Francesco Locantore - Poesie

T’AMO

 

T’amo.

parola sa di ricamo.

lieve s’addensa

piano,

sullo specchio riflessa

a piuma di gabbiano.

 

T’amo

d’amor malsano.

fin a deporre l’arco

cingo la mano,

piano,

solchiam i mari,

solchiam i cieli

tra l’ali d’aeroplano.

 

T’amo,

coi papaveri

alle labbra

e candide rose,

vermiglio,

sulle guance.

 

E io t’amo,

come Icaro

l’astro madre,

la libertà

le catene spezzate

ed Omero

il color de girasoli.


AMOR MORTIS

 

Giocando a falciar anime varie,

l’incappucciata Morte,

solo di nero vestita

scorse lì ferma un’anima pia.

 

Le putrefatte mani

che discordia dispensano

arrancarono in avanti

per sfiorar la membra perfetta.

 

Chiara pelle tanto sensibile,

solo stracci a coprirle il corpo,

ciglia reali come il volo di un falco

e fascino da ammaliar i reali.

 

E anche Morte rimase incerta,

che gran peccato

da far pianger sé stessa,

falciar di mezzo cotanta bellezza.

 

Così decise di andare via,

e la finse condannata;

per amore di un’anima mia,

persino Morte fu ingannata.


QUANDO L’OCEANO È IN BONACCIA

 

Il mare

è una tavola.

il sole brucia

la scura membra

ed è asfissiante.

 

L’aria che manca,

la sete avanza,

la fame mi mangia,

ma io bramo te

 

mio soave

porto di mare,

sei miraggio

che placa la psiche

quando l’oceano

è in bonaccia.


I FIORI DEL DIAVOLO

 

Candore divino

traspare

dai diafani petali,

lenti per l’oltre

che abbagliano

chi oltremisura

osserva

e concedono

colori ai ciechi.

 

Fioriscono lussuriosi,

placano

la sete di carne

con l’eterea quiete

di sterminati paesaggi

in eterni miraggi.

 

E son fatti

di titanici steli

e virginali petali,

ma indossano

un diadema

del color della sera

fuso dal sangue

del demonio

sgorgato

dal grande impatto.

 

Miracolosi tormenti,

fumi tribali e cannibali,

viaggi per Itache lontane,

agognati riposi

e ancestrali canti,

racchiusi nei ginecei

dei Fiori del Diavolo.


CARNE E SPIRITO



C’è odore di sesso
e di margherite,
ho graffi sul petto
curati
da tenui piume
e candidi petali.

Lenzuola
sudate,
caotiche e disfatte
sono perfette, ordinate
come gli astri nel cielo terso
di mezza estate.

Godo tra i gelsomini
in paradiso
e il vento è in amore con me
e con le onde,
che spingono il mio corpo
a bramare carne,
pace
e sangue,
quiete.

Sono calma tormenta,
tornado, ciclone
e brezza marina,
che saluta le vele
quando è sera.

Sono carne e spirito,
inscindibilmente me,
guerra e pace
in eterno
e accordato
conflitto.


LA BALENA SPIAGGIATA

 

Si muove.

Possente come il mondo

Leggiadra e stellare.

Ha quel non so che di ancestrale,

nella grazia,

nelle movenze,

ad imitar quasi un pianeta.

 

Si muove.

O non si muove.

Non si capisce il senso.

Il peso della storia,

lei, lo sente appena.

Pene di chi muore, vive

O dorme, sogna

Sono insetti

Poggiati su di una montagna;

non se ne avvede.

 

Si muove.

Son sicuro che si muova.

Nuota sfiorando le stelle

e scansa gli scogli di comete.

Nuota nel tempo,

nello spazio,

respirando l’aria dell’universo,

consapevole del tutto.

 

Si muove.

Si muove e sa tutto.

Sa di cose arcane,

sconosciute,

incomprensibili all’uomo.

 

Ma l’uomo,

incapace di comprendere,

pioniere dell’aragione

la sfinisce

pungolandola,

inseguendola

con l’arpione.

 

Non si muove.

È sfinita.

L’uomo ha vinto

Distillando la costanza.

La balena della ragione

Si è spiaggiata nell’ignoranza.


SONO AVIDO DI VITA

 

Sono cullato.

Sento scricchiolare

tutt’attorno

assi di legno livide.

ho gli occhi serrati,

ma un gabbiano,

non uno, bensì due,

volano rotando

su di me finché 

planando in picchiata

si posano, vicini,

come miei antichi compari

creando tutt’attorno 

un terremoto disequilibrante.

Apro gli occhi,

e ad attendermi il bianco,

“I campi Elisi”

Penso.

Poi il bianco viene mangiato

da tonalità sempre più azzurrine,

e alla fine

i miei occhi 

si riempiono di 

turchese 

e cobalto, 

divisi da un’impercettibile 

riga, perfetta, 

tracciata dal dio degli architetti,

così lontana da parere un miraggio, 

e come tale capace di darmi,

seppur fievole come ciò

che resta di me,

un barlume di speranza.

“L’orizzonte!” urlo in preda all’intuizione.

Sono avido di vita.

un piatto oceano,

metafora dell’uomo,

ormai piatto… e calmo,

ma di una piattezza e calma 

che lo uccide;

mi circonda.

Due remi, 

si ma spezzati,

sono poggiati

 accanto a me

in fin di vita, 

colpevoli improcessabili

dell’ego umano

che tutto sa e tutto sa fare,

tanto d’essersi rotto all’uso, 

altro che remi.

Su di essi i due gabbiani,

li chiamerò Huginn e Muninn,

Timpani di Odino,

venuti qui a sussurrarmi.

Sono avido di vita.

Otto giorni che non mangio.

Quattro che non bevo.

Sto morendo.

Ma sono vivo.

E per quando brami acqua,

e l’arida acqua marina

mi seduca

“Eloquente Natura, 

acqua desidero e acqua mi dona,

bastarda”

sono avido di vita

e non più di tutto acqua 

e cibo, smanio

bensì Lei:

ruggente surrogato d’esistenza.

Morirò qui,

e a rendermi cibo per pesci 

non sarà Natura, né oceano,

sete, né fame…

Sarà la brama di te,

l’anelare la tua presenza 

in tua assenza,

mio agognato 

senso di vita.


ANIMA STORPIA

 

Una sagoma solitaria

girovaga,

trascinandosi 

sull’inerte asfalto

umido

e freddo.

 

È notte,

ma i lampioni

illuminano a giorno

la desolata via.

 

Si ergono giganti,

polifemiche vedette

che con l’occhio buono 

allungano la curva ombra 

dell’arrancante figura.

 

Stracci.

Solo stracci 

a coprirgli 

il devastato corpo.

 

Trascina 

la morta gamba,

zuppo di pioggia

e trattiene lacrime

dalla nascita.

 

Pendolante

pende,

pendolare 

di una vita

che lo ha appeso

a peso morto

dal primo vagito.

 

Si trascina,

striscia,

si regge con forza

sul muro

da ore e per ore

senza meta,

senza casa,

anelando 

la quiete del sonno.


CANTI ARCANI 

 

Steso tra gli aurei 

campi di grano

bramo la quiete.

 

Il vento dell’est

ride, gentile

è in amore 

con le spighe in fiore

che lievi 

mi carezzano.

 

Mute e sterminate

le lande desolate 

mi sussurrano

alle orecchie

canti arcani

e sperduti,

composti

a ritmo pigro

e pacato

proprio

di madre terra.

 

Ho le rughe sul volto

e i calli alle mani.

 

Lento passeggia

il mulo,

la schiena inarcata

dal peso del mondo,

sbuffa al mio viso

e mi desta.

 

Mi alzo giovane e forte,

senza quiete più che mai,

accarezzo le spighe

e mi nutro del loro aroma.

 

Ritorno alienato

al lavoro dell’uomo

e mi ritrovo a fischiettare

pigri e pacati 

canti arcani.


VIAGGI DIVERSI 

 

Nei placidi 

Mari di Nettuno

Assopito sono,

e sfioro con la fronte

soffici fondali,

soffocanti cuscini

che giovano il riposo,

con le onde

e le correnti

a tracciare i miei percorsi.

 

Tra i burrascosi

Cicloni di Giove

Incantato sono,

e tendo il mio braccio

ai loro occhi,

ne bramo la quiete

ipnotizzato 

dalla matematica perfezione,

stringa di Fibonacci 

che alla mia mente si lega

e per l’infinito mi conduce

tra la placida pace 

dell’ordine

e l’irrefrenabile 

sete di caos.

 

Sugli aurei

Anelli di Saturno

Passeggio,

instancabile traversata

per l’ignoto,

meta di chiunque

osi cavalcare 

più del dovuto,

inconsapevole 

del mio inesorabile

girare in tondo.

 

Eppur mi muovo…