Compagna di giorni splendenti
Nuvole formano una violenta cappa
immobile
si distende all’infinito.
Lontano e timido
uno squarcio di arance in fiamma.
Danzano nella campagna
i mostri della ragione
mentre mi allontano da te.
Dov’è la tua freschezza?
Dove i tuoi baci la tua
leggerezza?
Dove nascondi la tua rugiada?
Tu creatura di fuoco
stai morendo
tra i miei nevai.
Respiri a fatica.
Dov’è la tua freschezza,
rosa profonda
dolce perfezione?
Hai staccato pezzi di me a morsi
e ora me li stai rispedendo
da un paese lontano.
Mi credevo intero
ma ero pochi frammenti.
Il corpo è spaccato
sano lo spirito.
La mia mente è un corridoio
pieno di paesaggi,
alcuni soltanto sognati
immaginati.
Altri attraversati fino al disgusto.
Com’è caldo e luminoso quel posto
in quel quadro
è accogliente.
Quello è il mondo.
Ora l’ho attraversato, ora
sono qui a gelare.
E dove sarai tu, mia
luminosa condanna,
a soffrire quali venti,
a combattere quali acque
a cacciare quali animali
a sopravvivere quali attimi?
I sassi che mi formano
li hai presi e li hai
sciacquati
in cinque lunghi fiumi, lunghi
e intensi, come le tue mani
e i tuoi occhi.
Il tuo corpo, quello che fu mio
quello che mi fu dato nel deserto
ora è in esilio.
Guardati bene, non lo hai
se n’è andato lontano.
Quello che indossi ora
lo avrai comprato di certo in qualche discount
a poco prezzo. Usa e getta.
L’altro resta mio.
Mi sembra di non averlo mai sfiorato.
Il mio corpo si disintegra
facendo quello che lo spirito
non vuole fare, dimenticarti.
Maledetta sia la tua lingua di vipera.
Non si ama nei secoli dei secoli.
Maledetto il tuo seno di fuoco
le tue labbra rubate a Satana.
Non si ama nei secoli dei secoli.
Maledette le tue gambe piene di danza
i tuoi occhi fustigati dalla malinconia o
persi nel vuoto, lì dove non c’è dio
e non c’è buio.
Siano bruciati pubblicamente i tuoi libri, i tuoi
autori
che non posso leggere.
Siano bruciati i tuoi capelli
e i tuoi odori inceneriti.
Ognuno che ama sia costretto a guardare,
che avevo tutto e mi è stato tolto tutto.
Qualcuno ha steso la mano su noi due.
Quanti peccati nascosti lui ha potuto vedere.
Perché, mia dolce sposa?
Perché è dovuto finire?
Il latte non è forse ancora bianco?
E il pane che non mangiavi, per la dieta,
non è ancora pane?
Non è ancora al suo posto Roma
annosa, con il suo fiume?
Non scalda ancora le tue ossa
quella città e il sole?
Non chiama ancora il mio nome piangendo
ogni chiesa, ogni strada, il tuo cuore?
Il tuo cuore, non tu.
È l’abitudine che ci tiene insieme.
I nostri desideri
inscrivono passive sintesi di morte
sul devastante schermo del rapporto umano.
Potessimo restare
piccoli incontri, episodi isolati…
rami spezzati nella tempesta.
Abitudine, ti ho visto
galleggiare sul lago
mostro dalle sette teste.
Ci uccidono i tuoi
nomignoli. Amore mio piccola
pulcina mia, queste cose ci
uccidono, ci straziano.
Bisogna sempre essersi
estranei, io e tu e basta.
Non voglio sapere chi sei.
Aridi pronomi per teneri frammenti.
Habitus
i tuoi orpelli, putrido
demone, ci impastano la lingua.
Eterno leviatano
divoratore da cui nasce ogni vita,
in cui ogni principio si forma,
senza di te il caos.
Quante volte abbiamo prestato
i nostri corpi all’abitudine; con le tue
gambe mi ha tenuto stretto, con le mie
braccia ti ha sbattuto contro il muro.
È stata il nostro più intimo
amante, il più innocente.
Quando ci incontreremo
non ricorderemo i nostri nomi.
Saremo solo io e tu.
Saremo di nuovo caldi
e nudi, ci sentiremo
ancora natura senza saperlo.
E gli altri spariranno
dopo lunga tirannia.
Sarò di nuovo l’atlante dei tuoi pensieri,
la mappa delle tue risate.
Saremo ancora bambini
e crederemo che niente
dura per sempre, tranne questo.
Gli amplificatori del nostro amore
sono scoppiati
e ora il vento sfronda le palme,
porta via i resti del mattino.
Ora sento tutto più profondamente,
ma non ho nessuno a cui dirlo.
Facebook ci ha visti piangere
Quasi un anno ci ha visti piangere.
Le stagioni hanno riso, sono
esplose e ci hanno gettato in altri
inferni, con altre belve.
Non ho potuto ancora vederti.
I miei occhi non sono ancora
innocenti e le tue
guance non ancora straniere.
Ho perso tanti amici, che è
meglio il vento
che se li porta.
Sono una persona migliore
adesso, ho tanti
buoni propositi. Sto meglio
in salute, credo. Ti farebbe piacere
il mio nuovo stile di vita. Certo
ce ne sono ancora di sviste,
cadute, piccoli
dispetti della notte, innocenti
come gli occhi dei ragazzi.
E sto bene a respirare dentro di me
quel che ancora si muove
di adolescente.
Per esempio facebook, per me,
è ancora una speranza.
Ti muovi tra i campi desolati
vicino al mare
in un posto di mare quando non è più
vacanza. Quando le
interrogazioni
sono vicine, e la sveglia
e il freddo negli sbadigli.
Stai ferma su uno scoglio,
come un animale marino, per ore, che nonna
deve venirti a chiamare. Ti piace
troppo il mare e io di bagni con te ne ho fatti
troppo pochi.
Avevo freddo, che incosciente.
Potessi unire una volta ancora te e la sabbia.
Ma non ho rimpianti.
Sai chi si è arrabbiato molto con me?
Facebook. Non ha potuto
festeggiare i nostri sei anni di amicizia.
Sono tuo e della terra
Stasera, mia tenera morte,
stasera tu e la mia terra
mi tenete.
Ho amato più la tua assenza
che ogni singolo momento
del tuo corpo.
In tutte le strade del mondo andrò
ancora per annusare la tua assenza.
La troverò in un cimitero regale
dove riposano musicisti e psichiatri, in una
taverna di mezza Europa dove la carne
si serve tiepida, e i camerieri parlano
un po’ di italiano.
Ti troverò nella canicola di luglio
tra le borse del mare e il sudore degli autobus.
Vicina alla necessità del ritorno,
nel traffico. Sarò caldo,
ma la mia pelle la troverai fredda.
Tutte le femmine mi derubano per non pensare che mi hai lasciato solo.
Eppure quanto era necessario
che tu mi lasciassi, quanto
mi sono riconosciuto nel tuo atto.
Eri così giovane, tenera
allodola.
Stupenda parabola d’incenso
nella cupola delle mie preghiere
hai impregnato tutti i mosaici
del tuo essere una creatura dorata.
In questa città balneare
dove olio e sole sulla pelle fanno una cosa.
Ricordi lontani dalla mia terra
stavolta, ponti acrobati nella notte
soli siamo andati, solo
noi ad occhi spalancati, a raccogliere l’acqua
nei paesi della guerra, a cercare
la luna piazzata al centro dell’oceano.
La luna quando non si vede niente
che non sia luna.
Ora che ti perdi in ciò che non è vita
perché non è memoria, che ti perdi
tra le piante che ti tagliano le dita,
nelle albicocche mangiate calde
lavandoci il viso dentro.
Ora ti perdi tra i gelati in Sicilia leccati gratis
tra un milione di canne di bambù
di tante bellissime vacanze.
Ti confondi tra lidi e discoteche
piangente, tra le gambe, in una rissa. Stai
per essere travolta dalle zampe di un cavallo
in uno scontro tra cristiani e turchi.
Ora sei in sella, amazzone
come ti ho sognato spesso.
Stasera tu e un’altra terra
mi tenete.
Tu e la mia terra mi tenete
stasera, e tutte le corse
sono state necessarie, per ovviare
ai vostri tradimenti, ogni sorso
è stato una piccola vendetta.
Quanto era necessario…quanto
lo gridava, lo esigeva tutto il creato
e quanto lo cantavano gli uccelli la mattina (forse
era per questo che li odiavi). Dopo
di loro i martelli lo volevano, i trapani
il rumore delle cose che vivono e muoiono
il rumore delle cose che ti svegliavano.
Lo volevano i baci degli altri amanti, e in molti
si sono masturbati sulla morte del nostro amore.
Un amore che è stato immenso, questo sì
lo posso gridare, agli uccelli e
alle cose che vivono.
Stasera sono tuo e della terra.
Roma e una donna
I miei cugini di Roma
mi hanno visto passeggiare solo
per le tue strade,
quelli che ti furono simpatici.
Hanno visto la morte
dietro e avanti a me,
camminare tranquilla.
Hanno visto i platani e i cipressi fare a gara
con il mio vuoto immenso
si innalzavano verso il cielo
d’asfalto. In quel
cielo ti ho visto di notte dormire,
in un manto di lenzuola sudate.
I miei passi lenti
estetizzanti
segugi ai tuoi passi di dolci mesi
di una vita ricominciata altrove,
lontano dal tuo paese.
Mi studio di adeguarmi alla bellezza
di tutto questo, di quei
giardini freschi,
di quella rotatoria senza
macchine, di te.
Ho sempre desiderato essere bello come te,
non stonare mai fra te e un tramonto,
fra te e la parete di un museo,
fra te e un negozio di libri vecchi.
Uscivo dalla stazione,
cercavo l’autobus che porta a te. Tutto era
dimenticato, ogni
sbornia, ogni offesa,
ogni singola caduta di stile
il mio stile, tutto quello che ho
adesso.
Adesso che ho visto cosa
significa accostarsi a un dio,
adesso che ho visitato ogni Ade e ho perso
tutte le Euridici della storia,
adesso
che esco dalla stazione solo
per sentire l’odore del giovane inverno.
Odore di giovane inverno
mentre cammino per Roma,
la Roma di Pasolini
che tu mi impedivi di leggere
per farti accarezzare. Mi
perdoni il tuo ricordo
se ancora lo scomodo
fra lacrime e versi.
Ma stasera ho visto i miei cugini di Roma
passeggiare per Napoli, li ho
fermati, ho chiesto
come state…hanno visto la morte,
e i bambini avevano un forte amore negli occhi.
Ti sto dimenticando, si dilegua
la tua voce, la tua lingua è quella
di mille altri, si
dissolvono le tue membra
nella città che sale, la tensione
delle tue cosce viene meno,
si sfaldano i tuoi
capelli di lana calda di
giovane inverno che
sanno di legna bruciata e storie d’infanzia.
Ti sto dimenticando, e così
farai tu di me.
Eppure vivo soltanto per
vederti passeggiare un giorno
tra le fontane e i gradini
per piazza di Spagna,
mentre ti ricordi di un verso
di Pavese, o delle sue ballerine,
e di me
quando te lo leggevo.
Il mio amore è nell’abbandono di certe strade
Il mio amore è nell’abbandono di certe strade
affollate, mentre tutti
fanno spese, al centro del mondo.
Il mio amore passeggia nel buio,
in una periferia industriale d’Italia,
mentre bambini lo guardano
passando sull’autostrada,
e padri guidano stanchi.
Il mio amore si nasconde lì,
anche se si finge lontano.
Il mio amore è in un ramo
che può servire contro i serpenti,
mamma ha detto
che ce ne sono in questa zona,
e a rivoltare castagne.
Lei è dove tarda a tramontare,
sui monti più faticosi,
tra i cervi e i lupi.
Lei è lontana dalla mia palude.
Il mio amore è nei miei cartoni
preferiti. È ovunque
vi sia traccia di malinconia,
dove qualcosa sta per non essere,
dove qualcuno si diverte come
una fata dei boschi, e ride
ride di un sorriso antico.
Il mio amore è dove si estinguono
mondi e cadono regni,
insieme a un indiano silenzioso corre la prateria. È in
una grotta
sotterranea, bianca di latte e
stelle, umida
piena di animali rintanati.
Io non sono questi posti,
mi contendono altri squallori.
Il mio amore lo esilio lì,
dove può respirare.
Mater lacrimarum
Tu per me ancora madre delle lacrime
che ti nutri di sempre rinnovato dolore
quando smetterò di profanare il cimitero
del nostro incontro
tu sarai dieci metri sotto la bruna terra.
Tu per me ancora madre dell’indecisione
che nella geometria della mia casa come una larva
ancora ti aggiri, con le tue
rosse fughe e i ritorni bluastri.
Come un volto di farfalla morente.
Tu per me ancora madre dell’indifferente
hai partorito tutti i gesti degli ultimi giorni.
I giorni che corrono nella polvere
i gesti che chiedono un padre amorevole.
Tutti i miei gesti che chiedono in strada
una presa che io non posso pensare.
Tu per me madre di tutti i sospiri
hai partorito tutta la mia immobilità.
Tu per me madre delle tenebre
si chiudono gli occhi e la mano si stende.
Scherzo à la Bukowski
Non entrate nella mia macchina come se niente fosse
la mattina.
Non scacciate l’aria
e tutto quel fumo prezioso. Ne ha viste di cose
quel fumo. Chiedete, interrogatelo
fatevi raccontare.
Avete mai incontrato un fumo con tante cose interessanti
da dire?
Non contorcete i sedili, non torturate lo stereo;
tutto risponde a una logica
tutto asseconda un volere.
La mia macchina ha un suo pudore, un suo intérieur…
c’è ancora un po’ di cervello
sul tappetino, un grammo di confessioni
vergognose tra i tergicristalli, c’è un’intera
fottuta vita di muschi e licheni nel posacenere. È un sottobosco, il posacenere.
Avvicinatevi alla mia macchina come a un tempio
un luogo di antiche memorie e
spiriti da non disturbare.
CI sono ancora granelli d’asfalto attaccati alle ruote
e ci sono ancora frammenti di notte su quell’asfalto
e ci sono ancora profumi di notte su quei frammenti.
Nella portiera di destra
c’è un disco dei Depeche Mode.
E quello potete anche infilarvelo
nello stereo, se vi va.
La Tv e una donna
Oggi
una piccola concorrente di quiz
le tue fattezze.
Il tuo sorriso largo di gengive,
la tua bocca nevosa bianca
di saliva pulita. Timida
e piena di disprezzo per chi
non sa. Violenta ancora
nel tuo piacermi.
Oggi
ho guardato a lungo la tv
ho risposto alle sue domande, ho
messo le mie labbra sulle sue
il mio suono sul suo. Mi sono
adagiato
nelle tue somiglianze.
Costruirò ovunque dei
simulacri, farò
intagli sulle tombe, come
nel tuo tamburo di latta. Col
fuoco
illuminerò la tua Capri. Berrò
la mia inutilità dai misteri
della terra. Che ormai
non mi interessano più.
Perso nel cerchio
delle mie risalite, farò religione
del tuo stare ferma. Della tua
nuova vita.
Incastrerò in tutti i miei versi
ogni tua singola lacrima.
Smetterò
di usare il futuro perché noi non ne
abbiamo. Abbiamo
un passato e un presente.
Dove sei? Hai già finito
la strada? Hai già capito,
come me, che non c’è
nient’altro? Che ci hanno
ingannato. Che la prateria era
un’aula di università, che
il deserto era una pozza d’acqua?
Che l’universo era il contorno
delle nostre mani…quando si
univano
e dondolavano. Tutto questo
non lo saprai mai.
E questo Natale passerà
senza i tuoi auguri. Senza
il pensiero
terrorizzante
d’inventarsi un altro regalo. Io
che avevo
già preparato il mio incenso
e la mia mirra.
Sono un cane che abbaia rauco
Sono un cane che abbaia rauco
a un antifurto, per non
svegliare i padroni.
TI grido il mio amore,
sottovoce, per non svegliarti
e vederti come sei adesso.
Magari
senza ironia, senza la tua
intelligenza
che ti rendeva per me più simile a un maschio.
(Lo so, non ho seguito i tuoi
ammonimenti sulla
misoginia, ma è che per me
sono due intelligenze
diverse, lo sai)…
Magari avrai smussato la tua mania
per le buone maniere a tavola, che ti
inalberava così snob e aristocratica, come
ti volevo io. E non serviva
citarti Lévi-Strauss
per fondartene la storicità. Erano
categorie universali.
Tutti i tuoi piccoli vezzi
d’alta borghesia, cosa darei per
stenderli su tutta questa modaiola
proletaria umiltà.
E il tuo amore per gli animali?
Se il tuo pasto non fosse ancora
senza sangue? I tuoi
vegetali a forma di carne
ancora li cerco tra i surgelati,
tra il freddo degli yogurt e la tua
purezza. Se non fossi
più così generosa, come
ti ricordo, ingenua fino al
parossismo. Tutti erano
innocenti mendicanti d’amicizia,
come te
non interessati alla carne.
Se la tua curiosità trovassi
tramutata in certezza, i tuoi saltelli in
passo fermo, le tue
domande in conoscenza? Il tuo
abbandono
in saldo abbraccio alla vita?
Sarà Roma ancora la mia Trieste,
tu la mia Lina?
Non vorrei svegliarti e leggere
nei tuoi occhi l’entusiasmo, la gioia
per un amico ritrovato.
Così il mio amore te lo sussurro,
mentre dormi,
e ti porti il vento
il mio grazie.
Al posto di una lettera
Mi manca il vostro ridere,
signorina.
A tutti noi manca il vostro ridere.
E forse voi ridereste
dell’impossibilità
di dire il vuoto. Ma
era proprio questo che volevo dire?
Io
e il mio voi antiquato,
io e il mio solito vuoto. Il salto
sulla linea di frazione.
Tu e i tuoi giorni che
saranno pieni di tirocini, carte
marmellata e
risate. Io qui
a prendere freddo tra le
coperte con
il compagno Majakovskij che
sa solo piangere, perso tra
la rivoluzione e le tette.
Sulle sigarette
il salto antico della linea
tra il filtro
e il tabacco.
Non esco più,
lontano dalle cose. Nei
versi sparse ritrovo le mie
membra.
Ve lo dicevo sempre
di uscire, fatevi degli amici
dicevo, che a stare soli
ci si abitua. E ora
dov’è il vostro consiglio? La vostra
preoccupazione?
Comunico con altre forze, ma
non so ben ridir del tesoro
che nella mente mia di lassù
discende.
Ho cose altre davanti
agli occhi, e altre parole
voi dovresti recarmi,
proprietaria
dei latifondi della mia mente.
Tutto ciò che è altro
ruba la tua fisionomia.
Signorina
voi lo sapete che,
immancabilmente, dall’amore
si passa all’ironia,
dalla malinconia
alla disperazione.
E voi lo sapete bene che
basta un pronome
per passare dalla sala da tè
al manicomio.
Ma non sapete che io passo col passo
degli affamati, che tocco tutto
e non prendo niente. Che amo
solo per sentito dire, per
fedeltà al copione. Ma
oggi il cinismo è per pochi
che si disadattano
a tratti.
E io volevo
l’esperienza. Volevo
poter dire a me stesso un giorno ho
vissuto, ho rotto
gli argini, aver qualcosa
da raccontare.
Ma a chi? Se non a voi
affascinata creatura dalle
cose che trasudano linfa e
vino, in cui
traspare la vita. Voi che
amavate il mio modo
di sprofondare, voi che
non vi vergognate dell’andare.
Tu creatura piena di musica.
Ma forse, come tutte le altre,
avete confuso
esperienza e sesso, mia cara,
sesso e cultura. Ma il cinismo
è per pochi
che si disadattano
a tratti.
Quindi la smetto e torno alla vostra
lode, donna gentile, donna
della primavera, donna
dell’inverno, donna
dell’estate, donna
del non so più cosa dire hai
strappato da me tutte le urgenze, tutte
le cose che volevo dalla vita te
le sei attaccate addosso, nascoste
dal cappotto, nella fuga…
Mi hai lasciato poeta senza
oggetti. E poi lo sai bene
qual è la tua sola stagione.
Anche quella,
guardati,
ce l’hai attaccata addosso.