Muse
Si ode il vago sibilo
del tuo nome
che muore,
cupo sussurro,
nelle onde della notte,
la nera marea
delle tue chiome.
Lacera vela
soffre
geme
cieco legno.
Sogni in sete luttuose
in piangente processione
raccolti mesti.
Muse ardite le memorie.
triviali
Saffo,
suicide forse,
scrutano buie
le rupi del Parnaso.
Cupi e funebri
ebbri
lamenti
spenti riecheggiano
nelle nere fronde.
II
Lamento
vile la sorte.
Lamento le ore
che distano.
Dall’umido sepolcro.
Lamento i ferri roventi.
Che
squarciano le carni.
L’odio.
Lamento
il fetido grido,
d’angoscia.
Stomachevole
la gioia dei sensi
inappagate fiere.
Lamento quel cuore
che vorrei
strapparti
dal petto.
III
Tiepido l’oro
dei raggi
attraversava
il vello siderale
dell’ariete
nell’ora in cui
l’occhio
cade
sui fulgidi gemelli.
Rosea l’alba arrossava
l’azzurro sorriso
e i morbidi veli
delle labbra esili,
in un leggiadro
bacio.
Accarezzava
con dita soavi
gli orli scuri
delle nere tegole
e l’intonaco
da sepolcro pallido
dei muri.
Sporgeva.
Uno spiraglio
di luce
tra l’ombra
di un baratro.
La notte udiva
mute parole
e cieca osservava
un vuoto colmo
di nero.
IV
Diluvia il rosso dolore
sangue versato in calde gocce.
Diluvia angoscia, terrore
la trista Morte ghignante,
rimorso e vuoto
ubriachi fratelli
piangono un ritmico
pianto
nelle strade mute in
funebri grida
placide e sconvolte.
L’alba di una notte stanca ed
inquieta sorge
tremante
di incubi insani e morenti
nella morte del giorno.
Gelido vede nelle
cieche tenebre
l’Occhio.
V
assorda il silenzio che sconquassa il cielo
bigio
grigio amante sospira
fremente
della vacua voluttà
di smarrite illusioni
sindoni
distese al pellegrino
omaggio
degli stolti fedeli
acceca il buio immenso che sulle martoriate
carni
cala
sbattono al vento l’ali
da segrete procelle
mosse
sgraziati pipistrelli
latrati furiosi
squarciano
le mute ore
e della morte scorrono le acque
rigando il volto
tetro
VI
in una polla d’acqua
si specchia,
nitido, il cielo
sporadiche, grige le nubi ammirano
la mesta gote
che
immerge
umide pupille
nell’antro concavo di un solitario gelo
versa il cielo
lo stillicidio
del passato
nello spettro del presente
pallido
miraggio del futuro
rimorso
vaga errando
nelle lacrime
che rigano
il volto dell’aria
fredda e immota
VII
Assorda
l’aroma
dei gelsomini
schiusi, a poco a poco,
dalle carezze
delle brezze estive.
Rive sensuali
lambisce
l’inebriante Lete
sussurrato fra le
fronde
leggiadre.
Ebbro
sospiro
l’estasi
silente.
S’infrange il mare
dell’animo
contro gli scogli
degli occhi.
Nera la rupe
spezza
l’incanto.
E svanisce l’estate,
e si risveglia
l’inverno quando
lì accanto
svanisci
tu.
VIII
Dall’arida terra
sterile e secca,
dall’intricata tela
delle crepe rovinose,
dolci carezze
del Tempo
sull’incartapecorito
viso.
Vissuto. Lacero e
consunto,
sospeso nella
disillusione
della morte,
nell’illusione
della vita.
Le tenere membra
sfigura
il convulso abbraccio.
Spezza. L’amante.
Le eteree morti
pervadono
i solchi di quel viso.
Sgorga. La fonte.
amaro dono
l’acqua
salmastra.
IX
Sono muri.
Sordi e ciechi.
Muri di bianchi sepolcri,
ossa adagiate nella tomba
dell’incuria.
Volti spettrali
privi di espressioni
scolpiti
immobili.
Pallido avorio
nella coltre d’ebano
di una notte
orfana
di luna o stelle.
Lacrime d’ombra
lo appannano
come sospiri
vetro opaco.
Gocciolano
in forme confuse
ignoti caratteri
di linguaggi perduti.
Rune di silenzio
negli intarsiati papiri
del rumore.
Sordi e ciechi.
Aspettano il muto verbo
della fine,
senza sapere
come sia già stato
pronunciato.
X
Pozze d’ebano
in variopinti scarlatti
riflessi;
soli estinti
in neuronali galassie,
oceani di zaffiri
dove naufragano
cornee
ardenti
di fluido
dolore
legni
stretti nell’ira antica
dell’enosigeo
profetici segni
Apocalisse
ha il colore
delle gemme
dipinte dall’angoscia
dal connubio
folle
d’ebano e avorio
Dio che muove gerarchie
d’angeli
impiccate
a corde d’udito
e olfatto
e vista e tatto
nel triviale ballo
dei morenti