Giancarlo Riccio - Poesie

Compagna di giorni splendenti

 

Nuvole formano una violenta cappa

immobile

si distende all’infinito.

Lontano e timido

uno squarcio di arance in fiamma.

Danzano nella campagna

i mostri della ragione

mentre mi allontano da te.

Dov’è la tua freschezza?

Dove i tuoi baci la tua

leggerezza?

Dove nascondi la tua rugiada?

Tu creatura di fuoco

stai morendo

tra i miei nevai.

Respiri a fatica.

Dov’è la tua freschezza,

rosa profonda

dolce perfezione?

Hai staccato pezzi di me a morsi

e ora me li stai rispedendo

da un paese lontano.

Mi credevo intero

ma ero pochi frammenti.

Il corpo è spaccato

sano lo spirito.

La mia mente è un corridoio

pieno di paesaggi,

alcuni soltanto sognati

immaginati.

Altri attraversati fino al disgusto.

Com’è caldo e luminoso quel posto

in quel quadro

è accogliente.

Quello è il mondo.

Ora l’ho attraversato, ora

sono qui a gelare.

E dove sarai tu, mia

luminosa condanna,

a soffrire quali venti,

a combattere quali acque

a cacciare quali animali

a sopravvivere quali attimi?

I sassi che mi formano

li hai presi e li hai

sciacquati

in cinque lunghi fiumi, lunghi

e intensi, come le tue mani

e i tuoi occhi.

Il tuo corpo, quello che fu mio

quello che mi fu dato nel deserto

ora è in esilio.

Guardati bene, non lo hai

se n’è andato lontano.

Quello che indossi ora

lo avrai comprato di certo in qualche discount

a poco prezzo. Usa e getta.

L’altro resta mio.

Mi sembra di non averlo mai sfiorato.

Il mio corpo si disintegra

facendo quello che lo spirito

non vuole fare, dimenticarti.

Maledetta sia la tua lingua di vipera.

Non si ama nei secoli dei secoli.

Maledetto il tuo seno di fuoco

le tue labbra rubate a Satana.

Non si ama nei secoli dei secoli.

Maledette le tue gambe piene di danza

i tuoi occhi fustigati dalla malinconia o

persi nel vuoto, lì dove non c’è dio

e non c’è buio.

Siano bruciati pubblicamente i tuoi libri, i tuoi

autori

che non posso leggere.

Siano bruciati i tuoi capelli

e i tuoi odori inceneriti.

Ognuno che ama sia costretto a guardare,

che avevo tutto e mi è stato tolto tutto.

Qualcuno ha steso la mano su noi due.

Quanti peccati nascosti lui ha potuto vedere.

Perché, mia dolce sposa?

Perché è dovuto finire?

Il latte non è forse ancora bianco?

E il pane che non mangiavi, per la dieta,

non è ancora pane?

Non è ancora al suo posto Roma

annosa, con il suo fiume?

Non scalda ancora le tue ossa

quella città e il sole?

Non chiama ancora il mio nome piangendo

ogni chiesa, ogni strada, il tuo cuore?

Il tuo cuore, non tu.

È l’abitudine che ci tiene insieme.

I nostri desideri

inscrivono passive sintesi di morte

sul devastante schermo del rapporto umano.

Potessimo restare

piccoli incontri, episodi isolati…

rami spezzati nella tempesta.

Abitudine, ti ho visto

galleggiare sul lago

mostro dalle sette teste.

Ci uccidono i tuoi

nomignoli. Amore mio piccola

pulcina mia, queste cose ci

uccidono, ci straziano.

Bisogna sempre essersi

estranei, io e tu e basta.

Non voglio sapere chi sei.

Aridi pronomi per teneri frammenti.

Habitus

i tuoi orpelli, putrido

demone, ci impastano la lingua.

Eterno leviatano

divoratore da cui nasce ogni vita,

in cui ogni principio si forma,

senza di te il caos.

Quante volte abbiamo prestato

i nostri corpi all’abitudine; con le tue

gambe mi ha tenuto stretto, con le mie

braccia ti ha sbattuto contro il muro.

È stata il nostro più intimo

amante, il più innocente.

Quando ci incontreremo

non ricorderemo i nostri nomi.

Saremo solo io e tu.

Saremo di nuovo caldi

e nudi, ci sentiremo

ancora natura senza saperlo.

E gli altri spariranno

dopo lunga tirannia.

Sarò di nuovo l’atlante dei tuoi pensieri,

la mappa delle tue risate.

Saremo ancora bambini

e crederemo che niente

dura per sempre, tranne questo.

Gli amplificatori del nostro amore

sono scoppiati

e ora il vento sfronda le palme,

porta via i resti del mattino.

Ora sento tutto più profondamente,

ma non ho nessuno a cui dirlo.

 


 

Facebook ci ha visti piangere

 

Quasi un anno ci ha visti piangere.

Le stagioni hanno riso, sono

esplose e ci hanno gettato in altri

inferni, con altre belve.

Non ho potuto ancora vederti.

I miei occhi non sono ancora

innocenti e le tue

guance non ancora straniere.

Ho perso tanti amici, che è

meglio il vento

che se li porta.

Sono una persona migliore

adesso, ho tanti

buoni propositi. Sto meglio

in salute, credo. Ti farebbe piacere

il mio nuovo stile di vita. Certo

ce ne sono ancora di sviste,

cadute, piccoli

dispetti della notte, innocenti

come gli occhi dei ragazzi.

E sto bene a respirare dentro di me

quel che ancora si muove

di adolescente.

Per esempio facebook, per me,

è ancora una speranza.

Ti muovi tra i campi desolati

vicino al mare

in un posto di mare quando non è più

vacanza. Quando le

interrogazioni

sono vicine, e la sveglia

e il freddo negli sbadigli.

Stai ferma su uno scoglio,

come un animale marino, per ore, che nonna

deve venirti a chiamare. Ti piace

troppo il mare e io di bagni con te ne ho fatti

troppo pochi.

Avevo freddo, che incosciente.

Potessi unire una volta ancora te e la sabbia.

Ma non ho rimpianti.

Sai chi si è arrabbiato molto con me?

Facebook. Non ha potuto

festeggiare i nostri sei anni di amicizia.

 


Sono tuo e della terra

 

Stasera, mia tenera morte,

stasera tu e la mia terra

mi tenete.

Ho amato più la tua assenza

che ogni singolo momento

del tuo corpo.

In tutte le strade del mondo andrò

ancora per annusare la tua assenza.

La troverò in un cimitero regale

dove riposano musicisti e psichiatri, in una

taverna di mezza Europa dove la carne

si serve tiepida, e i camerieri parlano

un po’ di italiano.

Ti troverò nella canicola di luglio

tra le borse del mare e il sudore degli autobus.

Vicina alla necessità del ritorno,

nel traffico. Sarò caldo,

ma la mia pelle la troverai fredda.

Tutte le femmine mi derubano per non pensare che mi hai lasciato solo.

Eppure quanto era necessario

che tu mi lasciassi, quanto

mi sono riconosciuto nel tuo atto.

Eri così giovane, tenera

allodola.

Stupenda parabola d’incenso

nella cupola delle mie preghiere

hai impregnato tutti i mosaici

del tuo essere una creatura dorata.

In questa città balneare

dove olio e sole sulla pelle fanno una cosa.

Ricordi lontani dalla mia terra

stavolta, ponti acrobati nella notte

soli siamo andati, solo

noi ad occhi spalancati, a raccogliere l’acqua

nei paesi della guerra, a cercare

la luna piazzata al centro dell’oceano.

La luna quando non si vede niente

che non sia luna.

Ora che ti perdi in ciò che non è vita

perché non è memoria, che ti perdi

tra le piante che ti tagliano le dita,

nelle albicocche mangiate calde

lavandoci il viso dentro.

Ora ti perdi tra i gelati in Sicilia leccati gratis

tra un milione di canne di bambù

di tante bellissime vacanze.

Ti confondi tra lidi e discoteche

piangente, tra le gambe, in una rissa. Stai

per essere travolta dalle zampe di un cavallo

in uno scontro tra cristiani e turchi.

Ora sei in sella, amazzone

come ti ho sognato spesso.

Stasera tu e un’altra terra

mi tenete.

Tu e la mia terra mi tenete

stasera, e tutte le corse

sono state necessarie, per ovviare

ai vostri tradimenti, ogni sorso

è stato una piccola vendetta.

Quanto era necessario…quanto

lo gridava, lo esigeva tutto il creato

e quanto lo cantavano gli uccelli la mattina (forse

era per questo che li odiavi). Dopo

di loro i martelli lo volevano, i trapani

il rumore delle cose che vivono e muoiono

il rumore delle cose che ti svegliavano.

Lo volevano i baci degli altri amanti, e in molti

si sono masturbati sulla morte del nostro amore.

Un amore che è stato immenso, questo sì

lo posso gridare, agli uccelli e

alle cose che vivono.

Stasera sono tuo e della terra.

 


Roma e una donna

 

I miei cugini di Roma

mi hanno visto passeggiare solo

per le tue strade,

quelli che ti furono simpatici.

Hanno visto la morte

dietro e avanti a me,

camminare tranquilla.

Hanno visto i platani e i cipressi fare a gara

con il mio vuoto immenso

si innalzavano verso il cielo

d’asfalto. In quel

cielo ti ho visto di notte dormire,

in un manto di lenzuola sudate.

I miei passi lenti

estetizzanti

segugi ai tuoi passi di dolci mesi

di una vita ricominciata altrove,

lontano dal tuo paese.

Mi studio di adeguarmi alla bellezza

di tutto questo, di quei

giardini freschi,

di quella rotatoria senza

macchine, di te.

Ho sempre desiderato essere bello come te,

non stonare mai fra te e un tramonto,

fra te e la parete di un museo,

fra te e un negozio di libri vecchi.

Uscivo dalla stazione,

cercavo l’autobus che porta a te. Tutto era

dimenticato, ogni

sbornia, ogni offesa,

ogni singola caduta di stile

il mio stile, tutto quello che ho

adesso.

Adesso che ho visto cosa

significa accostarsi a un dio,

adesso che ho visitato ogni Ade e ho perso

tutte le Euridici della storia,

adesso

che esco dalla stazione solo

per sentire l’odore del giovane inverno.

Odore di giovane inverno

mentre cammino per Roma,

la Roma di Pasolini

che tu mi impedivi di leggere

per farti accarezzare. Mi

perdoni il tuo ricordo

se ancora lo scomodo

fra lacrime e versi.

Ma stasera ho visto i miei cugini di Roma

passeggiare per Napoli, li ho

fermati, ho chiesto

come state…hanno visto la morte,

e i bambini avevano un forte amore negli occhi.

Ti sto dimenticando, si dilegua

la tua voce, la tua lingua è quella

di mille altri, si

dissolvono le tue membra

nella città che sale, la tensione

delle tue cosce viene meno,

si sfaldano i tuoi

capelli di lana calda di

giovane inverno che

sanno di legna bruciata e storie d’infanzia.

Ti sto dimenticando, e così

farai tu di me.

Eppure vivo soltanto per

vederti passeggiare un giorno

tra le fontane e i gradini

per piazza di Spagna,

mentre ti ricordi di un verso

di Pavese, o delle sue ballerine,

e di me

quando te lo leggevo.

 


 

Il mio amore è nell’abbandono di certe strade

 

Il mio amore è nell’abbandono di certe strade

affollate, mentre tutti

fanno spese, al centro del mondo.

Il mio amore passeggia nel buio,

in una periferia industriale d’Italia,

mentre bambini lo guardano

passando sull’autostrada,

e padri guidano stanchi.

Il mio amore si nasconde lì,

anche se si finge lontano.

Il mio amore è in un ramo

che può servire contro i serpenti,

mamma ha detto

che ce ne sono in questa zona,

e a rivoltare castagne.

Lei è dove tarda a tramontare,

sui monti più faticosi,

tra i cervi e i lupi.

Lei è lontana dalla mia palude.

Il mio amore è nei miei cartoni

preferiti. È ovunque

vi sia traccia di malinconia,

dove qualcosa sta per non essere,

dove qualcuno si diverte come

una fata dei boschi, e ride

ride di un sorriso antico.

Il mio amore è dove si estinguono

mondi e cadono regni,

insieme a un indiano silenzioso corre la prateria. È in

una grotta

sotterranea, bianca di latte e

stelle, umida

piena di animali rintanati.

Io non sono questi posti,

mi contendono altri squallori.

Il mio amore lo esilio lì,

dove può respirare.

 


Mater lacrimarum

 

Tu per me ancora madre delle lacrime

che ti nutri di sempre rinnovato dolore

quando smetterò di profanare il cimitero

del nostro incontro

tu sarai dieci metri sotto la bruna terra.

Tu per me ancora madre dell’indecisione

che nella geometria della mia casa come una larva

ancora ti aggiri, con le tue

rosse fughe e i ritorni bluastri.

Come un volto di farfalla morente.

Tu per me ancora madre dell’indifferente

hai partorito tutti i gesti degli ultimi giorni.

I giorni che corrono nella polvere

i gesti che chiedono un padre amorevole.

Tutti i miei gesti che chiedono in strada

una presa che io non posso pensare.

Tu per me madre di tutti i sospiri

hai partorito tutta la mia immobilità.

Tu per me madre delle tenebre

si chiudono gli occhi e la mano si stende.

 


Scherzo à la Bukowski

 

Non entrate nella mia macchina come se niente fosse

la mattina.

Non scacciate l’aria

e tutto quel fumo prezioso. Ne ha viste di cose

quel fumo. Chiedete, interrogatelo

fatevi raccontare.

Avete mai incontrato un fumo con tante cose interessanti

da dire?

Non contorcete i sedili, non torturate lo stereo;

tutto risponde a una logica

tutto asseconda un volere.

La mia macchina ha un suo pudore, un suo intérieur…

c’è ancora un po’ di cervello

sul tappetino, un grammo di confessioni

vergognose tra i tergicristalli, c’è un’intera

fottuta vita di muschi e licheni nel posacenere. È un sottobosco, il posacenere.

Avvicinatevi alla mia macchina come a un tempio

un luogo di antiche memorie e

spiriti da non disturbare.

CI sono ancora granelli d’asfalto attaccati alle ruote

e ci sono ancora frammenti di notte su quell’asfalto

e ci sono ancora profumi di notte su quei frammenti.

Nella portiera di destra

c’è un disco dei Depeche Mode.

E quello potete anche infilarvelo

nello stereo, se vi va.


 

La Tv e una donna

 

Oggi

una piccola concorrente di quiz

le tue fattezze.

Il tuo sorriso largo di gengive,

la tua bocca nevosa bianca

di saliva pulita. Timida

e piena di disprezzo per chi

non sa. Violenta ancora

nel tuo piacermi.

Oggi

ho guardato a lungo la tv

ho risposto alle sue domande, ho

messo le mie labbra sulle sue

il mio suono sul suo. Mi sono

adagiato

nelle tue somiglianze.

Costruirò ovunque dei

simulacri, farò

intagli sulle tombe, come

nel tuo tamburo di latta. Col

fuoco

illuminerò la tua Capri. Berrò

la mia inutilità dai misteri

della terra. Che ormai

non mi interessano più.

Perso nel cerchio

delle mie risalite, farò religione

del tuo stare ferma. Della tua

nuova vita.

Incastrerò in tutti i miei versi

ogni tua singola lacrima.

Smetterò

di usare il futuro perché noi non ne

abbiamo. Abbiamo

un passato e un presente.

Dove sei? Hai già finito

la strada? Hai già capito,

come me, che non c’è

nient’altro? Che ci hanno

ingannato. Che la prateria era

un’aula di università, che

il deserto era una pozza d’acqua?

Che l’universo era il contorno

delle nostre mani…quando si

univano

e dondolavano. Tutto questo

non lo saprai mai.

E questo Natale passerà

senza i tuoi auguri. Senza

il pensiero

terrorizzante

d’inventarsi un altro regalo. Io

che avevo

già preparato il mio incenso

e la mia mirra.


 

Sono un cane che abbaia rauco

 

Sono un cane che abbaia rauco

a un antifurto, per non

svegliare i padroni.

TI grido il mio amore,

sottovoce, per non svegliarti

e vederti come sei adesso.

Magari

senza ironia, senza la tua

intelligenza

che ti rendeva per me più simile a un maschio.

(Lo so, non ho seguito i tuoi

ammonimenti sulla

misoginia, ma è che per me

sono due intelligenze

diverse, lo sai)…

Magari avrai smussato la tua mania

per le buone maniere a tavola, che ti

inalberava così snob e aristocratica, come

ti volevo io. E non serviva

citarti Lévi-Strauss

per fondartene la storicità. Erano

categorie universali.

Tutti i tuoi piccoli vezzi

d’alta borghesia, cosa darei per

stenderli su tutta questa modaiola

proletaria umiltà.

E il tuo amore per gli animali?

Se il tuo pasto non fosse ancora

senza sangue? I tuoi

vegetali a forma di carne

ancora li cerco tra i surgelati,

tra il freddo degli yogurt e la tua

purezza. Se non fossi

più così generosa, come

ti ricordo, ingenua fino al

parossismo. Tutti erano

innocenti mendicanti d’amicizia,

come te

non interessati alla carne.

Se la tua curiosità trovassi

tramutata in certezza, i tuoi saltelli in

passo fermo, le tue

domande in conoscenza? Il tuo

abbandono

in saldo abbraccio alla vita?

Sarà Roma ancora la mia Trieste,

tu la mia Lina?

Non vorrei svegliarti e leggere

nei tuoi occhi l’entusiasmo, la gioia

per un amico ritrovato.

Così il mio amore te lo sussurro,

mentre dormi,

e ti porti il vento

il mio grazie.


 

Al posto di una lettera

 

Mi manca il vostro ridere,

signorina.

A tutti noi manca il vostro ridere.

E forse voi ridereste

dell’impossibilità

di dire il vuoto. Ma

era proprio questo che volevo dire?

Io

e il mio voi antiquato,

io e il mio solito vuoto. Il salto

sulla linea di frazione.

Tu e i tuoi giorni che

saranno pieni di tirocini, carte

marmellata e

risate. Io qui

a prendere freddo tra le

coperte con

il compagno Majakovskij che

sa solo piangere, perso tra

la rivoluzione e le tette.

Sulle sigarette

il salto antico della linea

tra il filtro

e il tabacco.

Non esco più,

lontano dalle cose. Nei

versi sparse ritrovo le mie

membra.

Ve lo dicevo sempre

di uscire, fatevi degli amici

dicevo, che a stare soli

ci si abitua. E ora

dov’è il vostro consiglio? La vostra

preoccupazione?

Comunico con altre forze, ma

non so ben ridir del tesoro

che nella mente mia di lassù

discende.

Ho cose altre davanti

agli occhi, e altre parole

voi dovresti recarmi,

proprietaria

dei latifondi della mia mente.

Tutto ciò che è altro

ruba la tua fisionomia.

Signorina

voi lo sapete che,

immancabilmente, dall’amore

si passa all’ironia,

dalla malinconia

alla disperazione.

E voi lo sapete bene che

basta un pronome

per passare dalla sala da tè

al manicomio.

Ma non sapete che io passo col passo

degli affamati, che tocco tutto

e non prendo niente. Che amo

solo per sentito dire, per

fedeltà al copione. Ma

oggi il cinismo è per pochi

che si disadattano

a tratti.

E io volevo

l’esperienza. Volevo

poter dire a me stesso un giorno ho

vissuto, ho rotto

gli argini, aver qualcosa

da raccontare.

Ma a chi? Se non a voi

affascinata creatura dalle

cose che trasudano linfa e

vino, in cui

traspare la vita. Voi che

amavate il mio modo

di sprofondare, voi che

non vi vergognate dell’andare.

Tu creatura piena di musica.

Ma forse, come tutte le altre,

avete confuso

esperienza e sesso, mia cara,

sesso e cultura. Ma il cinismo

è per pochi

che si disadattano

a tratti.

Quindi la smetto e torno alla vostra

lode, donna gentile, donna

della primavera, donna

dell’inverno, donna

dell’estate, donna

del non so più cosa dire hai

strappato da me tutte le urgenze, tutte

le cose che volevo dalla vita te

le sei attaccate addosso, nascoste

dal cappotto, nella fuga…

Mi hai lasciato poeta senza

oggetti. E poi lo sai bene

qual è la tua sola stagione.

Anche quella,

guardati,

ce l’hai attaccata addosso.