Francesca Abbiuso - Poesie

Irsina

 

Irsina,

sorge in collina

vicino Gravina,

Montepeloso

si chiamava prima

per il territorio boscoso.

Irsina,

un bel paesino,

disteso a riposare come un nonnino,

come un contadino,

stanco del duro lavoro,

così lo ricordavo,

perciò mi annoiavo!

In passato

pian piano si è spopolato,

tanti paesani

sono emigrati

al nord Italia

e in Germania,

in Svizzera e in Australia…

Irsina,

quanti ricordi belli e tristi di bambina!

Ora il paese si sta ripopolando:

molti turisti si sono là trasferiti,

perché dal centro storico sono stati colpiti.

Ora Irsina un bel riconoscimento ha conseguito:

il più bel borgo lucano

è stato definito,

per le sue bellezze artistiche

del remoto passato:

chiese, palazzi, affreschi e sculture…

“La statua di Sant’Eufemia” del bravo Mantegna

è il suo fiore all’occhiello.

Ora Irsina mi è sembrata rinata,

quando recentemente son ritornata!

Grazie alla sinergia fra le sue istituzioni

e i collaboratori, hanno spazio tante attività culturali,

grandi manifestazioni,

feste tradizionali

che suscitano emozioni

a bambini, giovani

e vecchie generazioni.



La felicità

 

La felicità

mette le ali alle persone

per volare,

le distoglie dalla realtà

e le fa sognare, fantasticare!

Ogni essere umano

quando è felice,

sa apprezzare ogni gesto quotidiano,

diventa migliore,

si sente leggero,

si sente vero,

si sente vivo,

si sente attivo.

Della vita impara

ad apprezzare ogni cosa

e gli appare meravigliosa!



Immagini  e ricordi d’infanzia

 

Immagini e ricordi

di donne lucane

con i secchi alle fontane,

di ragazze piegate

ai lavatoi

vicino ai fiumi,

che cantavano in coro:

“Quel mazzolini di fiori”

Immagini nitide

di giovani signore

con in testa  grandi tortiere,

rettangolari e nere,

ricolme di pane fragrante,

appena sfornato

e  focacce  squisite,

di pomodorini  rossi

ecoriandoli d’ origano condite.

Sapori lontani,

sapori lucani,

ricordi d’ infanzia,

che sanno di nostalgia,

che sanno di semplicità,

di umiltà, di povertà,

che sanno di bontà!



Infatuazione

 

Quando da lontano ti vedevo spuntare,

le mie gambe cominciavano a tremare;

quando ti avvicinavi e mi salutavi,

i battiti del cuore acceleravano,

la voce in gola si bloccava,

e le farfalle svolazzavano,

anche se nessuno le vedeva!

Un giorno in gita andammo con la scuola:

durante il percorso all’improvviso

una bella melodia si sentiva,

sulla spalla una mano qualcuno mi poggiava

e Una lacrima sul viso Bobby Solo cantava.

Io mi voltai: c’eri tu col mangiadischi,

così, dal rossore sul mio viso,

il mio segreto tu scopristi,

i nostri sguardi s’incrociarono

ed io, per l’emozione,

ero andata nel pallone!

anche tu, nonostante la tua sicurezza,

non mi facesti nemmeno una carezza.

“Un capello ho tolto dal tuo vestito”,

mi dicesti, per giustificare il tuo gesto.

Io mi sentii imbarazzata

e perciò mi rigirai imbambolata.

In seguito capii che l’adolescente

vive una fase di transizione

e prova facilmente emozione

che confonde con l’amore

ma è solo infatuazione.


 

A mia figlia

 

Ti ho tanto desiderata,

volevo una bimba graziosa

e tu sei nata

bella come una rosa!

Per me sei stata un dono immenso,

nella mia vita,

un miracolo vero,

avuto dal cielo!

Crescendo,

giorno dopo giorno,

i tuoi repentini cambiamenti notavo

che mi rendevano

sempre più felice.

Non vedevi l’ora di camminare,

di parlare e di cantare;

eri una bambina giudiziosa,

serena e gioiosa.

Amavi già la borsetta,

te ne comprai una a tracolla, piccolina,

eri solo una bambina!

Amavi tanto la compagnia

che il primo giorno d’asilo mi mandasti via

quando venni prima dell’orario d’uscita

sbalordendo me e la suora Rita!

Con l’ingresso nella scuola elementare,

gradualmente cominciasti a cambiare:

eri più silenziosa,

più triste e più permalosa;

non capivo le motivazioni,

la tua maestra ti elogiava,

mi diceva che le davi tante gratificazioni,

che il suo fiore all’occhiello eri tu,

ma allora perché non sorridevi più?

Cominciai a preoccuparmi, e poi a indagare

per poterti aiutare.

Così venni a scoprire

che, se a scuola facevi qualche errore,

la maestra andava su tutte le furie,

perché tu non dovevi mai sbagliare!

Per farti tornare il sorriso,

ti trasferii dove insegnavo anch’io,

in un ambiente più sereno,

dove il dialogo aveva spazio,

dove urlare non era necessario,

dove la passione per quel mestiere

era il segreto per insegnare.


 

Lettera a mia madre

 

Mamma,

questa parola ormai, da alcuni anni,

non posso più pronunciare.

Sei volata in cielo

prima che potessi abbracciarti,

prima che potessi sfiorare

con la mano il tuo bel viso

per una carezza,

prima che potessi dirti con dolcezza

che ti avrei portata sempre nel mio cuore,

che avrei conservato bei ricordi di te

e del nostro splendido rapporto,

fatto di dialogo sereno,

di confidenze…

Non ti ho fatto grandi regali,

ma piccoli pensieri,

che però tu apprezzavi molto!

Ricordo che un giorno

era la “Festa della mamma”,

ti regalai una scatola rossa scamosciata,

a forma di cuore, piena di cioccolatini;

tu rimanesti stupita

e conservasti quella scatola

come una reliquia!

Ogni regalino che ti portavo

lo mettevi subito in mostra.

Mamma,

lo so che non eri espansiva

e non riuscivi a dirmi mai: “Ti voglio bene”.

Mi abbracciavi e baciavi solo se partivo

o se da un lungo viaggio tornavo,

ma i tuoi complimenti, per ogni vestito che indossavo,

mi facevano capire il tuo affetto.

Spero che tu stia bene, che sia felice

per aver ritrovato i tuoi cari

nella vita celestiale,

dove non ci sono dispiaceri,

preoccupazioni e incomprensioni;

certamente ti manchiamo noi.

Nell’attesa di riabbracciarti per sempre,

ti ringrazio di tutto ciò che hai fatto per me

e per essere stata una buona mamma.

Con immenso amore,

Francesca.



La donna

 

La donna, in passato,

spesso aveva il cuore bloccato:

non poteva scegliere chi amare,

doveva essere passiva

e non si sentiva viva.

La donna voleva essere protagonista

della sua vita, non spettatrice

e recitare il ruolo dell’attrice,

facendo credere di essere felice!

La donna aspirava alla libertà,

voleva scegliere se vivere solo in funzione della maternità.

La donna voleva sentirsi gratificata

anche in altri ruoli,

seguire le sue aspirazioni

per provare nuove emozioni.



Ribellione all’uomo padrone

Ritengo che per riuscire ad amare veramente gli altri e farsi amare, bisogna amare prima se stessi e quindi sentirsi realizzati.

Fin dall’infanzia ho conosciuto uomini maschilisti, possessivi e violenti; ho dovuto lottare costantemente e a lungo per farmi rispettare e far valere la mia dignità di donna.

Vivevo in un paesino della Basilicata, dove la mentalità era molto più arretrata rispetto a quella dell’Italia settentrionale.

Appartenevo ad una famiglia numerosa, in cui le femmine erano sottomesse ai maschi, i quali, con metodi educativi spartani ed a volte violenti, cercavano di renderle docili ed ubbidienti. “Mazze e panelle facen ’e figghie bell” (botte e pane rendono le figlie belle), ripetevano.

A casa mia non c’era allegria, ma spesso regnavano malinconia e tensioni, causate da innumerevoli problematiche.

La nascita di una femmina, negli anni Cinquanta, dalle mie parti non era conside-rata un lieto evento, poiché non prevedeva una futura fonte di guadagno, dal momento che solamente ai maschi era consentito di potersi allontanare da casa per andare a lavorare.

Avevo sette anni quando mio fratello, primogenito, mi disse spavaldo: “Lo sai che quando nascesti tu lanciai dei sassolini all’ostetrica mentre usciva da casa nostra?” – Perché? – chiesi, “Volevo un maschietto”, rispose tranquillamente.

Anche il mio nonno paterno mi raccontò: “Tu dovevi chiamarti ‘Finiscila’ perché eri già la terza femmina della famiglia, ma i tuoi genitori non mi hanno dato ascolto! Peggio per loro, infatti poi è nata un’altra femmina!”.

Potete immaginare il mio stato d’animo dopo aver ascoltato questi aneddoti! Dopo la quarta femmina, però, nacquero altri due fratelli, tanto attesi e desiderati! Mia madre era sempre assorbita dai piccoli e non aveva mai tempo per me.

Ricordo che a volte fingevo di stare male per elemosinare una carezza da mio padre, che era sempre troppo impegnato per dedicarmi qualche attenzione. Notavo che i nonni e mio padre avevano un debole per i maschi, dei quali andavano fieri e cercavano di accontentarli in tutto.

Crescendo, diventai sempre più taciturna e triste, docile ed ubbidiente: sembravo un mobile che arredava senza disturbare, mi limitavo ad osservare e ad ascoltare.

Mi chiusi in me stessa sognando un mondo migliore.

La mia prima ribellione risale al ’64 quando, conseguita la terza media inferiore con ottimo profitto, sentii mio padre che diceva: “Mi dispiace, ma non potrai proseguire gli studi, siamo in tanti e comunque per te questo titolo è più che sufficiente. Ora devi imparare a ricamare, a cucinare e a fare tutti i lavori dome-stici, altrimenti per te sarà difficile trovare un buon marito!”.

Scoppiai a piangere, mi misi ad urlare facendo esplodere tutta la rabbia che avevo accumulato dentro di me. Mi ribellai con tutta l’energia che avevo, fino a che papà, stupito della mia reazione, mi disse: “E va bene, se proprio ci tieni, dovrai impegnarti molto per ottenere ogni anno una borsa di studio e contribuire così alle spese per mantenerti in città”.

Andai a studiare a Matera dove lavorava mio fratello e mi sistemai nella stessa pensione, affinché potesse sorvegliarmi meglio.

Determinazione ed impegno mi fecero raggiungere il primo obiettivo: il diploma di scuola media superiore.

Per quanto riguarda la mia vita sentimentale, non posso raccontare granché fino al ’72. Tranne qualche cotta, non avevo mai avuto un ragazzo, poiché io e le mie sorelle non potevamo partecipare alle feste e, quando uscivamo, eravamo pedinate e controllate. Una mattina mio padre, avendomi sorpresa con un amico che mi stava accompagnando a scuola, esplose: “Se ti becco un’altra volta con lui smetterai di studiare!”.

Ebbi paura e così rinunciai all’amicizia maschile per lungo tempo.

Avevo ventidue anni quando rividi un bel ragazzo che mi piaceva e che mi aveva corteggiata ai tempi della scuola secondaria, ma che non avevo potuto frequentare.

“Ti ho sempre pensata! – disse sorridente – Ora sei matura e non puoi più trovare scuse! Se ti fa piacere, ora potremmo frequentarci”, esclamò con occhi colmi di speranza.

Desideravo conoscerlo, ma i miei fratelli e papà, essendo molto gelosi, non mi avrebbero permesso di vederlo, perciò chiesi la complicità di un’amica, già sposata, che viveva in città. Riuscii così a trascorrere qualche giorno da lei e ad incontrarmi con quel ragazzo. In breve tempo, lui  riuscì a farmi sentire al centro dell’universo dimostrandomi il suo amore in mille modi e facendomi sentire felice come non lo ero mai stata. Fu una parentesi positiva della mia gioventù. Il bellissimo sogno purtroppo non durò a lungo e, come temevo, un giorno mi risvegliai bruscamente. Non avrei mai immaginato di dover affrontare la prova più grande della mia vita.

Riccardo, così si chiamava il mio ragazzo, cominciò a cambiare gradualmente da quando avevo accettato una supplenza annuale presso la scuola del paese. Non tollerava che io lavorassi, diventò geloso dei colleghi, delle amiche e perfino delle mie sorelle. Il suo comportamento peggiorò dopo la morte improvvisa della madre, alla quale era particolarmente legato. Non mi sentivo più rispettata, né amata come prima. Con grande amarezza e delusione gli proposi di lasciarci, dato che la sua gelosia era diventata patologica.

“Se mi lasci, ammazzo prima te e poi mi sparo! – mi minacciò un giorno – Non potrei vivere senza di te!”.

Era ancora buio quel mattino autunnale d’ottobre del ’74 quando decisi di dare una svolta alla mia vita. Il paese, avvolto nella nebbia, sonnecchiava; anche a casa mia dormivano tutti e, per timore di svegliare qualcuno, non accesi la luce e cammi-navo scalza. Con delicatezza aprii il cassetto in cui mio padre aveva riposto il denaro e prelevai parecchie banconote che sarebbero servite inizialmente al mio mantenimento. Non avevo potuto preparare bagagli per non destare sospetti, ma la sera precedente avevo nascosto sotto il materasso solo un sacchetto plastificato contenente capi di biancheria intima e qualche maglioncino di lana.

Indossai il soprabito ed uscii da casa con il cuore che batteva all’impazzata. Volevo allontanarmi in fretta da quell’ambiente che mi aveva a lungo soffocata.

Avevo meditato a lungo: un mese insonne per programmare la mia fuga e liberarmi da quel contesto familiare e affettivo opprimente che ormai era diventato insostenibile.

“Buongiorno, signorina!”, mi salutò un noleggiatore d’auto.

“Parte subito?”, gli chiesi.

“Certamente, se viene anche lei siamo al completo!”, disse.

Andai a Torino per trovare la mia dimensione e cercare di realizzarmi, finalmente lontana dai tanti condizionamenti subiti. L’impatto con la metropoli non fu entusiasmante come avevo immaginato, mi sentivo disorientata ed indifesa; inoltre non ero abituata a quel clima rigido, per non parlare del gelo che c’era nel mio cuore: non conoscevo nessuno, non avevo un’amica che mi  potesse sostenere con l’affetto. Mi mancavano terribilmente le mie sorelle e la mamma. Fui fortunata nel trovare una camera presso una pensione gestita da una signora napoletana senza figli, la quale si affezionò molto a me. Inoltre conobbi gli altri coinquilini, giovani universitari, molto gentili e disponibili, che mi procurarono i buoni pasto presso la mensa universitaria .

Cominciai così a riacquistare un po’ di fiducia negli uomini.

Non mancarono altre esperienze negative; mentre cercavo lavoro attraverso inserzioni sulla Stampa mi capitò di conoscere anche alcuni uomini singles, 50enni senza scrupoli che cercavano di adescare ragazze giovani promettendo un lavoro ben retribuito, vitto e alloggio presso lussuose abitazioni, ma io, essendo diffidente, non mi lasciai tentare dalle loro proposte allettanti.

Col passare del tempo, fu piacevole tornare la sera nella pensione e socializzare con i giovani universitari che cominciarono a trasmettermi un po’ della loro gioia di vivere. Alcuni di loro provarono anche a corteggiarmi, ma io, anche se ne ero lusingata, non ero pronta per l’amore, il mio cuore sembrava anestetizzato ed accettavo solo l’amicizia. Grazie all’educazione ricevuta, ero timida, fragile ed insicura, ma era arrivato il momento di far prevalere la mia determinazione per avvicinarmi ad un mondo dal quale ero stata per troppo tempo estromessa. Vivere da sola non fu sempre facile, ma dovetti rimboccarmi le maniche adattandomi ad ogni tipo di lavoro. Nei primi tempi accettai di fare la cameriera, la rappresentante di enciclopedie, la baby-sitter… imparai a camminare con le mie gambe, a crescere, acquisendo gradualmente autostima e sicurezza.

In seguito i miei familiari decisero di raggiungermi, dopo vari tentativi per farmi ritornare all’ovile.

Durante la mia permanenza in Piemonte conobbi un bravo ragazzo, che, con la sua semplicità, mi restituì la fiducia negli uomini e m’intenerì a tal punto da sposarlo in breve tempo. La mia fu una scelta razionale, ma i miei la condivisero pienamente, poiché avevo  27 anni ed ero considerata ormai “zitella”.

Alcuni mesi dopo il matrimonio, mi resi conto che mio marito, d’origine siciliana, aveva saputo mascherare bene alcuni lati negativi del suo carattere. Mi sentivo ingannata e delusa: anche lui non era molto diverso dai miei fratelli!

Tornato a casa dal lavoro, pretendeva di essere servito e riverito. Anch’io lavoravo e non mi andava di assecondarlo, dovetti lottare diversi anni per ottenere la sua collaborazione in famiglia, che intanto era cresciuta.

Ora finalmente mi sento realizzata ed appagata in ogni ambito. Ho due figli meravigliosi: un maschio e una femmina .Con  l’esempio, col dialogo, con amore ed incentivi li ho educati nello stesso modo ai valori della vita: rispetto, libertà, responsabilità, amicizia e amore. Abbiamo un rapporto splendido.

Mio marito, giorno dopo giorno è cambiato ed ora, quando rivanghiamo il passato, si vergogna degli errori commessi e cerca di rimediare dando il meglio di sé.

Da qualche anno sono tornata a Matera con la mia famiglia.

Insegno in una scuola elementare dove cerco di educare  i miei alunni alla parità dei sessi, in un ambiente sereno.

Sto anche assaporando l’amore e la passione che ho scoperto dopo i quarant’anni, perché prima ero molto inibita, ma non è mai troppo tardi: è stupendo provare il sentimento coinvolgente dell’amore, fonte inesauribile di energia, entusiasmo e gioia di vivere che si riversa positivamente sia nell’ambito professionale che in quello affettivo, familiare e sociale.

Spero che questo periodo magico della mia vita duri il più a lungo possibile.



Alessandra, una bambina  dagli occhi tristi

Quella mattina la nebbia  era più fitta del solito, la maestra accese  la radio per ascoltare le canzoni che trasmetteva radio  Italia, perché le piaceva cominciare la giornata con la musica: le faceva  compagnia, la metteva di buon umore e giungeva a scuola sempre sorridente. Insegnava in una pluriclasse: prima, seconda e terza  della scuola elementare, quindi era importante creare un ambiente sereno, avere una pazienza infinita, essere dotata di autocontrollo e dare il buon esempio. La  scuola era ubicata su di una collinetta, in una frazione in provincia di Asti. Quando la docente giungeva sotto la collinetta, vedeva spesso il cappello del Direttore Didattico che solitamente era mattiniero, arrivava prima di tutti ed aspettava fuori dell’edificio scolastico. Naturalmente lei dava un’occhiata rapida all’orologio per controllare se fosse puntuale; partiva sempre in anticipo, perché metteva sempre in preventivo qualche intoppo poiché  viaggiava da sola e doveva percorrere molte curve in strade di campagna man mano che si avvicinava alla meta. Il Direttore era alto e robusto; inizialmente la maestra ne aveva avuto soggezione, sia per la sua imponenza fisica, ma anche per il ruolo che ricopriva, anche perché si fermava nella classe per ore e simulava il ruolo di un alunno, quindi le rivolgeva domande e spesso faceva osservazioni; a volte guardava i cartelloni murali, controllava i quaderni dei ragazzi, assisteva alle lezioni e la “bersagliava” di “perché”. La classe era composta da una prevalenza maschile; le bambine erano tranquille, ma un giorno Lisa notò che si allontanavano da una compagna sia durante i giochi psicomotori che quando dovevano mettersi in fila per l’uscita.

-Perché non volete dare la mano ad Alessandra? – chiese la maestra.

-Perché è spettinata! – rispose un’alunna.

Lisa aveva già notato che la bambina era triste, malvestita e disordinata, ma dopo averla osservata quel giorno con maggiore attenzione, si rese conto che le sue trecce non erano state pettinate da molto  tempo! Inoltre indossava indumenti sporchi e stropicciati. Tornando a casa, la maestra pensava come potesse risolvere quella delicata situazione, poiché non essendo del posto, non conosceva la famiglia della bambina: le avevano assegnato quella sede da pochi giorni.

L’indomani si svegliò con l’intento d’informarsi da una collega che insegnava lì da anni, così venne a sapere la situazione critica della bambina: viveva con il nonno, un anziano contadino, rimasto vedovo da poco, al quale era stata affidata, perché i genitori non erano adeguati ad educare la propria figlia per varie patologie.

Lisa preparò una delega che avrebbe  fatto firmare al nonno per poter condurre  la nipote a casa sua ed ospitarla per un fine  settimana: desiderava migliorare l’immagine e curare l’igiene della bambina per farla accettare dai compagni.

Aveva, perciò, convocato il nonno.

Appena  lo vide, dopo aver affidato la classe  ad una collega, gli disse: – Signor Giorgio, vorrei parlarle di sua nipote, la vedo triste  e taciturna. Vorrei che cambiasse pettinatura, perché, avendo le trecce, non è autonoma nel pettinarsi, invece con un bel taglio corto sarebbe più  ordinata.

- Non sono d’accordo, le femmine  devono avere i capelli lunghi, secondo la nostra tradizione – rispose il nonno.

- È  solo una bambina, anche  se glieli facciamo tagliare , i capelli saranno di nuovo lunghi finché  diventerà una giovane ragazza! – disse la maestra, la quale gli espose poi la situazione  incresciosa che metteva a disagio tutti e soprattutto sua nipote.

Il nonno, dopo aver ascoltato  tutte le motivazioni che rendevano triste la  bambina, finalmente accettò e firmò la delega.

Quel giorno  stesso Alessandra  viaggiò volentieri  con la maestra, che l’aveva già  preparata con tatto a trascorrere  il weekend in città a casa sua, dove l’aspettavano con entusiasmo i  suoi due figli Sara e Niki, rispettivamente di 10 e 7 anni, e suo marito Riccardo.

Giunte vicino al portone, si sentirono le voci dei due bambini che, affacciati al balcone, la salutavano anche con le mani.

Entrando nell’appartamento, si sentiva un odore gradevole proveniente  dalla cucina, dove Riccardo si era impegnato a preparare uno squisito pranzetto, di solito gradito ai bambini.

- Cosa c’è  di buono da mangiare ? – chiese Lisa a suo marito, il quale rispose: – Risotto alla milanese e pollo al forno con patatine.

- Bene! Lascia tutto in caldo per un po’, finché  ci laviamo le mani – disse la maestra.

Intanto i suoi figli avevano apparecchiato con molta cura la tavola, perché volevano accogliere la piccola ospite con riguardo. Poi ci furono le presentazioni e  si sedettero per gustare le pietanze; avevano tutti appetito, dal momento che quel giorno si era fatto più tardi del solito.

Nel pomeriggio i bambini  pian piano fecero amicizia giocando insieme nella  cameretta.

Successivamente, la maestra  fece scorrere l’acqua calda nella vasca da bagno, dove aveva versato il bagnoschiuma  e aiutò Alessandra a lavarsi, poi le sciolse le trecce e le fece lo shampoo con delicatezza, le regalò  indumenti intimi puliti e capi nuovi di abbigliamento per farla vestire in modo più adeguato; infine le tagliò i capelli a caschetto e glieli asciugò.

La bambina si guardò allo specchio e sembrò contenta della sua nuova immagine riflessa, accennando un sorriso.

In seguito i bambini furono invitati da Lisa a fare il proprio dovere di alunni: i compiti li attendevano, se dopo volevano guardare la TV dei ragazzi.

Il tempo era volato; dopo cena, mentre i bambini finivano di sparecchiare, la maestra riassettò la cucina e poi esclamò: – Oggi siete stati tutti bravi a collaborare, ora andate a giocare un po’ in camera e poi tutti a letto.

Più  tardi, dopo aver augurato ai ragazzi la buonanotte, s’infilò velocemente il pigiama e andò in camera sua con un libro da leggere che le conciliava il sonno, ma quella sera era così  entusiasta e soddisfatta della giornata trascorsa che si addormentò subito!

La mattina seguente si alzarono di buonora, era domenica, giornata di riposo per tutti, non c’era la sveglia, ma Lisa, anche se era stata viziata dal marito a poltrire un po’  a letto, si alzò per preparare la colazione per tutti, mentre Riccardo cominciava ad organizzarsi per la pietanza domenicale: pasta al forno, arrosto con insalata e tiramisù.

Successivamente andarono tutti  nella chiesa di S. Secondo per partecipare alla S. Messa. All’uscita, Niki chiese: -Possiamo andare a giocare nel parco?. – Certamente! – rispose la mamma.

Quindi si diressero verso il parco, dove c’era una giostrina, l’altalena e lo scivolo.

Dopo un’oretta ritornarono a casa, perché erano stanchi ed affamati, infatti mangiarono in fretta  lo squisito pranzetto ed infine guardarono in silenzio un cartone animato in TV.

La sera, dopo una leggera cena e una  breve favola ascoltata in audiocassetta, i bambini andarono a dormire,  poiché l’indomani si sarebbero alzati presto per andare a scuola.

Lunedì  mattina la maestra ritornò a scuola in auto con Alessandra, alle sette, per poter guidare con prudenza ed arrivare in anticipo.

Quando entrarono nell’aula gli alunni, meravigliati, esclamarono: – È  arrivata una nuova alunna? – ed intanto le si avvicinarono.

- Non la riconoscete? È la vostra compagna Alessandra! – rispose  la maestra – ha cambiato solo taglio di capelli.

Tutti le fecero i complimenti per la nuova pettinatura e da quel giorno furono gentili e affettuosi: nessuno si rifiutò di giocare con lei o di starle vicino.

Io fui soddisfatta di aver raggiunto il mio  obiettivo e Alessandra non mostrò più quel velo di tristezza  negli occhi, ma imparò a sorridere, a socializzare con i compagni e ad impegnarsi con entusiasmo nelle attività  scolastiche.

Il nonno, quando vide sua nipote cambiata piacevolmente nell’aspetto,  mi ringraziò per ciò che avevo fatto.

Il giorno seguente  mi regalò una dozzina di uova fresche delle galline che aveva in campagna, mentre io ,ogni tanto, gli portavo dei vestiti  ancora belli di mia figlia, affinché Alessandra potesse cambiarsi più spesso.

La bambina imparò gradualmente  ad essere più autonoma: avendo i capelli corti, finalmente  poteva pettinarsi da sola!

Era contenta di avere molti vestiti  ed indumenti intimi per cambiarsi spesso e sentirsi ammirata dai suoi compagni di   scuola .

Alessandra cominciò a sorridere, a giocare con  gli altri bambini e ad inserirsi bene nella classe; inoltre diventò  più attenta e partecipe alle attività scolastiche.

A fine anno raggiunse risultati soddisfacenti in ogni ambito disciplinare con grande gioia del nonno e della  maestra!

A volte, basta poco per rendere sereno un bambino: una carezza, qualche attenzione, un po’ di affetto…

La maestra fu molto  gratificata dal cambiamento di Alessandra: la serenità della  bambina fu per lei la ricompensa ai suoi piccoli gesti di altruismo.


 

La maestra gentile

“Confrontati, ma sii sempre gentile. Discuti, ma abbi sempre  rispetto. Sopporta, ma non abbassarti mai per nessuno. Accetta le critiche, ma mai le imposizioni.

Ama, ma soprattutto…Amati!” Queste erano le massime di madre Teresa di Calcutta che Sara condivideva e con impegno seguiva, non senza difficoltà.

Quella mattina d’estate il cielo era azzurro, ma alcune nuvole sembravano rincorrersi minacciose e a tratti nascondevano il sole; il mare era agitato: rispecchiava il suo stato d’animo che non si placava nemmeno là, in quell’ambiente marino che tanto adorava. Spesso  le capitava di osservare i gabbiani che sostavano un po’ sulla riva, vicino ai pescatori, i quali toglievano il pesce dalle reti, sperando di riuscire a nutrirsi per poi volare liberi più in alto. Lei pensava che, se fosse nata animale, avrebbe voluto essere un gabbiano per essere sempre libera di scegliere e non essere obbligata a seguire schemi, essere ingabbiata in situazioni imbarazzanti e lottare continuamente per essere coerente!

Quel giorno molti bambini giocavano a pallone  sulla spiaggia, altri si divertivano a nuotare tra le onde mentre alcune signore chiacchieravano tranquillamente  sotto gli ombrelloni trascurando la sorveglianza dei figli. Sara non riusciva a rilassarsi sia perché temeva per qualche ragazzino che si stava allontanando  nel mare, sia perché il pallone poteva colpire lei o qualche anziano.

Intanto rifletteva mentre osservava adulti e bambini: non è facile il mestiere di genitori, ma neanche quello d’ insegnante!

La nuova società  sta peggiorando, perché è scarsa la collaborazione scuola-famiglia. Si dà importanza a cose futili da esibire: abiti griffati, auto lussuose, tatuaggi… L’impegno nell’educazione dei figli è scarso, spesso si usa un linguaggio inadeguato dando un cattivo esempio. Sono pochi i genitori presenti nella vita dei figli, che sanno dare regole e dialogare con loro. Molti sono stressati dal lavoro, quindi non sono sereni ed equilibrati, per cui passano da un eccesso ad un altro: sono distratti,  ricoprono i figli di regali, spesso costosi e inadeguati, e li viziano per sopperire alla loro assenza o urlano; a volte diventano perfino violenti.

A scuola il compito dei docenti diventa sempre  più arduo.

Sara, nel corso  della sua vita, ha avuto la fortuna  di avere anche esempi positivi.

È  importante  essere autorevoli, non autoritari! Con l’ autorità si fa repressione provocando la ribellione, con risvolti  spesso pericolosi. Questo è il suo pensiero : “La gentilezza è la virtù dei forti”.

Sara era nata in un paese collinare della Basilicata. Era una bambina graziosa, dagli occhi neri e vispi, la carnagione chiara e molto delicata. Tanto tempo fa, in meridione, i neonati venivano fasciati come le mummie, da sotto le ascelle fino ai piedi, nei primi mesi di vita, poiché, secondo le credenze popolari, sarebbero  cresciuti con le gambe dritte. Lei, essendo nata con il viso arrossato, fu fasciata anche alle braccia per evitare che strofinasse le sue manine sul viso e lo facesse sanguinare. Un giorno la bimba piangeva più del solito.

“Perché, mamma, le imprigioni anche le braccia?” chiese Faustina , la figlia maggiore. “Hai visto che si gratta il viso  facendolo sanguinare?”.

“Mi spiace, cara, così guarirà prima”, rispose la mamma.

Infatti, dopo qualche settimana, il viso diventò  roseo e la signora non fasciò più le braccia: finalmente la bimba poteva muoverle e imparare a salutare e  a sorridere, invece di piangere sempre! Col passare del tempo gli studiosi hanno scoperto che i neonati devono sentirsi liberi di muoversi per crescere meglio e che addirittura, se si fa ascoltare una musica rilassante già quando sono nel ventre materno, crescono più sereni.

La sorella maggiore cominciò a prendersi cura di lei: la cullava  per farla addormentare, le faceva il bagnetto quando si svegliava, la vestiva, l’imboccava per farla mangiare. Quando la bimba compì  cinque anni, cominciò a frequentare la scuola materna; le sorelle e la mamma erano amorevoli con lei, perciò cresceva serenamente.

All’età di sei anni, cominciò a frequentare la scuola elementare.

Sara s’impegnava molto  per non deludere i suoi genitori, ma anche perché era assetata di sapere.

Ascoltava in silenzio la maestra, la quale era molto brava nella didattica, ma i suoi metodi educativi, purtroppo, erano molto rigidi: spesso perdeva la pazienza con i bambini negligenti ed usava la bacchetta in modo esagerato.

I bambini venivano puniti anche quando avevano il grembiule, le scarpe o le unghie sporche.

La maestra aveva assegnato vari incarichi: capoclasse, caposquadra, controllore dell’igiene.

Alla madre di Sara, la maestra aveva detto di cucire sul grembiulino nero una fascia bianca, sulla quale ricamare la scritta “capoclasse”. La bambina si vergognava di farsi vedere in giro con quella fascia, perciò anche quando faceva caldo indossava un  cardigan per coprire quella scritta durante il percorso da casa a scuola. Il suo incarico consisteva nel correggere i compiti assegnati ai compagni; la maestra dava le bacchettate se c’erano errori per cui non era facile per lei portare a termine quell’incarico, perché le dispiaceva assistere poi a violenze fisiche e psicologiche. L’insegnante usava anche le orecchie dell’asino di cartoncino per gli scolari meno bravi e faceva fare il giro per le altre classi per umiliarli.

A Sara rimarrà per  sempre impresso nella mente un episodio verificatosi in quella scuola. Una mattina invernale stava andando a scuola da sola, a piedi. Era infreddolita, perciò camminava a passo sostenuto quando, a un tratto, si sentì  chiamare a gran voce: era la madre di Giovanna, una sua compagna che il giorno precedente era stata picchiata dalla maestra. Era già stata informata dalla figlia sulla violenza subita, ma chiese conferma a lei. Più tardi la signora andò  a scuola e raccontò all’insegnante di aver saputo tutto da Sara, non da sua figlia.

Naturalmente la maestra smentì tutto… “I bambini hanno fantasia!” le disse.

Prima dell’accaduto, Sara era stata, per la maestra, il suo fiore all’occhiello, perché la bambina era secchiona, docile e ubbidiente e la gratificava nell’esito dell’apprendimento, ma da quel giorno fu ignorata, sgridata e umiliata  per ogni inezia!

Dopo un breve periodo, una mattina l’ insegnante  assegnò un tema dal titolo: “La bugia più grande della mia vita “.

Sara comprese che, per essere trattata meglio, doveva raccontare una bugia in quel testo, che svolse con impegno, descrivendo quell’episodio proprio come avrebbe voluto la maestra, per restituirle la bella immagine che aveva precedentemente screditato dicendo  la verità sui suoi metodi educativi violenti.

Infatti la docente fu soddisfatta del testo che mostrò  con aria trionfante a quella madre. In seguito, avendo compreso la perspicacia dell’alunna, ricominciò a trattarla bene come prima.

Da quella volta  l’alunna capì che molti adulti erano falsi e, se non voleva soffrire, doveva fingere anche lei quando  era necessario, almeno finché sarebbe diventata più grande per potersi ribellare.

Intanto  doveva impegnarsi molto nello studio, perché aveva deciso che avrebbe voluto fare la maestra per trattare i bambini con gentilezza.

Sara da bambina sognava un mondo migliore: genitori ed insegnanti gentili con validi metodi educativi, perché picchiare i bambini è un modo rapido di metterli in riga, suscitando in loro paura. A distanza di anni, però, studi psicologici hanno scoperto che ceffoni, sculacciate, appellativi denigratori ed esempi negativi generano nel bambino scarsa autostima, rabbia, aggressività  verso gli altri e desiderio di vendetta, fino a causare il fenomeno del bullismo.

Gli adulti, invece di far pesare agli studenti la loro autorità con la repressione e la violenza, dovrebbero essere autorevoli, dare spazio al dialogo, al confronto, adottare varie strategie per coinvolgerli, poiché gli adulti violenti sono solo dei perdenti.

Sara ricorda le botte e le umiliazioni che ricevevano i compagni, soprattutto nella scuola elementare. Anche nella scuola media ricorda i “cioccolatini” – ossia gli schiaffoni – regalati alle compagne distratte durante le lezioni, i calci  dati ai compagni chiacchieroni e i baffetti disegnati con la biro agli studenti che non avevano svolto i compiti, fortunatamente solo da alcuni insegnanti, e sporadicamente.

Ricorda che la maggioranza  dei genitori stimava i docenti violenti ritenendoli più  preparati di quelli gentili; per loro la violenza era sinonimo di severità e bravura!

Sara ricorda volentieri solo un lato positivo trasmesso dalla sua maestra: l’amore per il teatro. Spesso faceva recitare favole agli alunni, ma a  lei assegnava sempre personaggi da protagonista, perché memorizzava tutto. Gli spettacoli avvenivano sovente nelle parrocchie, poiché c’erano locali spaziosi che potevano contenere molta gente. La bambina, essendo molto sensibile e timorosa di deludere le aspettative della maestra, quando c’era una scena drammatica riusciva a far commuovere gli spettatori.

In quarta elementare Sara fu colpita da una gravissima  anemia, per cui era priva di energie fisiche, ma soprattutto era piombata  nella malinconia. In famiglia era successa una tragedia: la perdita della sorella  maggiore !

Faustina era stata per lei  un punto di riferimento, come una mammina!

Tanti ricordi affiorano nella sua mente: la malattia  della sorella, i suoi tentativi di farla ridere, le sue preghiere… e poi testo “La donnina piccina, piccina, picciò” che leggeva  spesso ed interpretava nel migliore dei modi, poiché riusciva a strapparle un sorriso!

Dopo alcuni mesi: “Faustina, vuoi che ti legga qualcosa  di divertente?”.

“No, vorrei riposare, grazie, Sara”.

La bambina capì  che la sorella era peggiorata da quando era stata  dimessa dall’ospedale e che la stava perdendo; si sentiva  impotente e triste, perciò non aveva più appetito e mangiava  pochissimo.

Dopo la scomparsa di Faustina, nessuno  badava a lei che, sentendosi debole, stava sempre a letto, non andava  più a scuola, anche perché in casa erano tutti malinconici.

Un giorno, la maestra  incontrò il padre di Sara.

“Buongiorno,  Giovanni, quando  tornerà a scuola la bambina? Ormai è  passato più di un mese dal triste evento, se prolunga le assenze, rischia la bocciatura e sarebbe un peccato farle perdere l’anno, dal momento  che è molto brava!”.

“Lo so, maestra, ma è  molto pallida e debole, appena  starà meglio tornerà a frequentare  la scuola, grazie per l’ interessamento”, rispose il papà della bambina.

Dopo qualche  settimana, non vedendo  miglioramenti sulla salute della figlia, Giovanni  decise di farla visitare da uno specialista luminare di Bari.

“Quanti anni hai?” chiese il dottore. “Ho nove anni “disse Sara.

“Perché  sei vestita di nero?” continuò  il medico.“ Perché sono in lutto, è  venuta a mancare mia sorella, qualche  mese fa”, rispose la bambina.

Dopo la visitò accuratamente, osservò tutti  gli esiti delle analisi effettuate a Sara, che poi fece attendere nella stanza attigua  per poter parlare più liberamente col padre. Il dottore fu molto schietto e senza mezze misure nel comunicare a Giovanni ciò che doveva fare per aiutare la figlia.

“Innanzitutto deve sparire l’abbigliamento  nero, è solo una bambina e dev’essere vestita con capi colorati; inoltre deve stare in un ambiente ricco di ossigeno, in compagnia di persone serene, fidate, che possano curarla con i farmaci da me  prescritti e con l’alimentazione adeguata. Se eseguirete i miei consigli, forse riusciremo a salvarla, altrimenti perderete anche lei”.

Giovanni pensò di chiedere aiuto a suo fratello Nicola poiché era fidanzato con Maria, una ragazza che abitava in una casa  di campagna, circondata da molta vegetazione, quindi il posto ideale; inoltre in quella famiglia c’era molta allegria, per cui Sara avrebbe potuto passare un periodo più sereno. Perciò Giovanni comunicò  al fratello la sua preoccupazione e gli chiese se poteva chiedere la collaborazione alla famiglia della fidanzata. Dopo pochi giorni ebbe la risposta positiva e preparò tutto il necessario per mandare sua figlia presso quella famiglia. La bambina, inizialmente, si sentiva spaesata, ma col passare del tempo cominciò a sentirsi a suo agio, essendo stata coinvolta da Maria nelle sue semplici attività: ricamo, passeggiate, visione di qualche  film divertente; inoltre conobbe Laura, zia e vicina di casa di Maria, che la trattava come una figlia, avendola presa in grande simpatia. Spesso le regalava leccornie di vario genere e la riempiva di complimenti. Dopo qualche mese, Sara cominciò a stare meglio, non aveva più capogiri ed il suo viso era più colorito, perciò ritornò a scuola: temeva di perdere l’anno a causa delle numerose assenze.

A fine anno scolastico partecipò a un concorso. Si trattava di svolgere un tema relativo ad un’esperienza triste o lieta vissuta in famiglia. Suo padre le aveva detto che c’era in palio un bambolotto d’oro. Sara svolse il testo con impegno e lo arricchì di particolari significativi sull’esperienza dolorosa vissuta recentemente a causa della perdita della cara sorella. La bambina superò brillantemente il concorso vincendo una borsa di studio  rinnovabile nei tre anni della scuola media statale, se avesse conseguito voti alti.

Sara frequentò la scuola media con entusiasmo ed interesse dedicandosi allo studio  con costanza, di conseguenza si diplomò con ottimi voti oltre ad avere le borse di studio  ogni anno.

Un’amara  sorpresa, però, l’attendeva. Suo padre si complimentò con lei dicendo: “Sono orgoglioso di te! Ora potrai dedicarti ad altre attività: ricamo, cucito, cucina… per diventare una brava casalinga”.

“Ma io desidero  continuare gli studi, per diventare  una brava maestra, perciò mi sono impegnata molto! Non aspiro ad essere solo una casalinga!”

“ Hai ragione, ma io non posso  mantenerti agli studi in città, perché  siamo in tanti, lavoro solo io e c’è già  tuo fratello che studia!”

“Tu sei mio padre, cerca una soluzione, ma io non voglio rinunciare al mio sogno!”

Sara, da quel momento  diventò così malinconica e taciturna che Giovanni riuscì a trovare il modo di accontentarla: impegnare il quinto del suo stipendio da vigile urbano.

Immaginate i salti di gioia della ragazza  quando le fu comunicata la bella notizia!

La ragazza andò a Matera, presso una famiglia affidabile composta da 4 persone: padre poliziotto, madre casalinga e due figli adolescenti.

Al piano inferiore dello stesso condominio, presso un’altra famiglia stava suo fratello maggiore  che frequentava l’istituto industriale.

L’abitazione  era in periferia, molto lontana dall’istituto Magistrale che era ubicato  nel centro storico. La ragazza si avviava a piedi, con i libri legati da un elastico, un’ora prima per arrivare puntuale a scuola, poiché  voleva risparmiare il denaro per il pullman e conservarlo in caso di necessità.

La nipote del poliziotto, che aveva deciso di abitare  nella stessa camera di Sara, era una sua compagna di classe; la domenica  pomeriggio le due ragazze andavano a passeggiare nel centro storico di Matera, seguite dall’intera famiglia.

Sara soffriva nel notare i diversi trattamenti  fra lei e la nipote, che era molto coccolata in tutto; inoltre osservava  il suo ricco guardaroba sempre alla moda e griffato mentre lei aveva un misero cambio di abiti .

Quando  voleva farsi la doccia, l’acqua  era sempre fredda!

Un giorno Lina, una sua  compagna di scuola, le propose di trasferirsi a casa sua, in una zona centrale  e quindi più vicina alla scuola; l’idea era allettante anche perché la quota mensile da versare era inferiore a quella che pagava al poliziotto.

La ragazza  si consultò con suo fratello, il quale concordò di trasferirsi entrambi  presso la casa di Lina.

Finalmente migliorò la vita di Sara, che cominciò ad assaporare un po’ di libertà: poteva scegliere quando e con chi passeggiare, allargò  la cerchia delle sue amicizie e diventò più serena. Lina e sua madre erano molto affettuose e generose con lei: spesso le prestavano vestiti, cosmetici e le davano buoni consigli.

Frequentò gli ultimi  tre anni di scuola con il domicilio presso quella famiglia che l’aveva aiutata a valorizzarsi, ad aumentare  la sua autostima e sicurezza.

I ricordi  di Sara affiorano nitidi nella sua mente: il corteggiamento  di qualche ragazzo, le prime infatuazioni e il primo amore platonico  a diciassette e diciotto anni.

Era il periodo di Carnevale.

Per le strade della città  giravano giovani e bambini mascherati; a Matera c’erano anche le giostre nel quartiere di Piccianello: autoscontri, ruota panoramica, sedie fissate con catene, che giravano quasi volando…

Genoveffa la invitò  ad andare con lei.

“Sara, a pomeriggio andiamo sulle giostre?”

“Non posso sprecare i miei  risparmi per il divertimento, devo conservarli in caso di necessità”.

“Non dobbiamo spendere  niente, perché il titolare della giostra ha prestato a mia sorella, che ha fatto la piega gratuitamente a sua moglie, la chiave  degli autoscontri senza pagare e finché vogliamo!” disse l’amica sorridendo.

Potete immaginare  con quanto entusiasmo accettò  l’invito e fu puntualissima

all’appuntamento stabilito .

Arrivate a Piccianello,  sentivano la musica propagarsi ad alto volume  nell’aria, tanti ragazzi e bambini che affollavano  le giostre mentre genitori e nonni sorvegliavano figli e nipoti.

Appena  gli autoscontri si fermarono, Genoveffa e l’amica presero posto in uno di essi e  vi rimasero finché furono stanche, ma soddisfatte e felici di essersi divertite gratuitamente.

Quando scesero dalla giostra, un ragazzo biondo dagli occhi azzurri si avvicinò a Sara e con modi garbati si presentò, le chiese il nome e le fece mille domande.

Lei l’aveva notato e si era sentita osservata già da quando era arrivata vicino  alle giostre, perciò, pur timidamente, gli aveva risposto. Era molto emozionata nel guardarlo, perché  le sembrava che il suo nome “Angelo” fosse azzeccato a quel ragazzo così gentile.

La mattina  seguente lo vide vicino al muretto della scuola, da dove  si poteva ammirare lo stupendo paesaggio dei Sassi di Matera.

Mentre si avvicinava, Angelo le andò  incontrò.

“Ciao Sara, non vedevo l’ora di vederti! Stanotte  non ho chiuso occhio, perché non mi sembrava vero di averti finalmente  parlato! È da tanto tempo che desideravo farlo, ma temevo di darti fastidio, hai un’espressione così seria e dolce! Io, passando tutte le mattine da qui mentre  vado a scuola, ti avevo notata”.

“Dove vai a scuola?” chiese la ragazza .

“Frequento il quarto anno dell’istituto  industriale, nel rione Piccianello”.

“Ma è  lontano, corri altrimenti  troverai la scuola chiusa!” gli disse Sara.

“Non preoccuparti, entrerò alla seconda ora” le assicurò il ragazzo.

Da quella volta si vedevano  ogni mattina là, andando entrambi in anticipo a scuola, perché  avevano voglia di conoscersi meglio, da amici per il momento.

Erano timidi, romantici, ogni incontro era vissuto col batticuore e con entusiasmo; a loro bastava una passeggiata  e qualche abbraccio per essere felici!

Un giorno Angelo le comunicò che, lui ed alcuni amici, avevano preso in affitto una casetta nei Sassi e l’avevano adibita  a club denominato “Mulino a vento”, come una bella canzone di Little Tony.

“ Vorrei che venissi ogni tanto anche tu, sai l’abbiamo arredata con pochi oggetti riciclati, con un giradischi, un tavolo, alcune sedie… È  stata tinteggiata con colori caldi; abbiamo pensato che sarebbe bello incontrarci là qualche pomeriggio insieme agli altri amici, specialmente quando fa freddo, per giocare a carte, festeggiare un compleanno,  ballare…”

“Mi piacerebbe tanto  conoscere i tuoi amici e trascorrere momenti piacevoli in compagnia, cercherò  di venire qualche volta con la mia amica Lina”

Infatti ,una domenica pomeriggio, Sara riuscì ad andare in quel club, dove l’aspettava Angelo  con amici ed altre ragazze. Il locale era particolare, luminoso ed arredato con gusto. Tutti l’accolsero con gentilezza, lui le andò incontro col sorriso guardandola con occhi luminosi.

Ascoltarono le canzoni dei Beatles, di Lucio Battisti, Rita Pavone, Don Baky, Dino… Fecero alcuni balli lenti , ma anche il twist,  assaggiarono dei dolcetti tipici materani.

Prima che facesse buio, però, Sara e Lina, anche se a malincuore,  dovettero rientrare: questa era la regola data a loro dai famigliari.

Dopo qualche settimana, si stava avvicinando la festa di S. Giuseppe – allora non si andava a scuola -, inoltre quell’anno avveniva di venerdì, perciò  si sarebbe fatto il ponte ed erano tre giorni di vacanza .

Sara aspettava con ansia e gioia quei giorni, perché suo fratello sarebbe andato ad Irsina e quindi non l’avrebbe controllata; ma avrebbe potuto incontrare più  spesso e con orari meno rigidi il ragazzo che stava frequentando e che le faceva battere il cuore ogni volta che lo vedeva.

Di solito le telefonava durante la settimana, perciò non vedeva l’ora d’informarlo della  maggiore libertà che avrebbe avuto. Il telefono però non squillò né venerdì e nemmeno nel weekend. Aveva tentato lei di telefonargli, ma nessuno rispondeva, immaginate lo stato d’ animo di Sara! Diventò triste e taciturna, non aveva voglia di uscire, né di studiare,  non riuscendo a capire le motivazioni di quel comportamento!

Dopo alcuni giorni Angelo, appena la vide, la salutò sorridendo con un pacchettino regalo in mano, ma mentre glielo stava porgendo, lei esclamò: “È  il primo regalo per me, desideravo da tempo un tuo pensiero d’amore, ma ora mi è difficile accettarlo, sei sparito senza sapere perché ed ora ti presenti come se niente fosse successo!”

“Sono partito all’improvviso con mio padre ed i miei fratelli per Salerno a trovare dei parenti e non ho avuto il tempo per informarti.”

“Avresti potuto farlo da Salerno, invece di rovinarmi le vacanze lasciandomi in ansia e con tanti dubbi e cattivi pensieri!”

“Hai ragione, mi sono distratto stando in compagnia, scusami, non succederà più.”

“Sicuramente non accadrà più, perché non mi fido più di te, mi hai fatto stare male già all’inizio della nostra storia, adesso non voglio più  vederti!”

Dopo qualche mese, Sara chiese a Lina di accompagnarla al club che frequentava Angelo, poiché le mancava tanto e voleva fargli una sorpresa. Quando entrò in quel locale, ebbe lei un’amara sorpresa: lui stava abbracciato ad una bella ragazza! Sara corse sul balcone e scoppiò  a piangere. Lui, appena se ne accorse, si avvicinò e le porse un fazzoletto, ma non si fermò per consolarla, perciò lei andò via subito e da quel momento cercò di dimenticarlo pensando di essersi illusa che lui fosse una bella persona!

Nel frattempo era corteggiata da altri ragazzi che lei non prendeva in considerazione.

Dopo aver conseguito il diploma, Sara trascorse alcuni mesi ad Irsina, un bel borgo lucano, ma non si sentiva viva, cominciava ad annoiarsi: non aveva molto da fare, il paese non offriva opportunità di lavoro.

Una mattina lesse un’inserzione sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”: cercavano ragazze diplomate in un istituto climatico permanente a Selvino, in provincia di Bergamo, dov’erano ospitati bambini milanesi che frequentavano in quella struttura scuole private; inoltre tutte le dipendenti erano femmine e gestite da suore.

Sara aveva diciotto anni e all’epoca si era maggiorenni a ventuno, perciò suo padre in un primo momento non accettò l’idea di farla andare in un luogo così  lontano.

Lei convinse sua sorella maggiore ad andare insieme a lavorare là,  quindi finalmente suo padre acconsentì.

Non fu facile per le due sorelle inserirsi subito in quell’ambiente montano con un clima rigido e persone  bergamasche con una mentalità diversa dalla loro, ma pian piano fecero amicizia e si abituarono anche al freddo; vi rimasero per un anno circa e si arricchirono confrontandosi con tante persone.

Dopo quell’esperienza,  Sara tornò a casa, più sicura di sé e ancora più determinata di prima a inseguire i suoi sogni .

Un giorno andò a Matera, dove rivide Angelo, che la salutò affettuosamente e ricominciò a corteggiarla, ma lei , anche se ne era lusingata, non volle più  saperne. Rimasero comunque buoni amici. Lei aveva dei valori: rispetto, dignità, amore verso se stessi e verso gli altri.

In seguito, Sara si trasferì a Torino con la sua famiglia e rimase  per cinque anni, fra la metropoli ed Alba, dove conobbe un bravo carabiniere, che in breve tempo conquistò la sua fiducia. Diventarono prima amici e poi si fidanzarono.

Successivamente si sposarono e si trasferirono ad Asti, dove rimasero per vent’anni. Intanto Sara si era dedicata con  entusiasmo, gentilezza e passione all’insegnamento. Stando con i bambini si sentiva gratificata e realizzata, cercava di trasmettere serenità  dando il buon esempio, aveva molta pazienza e mostrava comunque autorevolezza dando poche regole, ma chiare.

La maestra si ricordava sempre i tempi in cui era una bambina timorosa e insicura, a causa dell’eccessiva autorità della sua maestra, perciò seguiva metodologie diverse, adottava mille strategie per coinvolgere gli alunni nelle attività scolastiche. Dava molto spazio al dialogo, facendo rispettare le regole per abituarli anche all’ascolto.

Durante la sua carriera non sono mancati bambini con difficoltà di apprendimento e comportamentali,  ma è riuscita sempre a farli migliorare, armandosi di autocontrollo e suscitando in loro l’autostima,  cercando di ottenere una collaborazione costruttiva dalle famiglie.

Sara dava spazio alle attività artistiche: musica, pittura, poesia, teatro,  anche se molti adulti – genitori e alcuni colleghi – le ritenevano meno importanti.

Sara ogni anno programmava un musical per la sua classe, e a volte per più  classi, poiché lo riteneva completo per i ragazzi, che potevano scegliere le attività a loro più  congeniali: la recitazione espressiva parlata o cantata, il ballo, scenografie… Di solito le attività  venivano svolte nelle ore pomeridiane, se le classi erano a tempo pieno, e in orario aggiuntivo se erano a tempo antimeridiano.

I bambini partecipavano tutti con interesse ed entusiasmo e davano il meglio di sé; naturalmente alla fine dell’anno scolastico  c’era il saggio, al quale venivano invitate anche le loro famiglie.

A volte era necessario insegnare  prima ai genitori le stesse strategie  e metodologie educative per avere risultati  positivi.

La maestra gentile  si era trovata molto bene sia con le colleghe che con i genitori dopo una diffidenza iniziale da parte dei piemontesi, perché era meridionale, ma dopo averla conosciuta, era stata apprezzata da tutti, per non parlare dei bambini, che l’adoravano.

Col passare del tempo, però, Sara ebbe problemi di salute all’apparato respiratorio e fu consigliata dallo pneumologo di trasferirsi al Sud, nella terra natia, dove il clima era mite.

Non fu facile per lei ascoltare  quel consiglio,perché avrebbe dovuto sradicare dal loro ambiente  i suoi due figli ormai grandicelli, nati e cresciuti ad Asti. Fu però incoraggiata da suo marito, molto preoccupato per lei.

La maestra, a malincuore, chiese e ottenne il trasferimento prima per Montescaglioso e infine per Matera, dove insegnò ancora per molti anni.

Al Sud trovò più  accogliente l’ambiente del paese che quello della città  materana: i montesi sono più socievoli, elastici mentalmente e aperti alla collaborazione.

Sara ha un ricordo stupendo della vita scolastica vissuta là, ma a Matera, oltre a belle  gratificazioni avute in un circolo didattico, ha ricevuto molte delusioni, non dai bambini, che le hanno  dimostrato sempre rispetto ed affetto, ma da adulti che avrebbero dovuto supportarla nei suoi metodi educativi gentili ed efficaci, invece di deluderla, preferendo metodi autoritari, spartani e talvolta violenti, che demolivano ciò che lei costruiva – l’autostima e la serenità negli alunni – con conseguenze negative negli apprendimenti e nei comportamenti.

La gentilezza è una forma  d’intelligenza e un modo di essere delle persone sensibili, dotate di autocontrollo  e di pazienza infinita che conquista i bambini, persone fragili e in evoluzione.