmente e non riusciva più ad apprezzare neanche il sole che fino a quel giorno gli piaceva così tanto. Quando ormai pensava non ci fosse più speranza per lui conobbe Pasqualina. Era un portento di talpa! Scavava gallerie profonde e larghe e riusciva a procurare cibo per sé e per la sua famiglia. Il papà infatti non ce l’aveva più e la mamma era ammalata: toccava a lei che era la figlia più grande, sfamare i suoi due fratellini piccoli. Giacomino la vide mentre si accingeva a scavare una galleria: lavorava alacremente, senza sosta e nello stesso tempo senza ansia, senza fretta. Fu colpito soprattutto dalle zampe particolarmente sviluppate e armoniose che Pasqualina sfruttava abilmente per scansare la terra scavata.

“Come ti chiami?”, chiese Giacomino.

Sorpresa dalla voce e non avendo visto chi parlava (come tutte le talpe non ci vedeva molto bene), si girò di scatto:

“Mi hai quasi messo paura! Il mio nome è Pasqualina. Tu cosa stai facendo lì sdraiato?”.

Giacomino non sapeva cosa rispondere: si vergognava un po’ della sua condizione e nello stesso tempo avrebbe voluto tanto farsi aiutare.

“Diciamo che sto aspettando che cominci a piovere, così potrò scavare comode gallerie nella terra che si sarà ammorbidita”

“E nel frattempo perdi tutto questo tempo?”

Già, non si era mai accorto del tempo che passava.

“Hai ragione, ma ormai le mie povere zampe sono diventate piccole e deboli, la mia vista si è sviluppata così tanto che faticherei a rientrare in una galleria: e poi le gallerie non sono così interessanti …”

“Su questo ti sbagli” disse pacatamente Pasqualina, “più vai sotto terra e più troverai cibo fresco, succulento, che potrai gustare e riportare in superficie per i tuoi famigliari. Parli così perché ti sei fermato sempre a scavare gallerie in superficie, dove i lombrichi sono secchi per il caldo e i vermiciattoli che emergono sono solo quelli più piccoli.”

“Veramente è così bello giù in profondità?”

“Se mi segui potrai credere tu stesso a ciò che vedrai”

Nonostante le sue paure e la debolezza si fidò della talpa e la seguì. Dietro Pasqualina era veramente facile camminare nelle gallerie: lei apriva comodi corridoi in cui Giacomino entrava agevolmente, anche perché era diventato molto magro. Nonostante ciò procedeva lentamente e con molta fatica, perché non era più abituato neanche a camminare. Eppure le cose che vedeva cominciavano a piacergli. Era proprio come gli aveva detto Pasqualina, ma vedere con i propri occhi e mangiare con la propria bocca era tutta un’altra cosa.

“Grazie,” disse commosso, “non so proprio come avrei fatto senza di te”

“Non ti preoccupare Giacomino, anche io ero come te …”

Quell’esperienza fu così soddisfacente che da allora la nostra talpa Giacomino non rinunciò più al gusto (e alla fatica) di scavare gallerie sempre più profonde e scoprì così come era bello essere una talpa. 


 

 

Il ragazzo nella bolla

Un racconto per bambini di tutte le età

 

Ho conosciuto un ragazzo che viveva in una bolla. Una splendida bolla di sapone, bella comoda, spaziosa, con tutti ciò che serve: una soffice poltrona, un gran bel televisore, tanta musica, una cucina e una camera da letto con un cielo stellato disegnato sul soffitto. L’invenzione delle bolle aveva rivoluzionato il mondo: erano così diffuse che ormai tutti ne avevano una. Servivano per difendersi dagli altri, dalle cose fastidiose, erano perfette per crearsi un mondo proprio dove nessuno poteva entrare, nel quale tutto era a propria immagine e somiglianza. All’interno delle bolle non c’era nessuno che suonava la sveglia, che chiedeva se avevi fatto i compiti, se avevi rifatto il letto, ecc… Una vera pacchia!!! Gli uomini erano diventati così evoluti che non avevano più bisogno di nulla, di nessuno che si prendesse cura di loro. Erano finalmente autosufficienti.

C’era un solo posto dove le bolle non esistevano: era la città di Coloti. La città era nota perché vi si producevano i dolci più buoni del mondo: crostate alle more, dolci al cioccolato, panna a volontà, marmellate di tutti i tipi, gomme da masticare a tutti i gusti, gelati buonissimi… un vero spettacolo!!! Gli abitanti del mondo compravano spesso i dolci a Coloti anche se non potevano gustarli perfettamente, perché per portarli alla bocca dovevano attraversare la bolla, che, con il suo velo di sapone, toglieva quasi tutto il sapore. Le bolle inoltre, a causa dei riflessi della luce che si specchiava sulla superficie tonda e filtrava all’interno, deformavano i colori e le forme delle cose che apparivano così indefinite e poco nitide. Il cielo stellato stesso risultava una confusione disordinata di puntini con tanti aloni intorno. 

Ma torniamo al ns ragazzo. Lavorava da ormai molti anni (aveva cominciato da piccolo), in una birreria. Non in un posto dove la birra si vende: proprio in una di quelle fabbriche che fanno la birra. Sempre dentro la sua bolla, che i genitori gli avevano regalato per il suo sesto compleanno, aveva fatto ormai carriera ed era diventato l’operaio che sorvegliava i grandi fusti dove si produceva la birra e per questo la doveva assaggiare tutti i giorni.

“Come sono fortunato a fare un lavoro così bello!”, pensava Soov (che strano nome aveva il mio amico).

Un bel giorno alla fabbrica della birra succede un grande guaio: a causa di una distrazione di un operaio, che non aveva ricaricato di olio il motore, si sente un grande scoppio: Buuuumm!!!! Soov accorre in preda allo spavento; che spettacolo terribile!!! Il motore esploso, la birra tutta per terra, che disastro!!! E proprio oggi che viene il signor Birroso, il miglior cliente, a ritirare un milione di bottiglie!!! Cosa fare? Soov era disperato. Non si era mai trovato di fronte ad una situazione così tragica. Proprio in quel momento gli si avvicinò uno degli operai meno importanti della fabbrica, un ometto che Soov aveva sempre tenuto in scarsa considerazione. La sua bassa statura, la sua andatura incerta lo rendevano proprio curioso.

“Una soluzione ci sarebbe…” disse con voce bassa, “a Coloti fanno una birra buonissima e se glielo chiedi te la fanno in pochissimo tempo e quanta ne vuoi”

 “Coloti? E che città è?” disse Soov.

Poi si ricordò che aveva letto da qualche parte di quella strana città, ma senza particolare interesse. Ma in quel momento ogni soluzione per il suo problema era ben accetta.

“Tu la sai la strada per andare a Coloti? Mi ci accompagni?”

L’ometto sembrava non aspettasse altro. Partirono subito e in circa 15 minuti fecero i 500 Km che li separavano da Coloti. Per entrare in città c’era una regola: bisognava uscire dalla bolla. Erano ormai venti anni che Soov era nella bolla: cosa mi succederà? E se mi ammalo? E se mi pungono le zanzare? Sentirò caldo? O a Coloti è inverno? Per un attimo pensò di rimanere comodo nella sua bolla, ma appena si immaginò la faccia del signor Birroso tutta arrabbiata, si decise ad uscire. Che freddo sentì subito!!! Era proprio inverno e il vento gelido soffiava forte. La fabbrica della birra era al centro della città, perciò dovette attraversare tutte le strade della periferia. Che strade strane!!! Tutte diverse, alcune storte, quante curve! E le case…. di tutti i colori, di tutte le forme, con grandi finestre, e portoni grandi come tutta la parete. Ma la cosa più stupefacente erano le persone: avevano vestiti variopinti, alcuni persino rovinati e altri un po’ corti o un po’ lunghi. Camminavano uno vicino all’altro, parlavano, discutevano, si arrabbiavano e qualcuno sembrava addirittura che si divertisse.

Finalmente giunsero alla fabbrica: il proprietario era un tipo burbero. Alto almeno due metri, barba nera e folta e capelli lunghi fino alla schiena.

“Cosa vuoi giovanotto da me?” disse quell’omone.

Soov, affascinato da quello sguardo, rispose senza rendersene conto, “vorrei assaggiare una birra come quella che bevevo quando ero piccolo, come quella che mi davano mio padre e mia madre prima di regalarmi la bolla.”

“Nella nostra fabbrica abbiamo solamente quel tipo di birra e la diamo a chiunque la voglia.”

Non poteva credere ai suoi occhi: un boccale di birra come non aveva mai visto prima pieno di una birra ghiacciata, con una schiuma soffice, delle bollicine piccole e frizzanti. Erano anni ormai che non beveva una birra senza la bolla ed era veramente emozionato. Il sapore che sentiva era fantastico: le carezze delle bollicine, l’amaro e poi il dolce e poi ancora l’amaro… Ma come aveva potuto rinunciare così a lungo a quel piacere? Quella birra fu veramente una grande scoperta. Ancora pieno di stupore chiese all’omone:

“Posso portarla con me?”

“Non solo la puoi prendere, ma, se vuoi, diventerai tu stesso capace di fare una birra così. Ti dovrai far aiutare da questo omino che ti ha accompagnato: quando sarete insieme riuscirete sempre a farla così buona”

“Ma come faremo, quale è la ricetta?”

“ Be, a quello ci penserò io….”

Soov si girò verso l’omino, lo abbracciò e solo allora si ricordò di non averlo mai visto dentro una bolla