T’AMO
T’amo.
parola sa di ricamo.
lieve s’addensa
piano,
sullo specchio riflessa
a piuma di gabbiano.
T’amo
d’amor malsano.
fin a deporre l’arco
cingo la mano,
piano,
solchiam i mari,
solchiam i cieli
tra l’ali d’aeroplano.
T’amo,
coi papaveri
alle labbra
e candide rose,
vermiglio,
sulle guance.
E io t’amo,
come Icaro
l’astro madre,
la libertà
le catene spezzate
ed Omero
il color de girasoli.
AMOR MORTIS
Giocando a falciar anime varie,
l’incappucciata Morte,
solo di nero vestita
scorse lì ferma un’anima pia.
Le putrefatte mani
che discordia dispensano
arrancarono in avanti
per sfiorar la membra perfetta.
Chiara pelle tanto sensibile,
solo stracci a coprirle il corpo,
ciglia reali come il volo di un falco
e fascino da ammaliar i reali.
E anche Morte rimase incerta,
che gran peccato
da far pianger sé stessa,
falciar di mezzo cotanta bellezza.
Così decise di andare via,
e la finse condannata;
per amore di un’anima mia,
persino Morte fu ingannata.
QUANDO L’OCEANO È IN BONACCIA
Il mare
è una tavola.
il sole brucia
la scura membra
ed è asfissiante.
L’aria che manca,
la sete avanza,
la fame mi mangia,
ma io bramo te
mio soave
porto di mare,
sei miraggio
che placa la psiche
quando l’oceano
è in bonaccia.
I FIORI DEL DIAVOLO
Candore divino
traspare
dai diafani petali,
lenti per l’oltre
che abbagliano
chi oltremisura
osserva
e concedono
colori ai ciechi.
Fioriscono lussuriosi,
placano
la sete di carne
con l’eterea quiete
di sterminati paesaggi
in eterni miraggi.
E son fatti
di titanici steli
e virginali petali,
ma indossano
un diadema
del color della sera
fuso dal sangue
del demonio
sgorgato
dal grande impatto.
Miracolosi tormenti,
fumi tribali e cannibali,
viaggi per Itache lontane,
agognati riposi
e ancestrali canti,
racchiusi nei ginecei
dei Fiori del Diavolo.
CARNE E SPIRITO
C’è odore di sesso
e di margherite,
ho graffi sul petto
curati
da tenui piume
e candidi petali.
Lenzuola
sudate,
caotiche e disfatte
sono perfette, ordinate
come gli astri nel cielo terso
di mezza estate.
Godo tra i gelsomini
in paradiso
e il vento è in amore con me
e con le onde,
che spingono il mio corpo
a bramare carne,
pace
e sangue,
quiete.
Sono calma tormenta,
tornado, ciclone
e brezza marina,
che saluta le vele
quando è sera.
Sono carne e spirito,
inscindibilmente me,
guerra e pace
in eterno
e accordato
conflitto.
LA BALENA SPIAGGIATA
Si muove.
Possente come il mondo
Leggiadra e stellare.
Ha quel non so che di ancestrale,
nella grazia,
nelle movenze,
ad imitar quasi un pianeta.
Si muove.
O non si muove.
Non si capisce il senso.
Il peso della storia,
lei, lo sente appena.
Pene di chi muore, vive
O dorme, sogna
Sono insetti
Poggiati su di una montagna;
non se ne avvede.
Si muove.
Son sicuro che si muova.
Nuota sfiorando le stelle
e scansa gli scogli di comete.
Nuota nel tempo,
nello spazio,
respirando l’aria dell’universo,
consapevole del tutto.
Si muove.
Si muove e sa tutto.
Sa di cose arcane,
sconosciute,
incomprensibili all’uomo.
Ma l’uomo,
incapace di comprendere,
pioniere dell’aragione
la sfinisce
pungolandola,
inseguendola
con l’arpione.
Non si muove.
È sfinita.
L’uomo ha vinto
Distillando la costanza.
La balena della ragione
Si è spiaggiata nell’ignoranza.
SONO AVIDO DI VITA
Sono cullato.
Sento scricchiolare
tutt’attorno
assi di legno livide.
ho gli occhi serrati,
ma un gabbiano,
non uno, bensì due,
volano rotando
su di me finché
planando in picchiata
si posano, vicini,
come miei antichi compari
creando tutt’attorno
un terremoto disequilibrante.
Apro gli occhi,
e ad attendermi il bianco,
“I campi Elisi”
Penso.
Poi il bianco viene mangiato
da tonalità sempre più azzurrine,
e alla fine
i miei occhi
si riempiono di
turchese
e cobalto,
divisi da un’impercettibile
riga, perfetta,
tracciata dal dio degli architetti,
così lontana da parere un miraggio,
e come tale capace di darmi,
seppur fievole come ciò
che resta di me,
un barlume di speranza.
“L’orizzonte!” urlo in preda all’intuizione.
Sono avido di vita.
un piatto oceano,
metafora dell’uomo,
ormai piatto… e calmo,
ma di una piattezza e calma
che lo uccide;
mi circonda.
Due remi,
si ma spezzati,
sono poggiati
accanto a me
in fin di vita,
colpevoli improcessabili
dell’ego umano
che tutto sa e tutto sa fare,
tanto d’essersi rotto all’uso,
altro che remi.
Su di essi i due gabbiani,
li chiamerò Huginn e Muninn,
Timpani di Odino,
venuti qui a sussurrarmi.
Sono avido di vita.
Otto giorni che non mangio.
Quattro che non bevo.
Sto morendo.
Ma sono vivo.
E per quando brami acqua,
e l’arida acqua marina
mi seduca
“Eloquente Natura,
acqua desidero e acqua mi dona,
bastarda”
sono avido di vita
e non più di tutto acqua
e cibo, smanio
bensì Lei:
ruggente surrogato d’esistenza.
Morirò qui,
e a rendermi cibo per pesci
non sarà Natura, né oceano,
sete, né fame…
Sarà la brama di te,
l’anelare la tua presenza
in tua assenza,
mio agognato
senso di vita.
ANIMA STORPIA
Una sagoma solitaria
girovaga,
trascinandosi
sull’inerte asfalto
umido
e freddo.
È notte,
ma i lampioni
illuminano a giorno
la desolata via.
Si ergono giganti,
polifemiche vedette
che con l’occhio buono
allungano la curva ombra
dell’arrancante figura.
Stracci.
Solo stracci
a coprirgli
il devastato corpo.
Trascina
la morta gamba,
zuppo di pioggia
e trattiene lacrime
dalla nascita.
Pendolante
pende,
pendolare
di una vita
che lo ha appeso
a peso morto
dal primo vagito.
Si trascina,
striscia,
si regge con forza
sul muro
da ore e per ore
senza meta,
senza casa,
anelando
la quiete del sonno.
CANTI ARCANI
Steso tra gli aurei
campi di grano
bramo la quiete.
Il vento dell’est
ride, gentile
è in amore
con le spighe in fiore
che lievi
mi carezzano.
Mute e sterminate
le lande desolate
mi sussurrano
alle orecchie
canti arcani
e sperduti,
composti
a ritmo pigro
e pacato
proprio
di madre terra.
Ho le rughe sul volto
e i calli alle mani.
Lento passeggia
il mulo,
la schiena inarcata
dal peso del mondo,
sbuffa al mio viso
e mi desta.
Mi alzo giovane e forte,
senza quiete più che mai,
accarezzo le spighe
e mi nutro del loro aroma.
Ritorno alienato
al lavoro dell’uomo
e mi ritrovo a fischiettare
pigri e pacati
canti arcani.
VIAGGI DIVERSI
Nei placidi
Mari di Nettuno
Assopito sono,
e sfioro con la fronte
soffici fondali,
soffocanti cuscini
che giovano il riposo,
con le onde
e le correnti
a tracciare i miei percorsi.
Tra i burrascosi
Cicloni di Giove
Incantato sono,
e tendo il mio braccio
ai loro occhi,
ne bramo la quiete
ipnotizzato
dalla matematica perfezione,
stringa di Fibonacci
che alla mia mente si lega
e per l’infinito mi conduce
tra la placida pace
dell’ordine
e l’irrefrenabile
sete di caos.
Sugli aurei
Anelli di Saturno
Passeggio,
instancabile traversata
per l’ignoto,
meta di chiunque
osi cavalcare
più del dovuto,
inconsapevole
del mio inesorabile
girare in tondo.
Eppur mi muovo…