Fannj Grespan - Poesie

E POI

 

E poi,

con tutto quello che ho da dirti

finisce sempre che resto in silenzio.

A maledire la mia timidezza

che pochi conoscono

e il tempo che

in rigagnoli di minuti

scivola via.

 

E mi fermo incantata

sulle tue ciglia

a guardarti dormire

sospesa in quegli attimi eterni

che brillano prima dei sogni.

 

E mi sembra di non avere

mai incontrato

nulla di più bello

del tuo respiro tranquillo.

 


 

 SCIOGLI LE TRECCE

 

Spettinami ancora

i miei pensieri,

sciogli le mie trecce

sul cuscino.

 

E la mattina

conterò i capelli

e riderò sognando

al tuo pensiero.

 


 

 SUGGESTIONI D’AUTUNNO

 

Sul bordo dell’acqua mi sono seduta

e ho aspettato

in stupito e immoto silenzio.

 

Nell’ultimo calore dell’autunno,

stagione languida e nostalgica,

così perfetta, così perfetta…

 

Ho atteso fino a quando

ho visto avvicinarsi

i tuoi coriandoli di cielo.

 

E così, nell’azzurro

del tuo azzurro

troverò l’estate

nel pieno dell’inverno

e la calma nel caos assoluto,

e d’improvviso

gli spazi rimasti vuoti

si riempiranno di note

e di tutti i colori

che fanno primavera.

Lo sento… Lo canto

 


 

 NESSUNA DISTORSIONE

 

Nessuna distorsione:

che tutto taccia

che le parole si spengano

e anche la musica

svanisca per un po’.

 

Che la luna e le stelle

smettano di brillare

e gli uccelli di cantare.

 

È solo il tuo

implacabile pensiero

che nell’attesa

voglio sentire stasera!

 


 

 SONO CURIOSA

 

Sono curiosa di sapere

come dormi,

su quale fianco ti volti,

com’è il tuo respiro di notte.

 

Sono curiosa di sapere

come ti svegli,

se già col sorriso

o con gli occhi ancora stanchi.

 

Sono curiosa di sapere

come ti muovi per casa,

facendo rumore spostando le sedie

o leggero come i gatti,

ballerino in punta di piedi.

 

Sono curiosa..

 


 

LA POESIA PIÙ BELLA

 

Per te vorrei scrivere

la poesia più bella

se solo ne fossi capace

se solo le parole

non rimanessero

impigliate in petto

o non s’ingarbugliassero

tutte come gomitoli

tra zampe di gatto.

 

Vorrei dirti che guardandoti

succede che mi perdo

e talvolta rimanga inebetita

muta e analfabeta

a non proferir parola

prigioniera dei tuoi occhi.

 

Ma più di tutto è il tuo odore

che io sento e rubo

e porto nelle notti troppo fredde

e faccio come quei poveracci

che non avendo altro calore

si stendono vicino a un cane.

E così mi distendo

tra i ricordi di uno sguardo

un profumo una voce

che sono sicura domani

ritroverò al mio risveglio.

 


 

 NELL’ATTESA

 

Col rumore dei tuoi passi mi sveglierò

e il peso dell’attesa

diventerà polvere d’ali di farfalla.

 

Con la tua voce mi desterò

e l’ultimo silenzio si riempirà

di note d’ascoltare

con gli occhi ancora chiusi.

 

Col tuo odore rinascerò

e questa stanza non avrà più soffitto

ma stelle e cieli infiniti in cui perdersi,

nessun pavimento ma profondissime acque

in cui naufragare dolcemente…

 


 

 UNDICI RINTOCCHI

 

Nel buio della campagna assopita,

assorta forse,

undici rintocchi rincorrono la notte…

cantano lontani.

Goccia dopo goccia feriscono il silenzio

e si fanno nenia e poi cascata

e poi silenzio ancora.

 

E io sento

che è tempo di partire

per un nuovo viaggio,

di visitare altri luoghi

e ascoltare nuove melodie.

 

Dodici rintocchi. .. ora più vicini,

acqua che scroscia

e scolpisce la notte

che trema in un solitario

singhiozzo di bimbo.

E poi silenzio e silenzio ancora.

 

È tempo di partire.

Sento

che devo cogliere nuovi frutti

con cui inebriarmi i sensi…

Sento

che voglio assaporare nuovi piatti,

posare le labbra su calici trasparenti

e odorare altri sapori

e fiori di cui ancora non so il nome.

Ma già i loro petali mi accarezzano

e mi stordiscono

e fanno girare la testa in una danza senza fine…

e mozzano il respiro…

e non c’è tregua in questo ballo,

in questo sabba sfrenato di streghe.

 

Sento

come cambiano le stagioni

e non sanno tornare. ..

 

E solo le rondini ritrovano la strada

ma io rondine non sono

e mai lo diventerò…

 

Sento

che è solo uno il rintocco…

e uno solo il pensiero. ..

 


 

ULTIMO CAPITOLO DEL MIO PRIMO ROMANZO “IL MIO FILO SOTTILE”

 

 

  1.  Il corso della vita

 

Molte malattie sono una eccellente assicurazione contro la morte. Mentre esse si scambiano delle cortesie sulla porta, la vita segue il suo corso.    JACQUES DYSSORT

 

Forse, nell’arco di una vita lunga come spero sarà la mia, tre anni non sono poi moltissimi, ma io in quell’arco di tempo ho perso l’amore, il lavoro, gli affetti più cari, la casa.

Ho perso tre anni della mia vita, tre anni in cui sarei potuta diventare una donna diversa da quella che sono ora. Forse sarei diventata una brava insegnante e una buona moglie, forse madre.

Il tempo, quello che una volta programmavo per non perderne neanche un pezzettino, mi aveva rubato un pezzo di vita.

Ho perso tre anni, ma mi sono rialzata in piedi. Ora non ho più paura di ammalarmi, né tanto meno di morire. Sono morta una volta e sono rinata, ora so di essere forte e di poter ricominciare.

Ora sono serena. I libri non li leggo più necessariamente fino alla fine, se le prime pagine non mi piacciono li abbandono. Il sogno del treno non l’ho più fatto. La parola Massimo è tabù, impronunciabile ai miei orecchi, ma il mio cuore a poco a poca sta guarendo e mi auguro che un giorno sarà pronto per riaprirsi all’amore. A volte mi sento come quando si svuota una casa vecchia, da demolire e si gettano le cose vecchie. Solo che io da ripulire non ho stanze impolverate e scatoloni traboccanti, bensì il cuore. Il mio cuore va ripulito dai ricordi di un amore che per me, ma credo anche per Massimo, è stato grande; solo che il suo, di cuore, si è ripulito in fretta e da solo, per il mio ci vuole del tempo. Devo liberarmi del profumo del gelsomino e dell’aroma della sua pelle, delle canzoni che ascoltavamo insieme nella sua macchina, soprattutto di Biagio Antonacci che è l’unico che era riuscito a farmi amare; troppo attuale perché la radio la smetta di ripropormi continuamente la sua voce. Anche del suo alito mi devo ancora liberare, del suo retrogusto amaro, dei suoi capelli che ogni tanto mi capita ancora di trovare impigliati in una mia sciarpa e dei suoi impagabili sorrisi che l’inganno dell’amore, che arde sopito sotto la cenere, mi fa ancora riconoscere nei riflessi delle vetrine, nei volti degli sconosciuti.

A Massimo non gliene faccio una colpa per avermi abbandonato; sono stata via tre anni. L’amore è come un fiore, se non lo innaffi ogni giorno muore, specialmente quando il suo stelo è ancora fragile. Chi è la sua donna adesso? A chi darà i suoi baci, con chi viaggerà, con chi commenterà film e libri davanti a un camino o a un tramonto? Non lo voglio nemmeno sapere il suo nome, né vedere il suo volto, anche se a volte penso che a suo tempo avrei fatto meglio a preoccuparmi maggiormente delle sue nuove conoscenze piuttosto che andare a ripensare ai fantasmi del suo passato. Nei miei pensieri, il nome del mio amore deve stare solo accanto al mio, perlomeno finché il suo posto non sarà occupato da un nuovo volto. Non si può amare in eterno chi non ci ama più; il tempo, che spesso è l’unica medicina utile per i malanni del cuore, con il suo inesorabile trascorrere prima lenisce e poi cura.

Ogni volta che inciampo nel suo ricordo mi sovvengono domande che non gli ho mai posto: dove aveva comprato quel bell’orologio bianco di cui mi aveva fatto dono il giorno del mio ultimo compleanno con lui e che si era rotto nel momento dell’incidente? Nessuno si era preoccupato di cercarlo e raccoglierlo in quel maledetto parcheggio. Spesso ripenso a come sarebbe potuta essere la nostra vita insieme. Nel nostro breve fidanzamento, non avevamo condiviso il vivere insieme di una vera famiglia, avevamo passato giornate e notti intere insieme solo durante le vacanze. La vita che non abbiamo vissuto insieme io l’avevo idealizzata. Durante i mesi dell’attesa prima del matrimonio, l’avevo arricchita di così tanti particolari che faticavo a discernere il vero dall’immaginario, un po’ come facevo con i miei piccoli mali che ingigantivo fino a farli diventare tragedie. Avevo attribuito a Massimo virtù improbabili, un’aura di santità che poco aveva di attinente con il reale, non solo del mio ragazzo, ma degli esseri umani in genere.

Mi chiedo se io abbia amato di più Massimo o l’idea che mi ero fatta di noi due sotto lo stesso tetto. Dormire insieme in un hotel di lusso, avvolti in pigiami di seta comprati appositamente per l’occasione, dopo una cenetta a lume di candela a Fiesole, a Riva del Garda o a Modica, con i dolci declivi dei colli a fare da sfondo, con il frigo bar a portata di mano e la colazione servita in camera, non è come condividere lo stesso letto per anni, notte dopo notte, in pigiama felpato. Forse il poco che c’è stato è stato più bello e più intenso di quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Le domande che volevo fargli e che per vari motivi non gli avevo mai posto mi venivano in mente nei momenti più impensati: chi suonava il violino? Da dov’era uscita la mummia, così enigmatica e indecifrabile, così diversa da lui e dal resto della famiglia? Una volta che ci fossimo sposati, da che lato del letto avrebbe preferito dormire? Come intendeva suddividere gli spazi che avremmo dovuto condividere, l’armadio, la scarpiera?

La nostra casa è stata messa in vendita, ma è ancora lì, vuota, senza le tende vaporose che avevo immaginato, senza il divano rosso, senza libri, senza vita. È così bella che prima o poi qualcuno se ne innamorerà e la vorrà per sé; adesso, pensare che qualcuno di diverso da noi un giorno la riempirà con la sua roba e la sua vita mi fa soffrire. Intanto, la stufa non è mai stata accesa e sta lì, con la sua bocca nera e triste, affamata di calore.

Non dubito che, benché il mio aspetto abbia perso parte della sua bellezza a causa dell’incidente, la vita mi riserverà altre possibilità, altre occasioni d’amore, data la mia giovane età. Devo però ammettere che sono il tipo di persona che, anziché esaltarsi per un nuovo inizio, teme tutto quel che concerne la fase dell’innamoramento, del corteggiamento, quella in cui ci si gioca tanto. Dover ricominciare tutto daccapo, ancora una volta, è per me forte motivo d’ansia, tanto quanto amo invece la quotidianità rassicurante, i rapporti consolidati, che anziché logorarsi traggono dal tempo che passa nuovi motivi d’essere. Io nell’amore di Massimo mi ero adagiata e coccolata, ora devo rialzarmi dal comodo sofà che lui era diventato per me.

Il tuo nome, Serena, non mi provoca più nessun effetto. Perché io sono guarita dalla mia ipocondria e ora sono io quella veramente serena. Felice, non so dire se lo sono, probabilmente mi ci vorrà del tempo. La felicità che ti fa cantare, che ti fa vedere tutto rosa, il bicchiere sempre mezzo pieno, quella è ancora lontana da me. Ma la felicità è più effimera della serenità; quest’ultima è un bene più stabile ed è a essa che gli uomini dovrebbero tendere.

A poco a poco, la mia rabbia nei tuoi confronti si è andata trasformando in compassione. Non la compassione dolce che ci fa condividere con gli altri i dolori, bensì quel tipo di compassione che diventa una trappola perché inibisce qualsiasi altro sentimento.

 

Capita che quando si subisce una perdita importante ci si attacchi a qualcos’altro: una persona, un hobby, un vizio, un’idea. Io invece mi sono staccata da tutto. Come un serpente che muta la pelle, ho lasciato che mi scivolassero via le paure, le abitudini, tutto ciò con cui avevo familiarità da una vita e che mi dava sicurezza, per aggrapparmi per la prima volta a un ignoto che anziché spaventarmi mi dona nuova linfa. E per staccarmi proprio da tutto, ho deciso di staccarmi anche dalla terra.

Oggi sono qui, a Venezia, ma non in stazione, come quando, da giovane studentessa universitaria, percorrevo i vagoni alla ricerca di un posto libero su cui sedermi per rileggere ancora una volta gli appunti prima dell’esame.

Ora mi trovo all’aeroporto, con me una piccola valigia, pochissimi vestiti, un paio di scarpe da ginnastica, nessun libro, neanche l’orologio, che non ho più comperato, solo una macchina fotografica digitale, piccola, compatta, come me.

Guardo la gente passare e ne vedo tanta, di tutti i colori e di tutti i tipi, come non ne ho mai vista all’università o al liceo Parini. C’è chi spinge valigie immense avvolte dal nastro adesivo e chi porta un leggero bagaglio a mano, chi urla contro un volo cancellato e chi dorme su una panchina grigia, il giornale sotto la testa. Vecchietti che aspettano il volo per Londra dove ad attenderli ci sono i figli e i nipotini, giovani impiegati e precari della scuola che devono raggiungere la famiglia al sud, coppie in viaggio di nozze e qualche classe di liceali che è visibilmente in gita ancora prima di decollare, mentre i genitori si sprecano nelle ultime raccomandazioni e gli insegnanti rifanno ancora una volta l’appello. Ancora una volta ripenso agli alunni che non ho più e mi chiedo se anche loro sono andati in gita quest’anno scolastico.

Guardo tutti e a tutti devo sembrare spaesata, io, per la prima volta in un aeroporto, per la prima volta senza la mia paura di volare.

Dalle grandi vetrate posso vedere gli aerei atterrare e decollare, apparecchi ingegnosi, dalle grandi ali dispiegate. Per la prima volta li vedo come miracoli della scienza, capaci di esaudire i miei desideri, sorta di tappeti magici. Non ho paura, non più, ma non nego che mi batte forte il cuore nel sentire le vibrazioni che il loro rombo provoca sul vetro. Il mio volo è in ritardo, ma non me ne do pena, anzi; spero che tardi ancora di più, così da vedere Venezia accendersi sotto di me, nella notte. Per essere il mio primo volo, sarebbe davvero di buon auspicio. Il mio aereo sarà come una rondine che lascia il freddo per i paesi più caldi. Anch’io parto per lo stesso motivo, perché ho il cuore da riscaldare.

Sento che se sto qui dove sono sempre stata non potrò guarire del tutto, ma sarò come un albero che soffre mentre viene potato, incapace di staccarsi dalle radici per scappare. Devo invece staccarmi da questa terra e partire finalmente, per viaggiare fuori da me stessa e nelle stesso tempo dentro di me.

Non ho ferite da leccare, solamente un sogno da rincorrere. I miei sogni non voglio più inseguirli con la fatica, il sudore e il dolore, voglio farli volare alti, alti come aquiloni, alti fin sopra le nuvole. Voglio fotografare i colori dell’Africa, voglio vedere se è vero che le tinte dell’Africa sono più intense. Voglio sentire anche gli odori e voglio vedere se i tramonti sono più rossi e se gli amori durano davvero per sempre.

Voglio dispiegare tutto il filo dell’aquilone e tenerlo stretto, quel filo sottile, per non farmelo portare via. Non devo più rincorrere il tempo che scappa sempre troppo in fretta: non ho esami da preparare, lezioni da ripassare, libri da terminare. Non c’è un fidanzato che mi aspetta sotto casa né un dottore che deve visitarmi, non guardo l’orologio per vedere se è l’ora di prendere la mia medicina né il calendario per contare quanti giorni mancano al matrimonio; non ho bei vestiti da abbinare alle scarpe multicolori dai tacchi alti né lunghi capelli da spazzolare. Adesso di tempo ne ho tanto e voglio prendermela con calma.

Questo è il mio libro; forse non verrà mai pubblicato e rimarrà in un cassetto, o in una delle cassapanche di nonna Carla, ma almeno è stato scritto e questo, per ora, mi basta. Il prossimo, se mai lo scriverò, sarà figlio dell’Africa.

Nairobi mi aspetta.

 


 

 SESTO CAPITOLO DEL MIO SECONDO ROMANZO “L’INVASIONE DELLE SFINGI”

 

 

  1. L’ultima cifra

Me ne starò vecchio a ricordare che non ho ringraziato mai a sufficienza chi mi regalò qualche rima baciata, chi mi ha fatto stare bene una serata, chi mi ha raccontato qualche bella storia anche se non era vera.                Lorenzo Cherubini

 

Erano state forse le mani eleganti a causare a Serse un malinteso. Una notte, benché fosse ormai poco distante da casa, si era fermato in un autogrill per ordinare un caffè. Non si ricordava se ne avesse in casa e sarebbe tornato in un’ora in cui Cecilia sarebbe già stata nel mondo dei sogni, anche se a dire il vero lei pareva dormire con un occhio aperto, come i gatti, tanto che succedeva che nel cuore della notte udisse il furgone di Serse e si presentasse in portineria avvolta nella sua vestaglia azzurra per salutarlo. Cecilia assomigliava per diversi aspetti ai felini: era sorniona ma nello stesso tempo furba e rideva ronfando. Aveva pure i baffi, dei baffetti non folti, certamente, ma ben visibili nella loro scurità.

Can’t help falling in love spandeva le sue note nell’autogrill, cantata dalla voce più calda e suadente che sia mai esistita. Dei camionisti vociavano gesticolando appoggiati al bancone, ma Serse se ne era tenuto alla larga; sapeva che con loro si sarebbe finito col parlare del rincaro del petrolio, dei lavori in corso sulla Salerno-Reggio Calabria, del derby Inter Milan che si era disputato la domenica precedente. A Serse il calcio non era mai piaciuto; amava il nuoto e i suoi atleti preferiti erano Massimiliano Rosolino e Federica Pellegrini, della quale teneva nel cruscotto una foto ritagliata da Vanity Fair, quella in cui lei si vede di spalle ed è tutta dorata, appoggiata a un muro grigio.

Serse si era seduto a un tavolino in un angolo isolato, ma era stato raggiunto poco dopo da un giovane uomo dal viso molto particolare; si sarebbe detto orientale, aveva gli occhi scuri leggermente obliqui e il corpo gracile di un adolescente, i capelli neri e lisci tagliati a caschetto, con un ciuffo più lungo che gli ricadeva da un lato del volto.

Serse riteneva che fosse più facile scambiare confidenze con un estraneo piuttosto che con un amico o un familiare; questi ultimi giudicano, gli estranei ascoltano e basta, si dimenticano di noi e se ne vanno per la loro strada. È come quando, sulla banchina di una stazione, guardiamo dentro a un treno fermo attraverso un finestrino; scorgiamo un ritaglio di volto che ci guarda, fissiamo i nostri occhi in quegli altri occhi sconosciuti senza abbassare lo sguardo, consapevoli del fatto che quel viso non lo rivedremo più. Quando il treno riparte, di quegli occhi non ci rimane altro che un vago ricordo, destinato a svanire in fretta.

Il ragazzo parlava con un accento chiaramente milanese, il preferito di Serse, e tornava da un concerto, o meglio da un concerto che per lui non c’era stato. Il pomeriggio aveva lasciato la macchina in un parcheggio a Mestre ed era salito su un treno che doveva portarlo a Venezia. Pochi minuti di treno,  durante i quali si era perso in fantasticherie; doveva esibirsi alla Fenice con altri orchestrali ed era immensamente felice per l’occasione che gli si era presentata, ma anche perché per la prima volta avrebbe ammirato Venezia di notte. Commise però un errore che negli anni avvenire fece fatica a perdonarsi: dimenticò il violoncello in treno. Se n’era reso conto imperdonabilmente in ritardo, dopo un quarto d’ora che vagava per la città più bella del mondo; si era perso per rii e campielli nell’intento di tornare in stazione il più in fretta possibile, ma il treno era ripartito, proprio nel momento in cui lui raggiungeva il binario, lasciandolo attonito e sgomento con un braccio alzato come se avesse voluto acchiapparlo e trattenerlo, in un gesto plastico, mutato in una statua di sale. Dopo essersi riavuto dallo sconcerto, non gli era rimasto che tornare a Mestre, riprendere l’automobile e avviarsi verso casa. Poteva forse recarsi alla Fenice e confessare agli orchestrali la sua assurda sbadataggine? Sarebbe suonata peggio di una stonatura in un assolo.

L’episodio del ragazzo che dimentica in treno il violoncello, che non è un’armonica a bocca né un ottavino, sembrerebbe un’invenzione, un’esagerazione bella e buona, ma non è così, e chi non crede che queste cose possano accadere dovrebbe farsi un giro all’interno di qualche ufficio oggetti smarriti. Anni prima Serse aveva dimenticato in treno un walk man, e quando l’aveva cercato nell’ufficio oggetti smarriti della stazione di Treviso aveva constatato, incredulo, di quante cose la gente lascia ogni giorno nei vagoni; ma non ricordava che in quel coacervo di oggetti di vario genere, che comprendeva anche un quadro di notevoli dimensioni, una tavola da surf e un ombrellone da spiaggia, ci fosse qualche strumento musicale. Chissà, forse il suo walk man e il violoncello avrebbero finito col trovarsi, in qualche stazione remota dell’Italia, e si sarebbero raccontati i loro giri e i loro incontri, come Serse e il vagabondo di Chiavari o come il violoncellista triste e Serse.

Dopo un’oretta di confidenze, il ragazzo gli aveva posato la mano sulla sua e gli aveva chiesto il numero di telefono, con la voce bassa bassa e gli occhi dentro ai suoi. Serse aveva balbettato a una a una le cifre del suo numero di cellulare, poi aveva augurato gentilmente la buona notte al ragazzo ed era uscito in fretta e furia dall’autogrill, dimenticandosi anche che gli scappava da andare in bagno e chiedendosi cosa avesse detto o fatto per accendere strani pensieri nella mente di quel ragazzo.

Ogni tanto si sentiva in colpa, per aver cambiato l’ultima cifra del numero… magari sarebbe potuta nascere una bella amicizia, magari aveva frainteso quella richiesta, la voce che gli aveva raccontato quella strana storia, e quel tocco sulla mano…

Il tocco gentile di una mano che sapeva suonare il violoncello.