“Tu” era il nome che ti davo, amore,
era il tuo nome, così ti chiamavo,
senz’altre sillabe, senz’altro suono:
era il tuo nome, allora, e mi bastava
per riconoscerti, per definirti.
Quando verrà il momento, amore, cerca
il mio cuore aperto, vi troverai
tra tutte la più dolce delle morti:
la morte accanto a un essere che ti ama.
Sulle labbra l’impronta dei tuoi denti
nell’attimo in cui tutto si decide,
in cui vinta è già ogni resistenza.
Non le carezze audaci, non i baci
sanno scaldare il cuore e i sensi spenti
più di quel primo leggero sfiorare
di labbra ancora incerte e titubanti.
Il tremito nascondono che possa
il sogno o la sorpresa rivelare
d’un istante che le trovò infedeli.
Occhio, non leggere su quelle labbra,
e te, bocca, non tenti la domanda
se un altro osò confondervi il respiro.
Solo questo ci salva: non sapere.
Stai sulla soglia del mio sogno e vegli,
vestito di corazza scintillante,
oppure indossi un lungo manto bianco
e severe friniscono le ali.
Stai sulla soglia del mio sogno e vegli,
vegli e controlli l’entrare e l’uscire
e sulla soglia del mio sogno resti,
servo leale e senza alcun sospetto
che la tua lealtà è il mio tormento.
È dentro di sé che il poeta sente
che la parola si fa carne e vive,
è dal corpo e dal cuore che intesse
i suoi versi come tela di ragno
con cui spera di catturare il mondo.
Ma il mondo marcia cieco incontro al verso
e con passo pesante lo distrugge,
il poeta come il ragno sgambetta
in cerca di un riparo, dove aspetta
quieto il momento per ricominciare.
Reagisce l’ostrica alla malattia
con sferica e lucente perfezione:
noi la chiamiamo “perla” l’escrescenza,
preziosa ci appare e ce ne orniamo.
Così vorrei saper cristallizzare
le mie parole con la stessa chiara
bellezza formale attorno alla tua
persona: sei tu il granello di sabbia
che irrita il mio cuore solitario.
Afrodite torreggia sul suo trono
dipinto, Afrodite figlia di Zeus,
avanza nel cielo su un carro d’oro
che porta le spoglie ormai putrefatte
di una dea morta. Vana preghiera
innalzo al suo passaggio, vanamente
invoco il suo nome. Così chi ora
mi fugge non mi inseguirà, chi ora
doni rifiuta doni non farà.
Mi stenderò sotto un ciliegio in fiore
e tu ti stenderai sopra di me
come una coltre di petali smossi
dal vento leggero di primavera
e nasceranno dalle nostre carni
corolle squillanti di fiordalisi
assetati di luce nel meriggio
abbacinato e frinente di giugno.
In autunno sarai come le foglie
secche, d’inverno come neve e sotto
questo tuo abbraccio lieve dormirò
e sognerò che forse come tutti
tu non desideravi al mondo niente
altro che questo, d’essere trovato.
Quando hai smesso di tenermi per mano
è stato troppo presto, mamma, troppo
per i miei piccoli piedi bambini
che non sapevano andare da soli,
non ancora, e tuttavia sono andati
perché tu lo volevi, nell’assenza
confidando di trovare una prova
d’amore, un abbraccio nella distanza
come ora cerco nel silenzio d’altri.
Ti sottrasse alla vista dell’autunno
l’estate ingorda di prede e di sole,
ti derubò dei colori dorati
delle foglie che fanno da tappeto
scricchiolante sugli alti marciapiedi
del lungofiume e ti rubò le brezze
rinfrescanti, ma non potrà rubarci,
a noi che ancora la subiamo attoniti,
la fiamma luminosa del ricordo.
Un foulard al collo e un colpo di vento
e di colpo divento un altro me:
se la seta ondeggia come una vela
spiegata io sono Corto Maltese
che fende con sguardo avventuriero
i mari tempestosi del possibile.
Sono fiori colorati che il vento
invola a carezzarmi il volto come
ali lievi di fragili farfalle.