Giovanna Venditti - Poesie

“Tu” era il nome che ti davo, amore,

era il tuo nome, così ti chiamavo,

senz’altre sillabe, senz’altro suono:

era il tuo nome, allora, e mi bastava

per riconoscerti, per definirti.

Quando verrà il momento, amore, cerca

il mio cuore aperto, vi troverai

tra tutte la più dolce delle morti:

la morte accanto a un essere che ti ama.


Sulle labbra l’impronta dei tuoi denti

nell’attimo in cui tutto si decide,

in cui vinta è già ogni resistenza.

Non le carezze audaci, non i baci

sanno scaldare il cuore e i sensi spenti

più di quel primo leggero sfiorare

di labbra ancora incerte e titubanti.

Il tremito nascondono che possa

il sogno o la sorpresa rivelare

d’un istante che le trovò infedeli.

Occhio, non leggere su quelle labbra,

e te, bocca, non tenti la domanda

se un altro osò confondervi il respiro.

Solo questo ci salva: non sapere.


 

Stai sulla soglia del mio sogno e vegli,

vestito di corazza scintillante,

oppure indossi un lungo manto bianco

e severe friniscono le ali.

Stai sulla soglia del mio sogno e vegli,

vegli e controlli l’entrare e l’uscire

e sulla soglia del mio sogno resti,

servo leale e senza alcun sospetto

che la tua lealtà è il mio tormento.


 

È dentro di sé che il poeta sente

che la parola si fa carne e vive,

è dal corpo e dal cuore che intesse

i suoi versi come tela di ragno

con cui spera di catturare il mondo.

Ma il mondo marcia cieco incontro al verso

e con passo pesante lo distrugge,

il poeta come il ragno sgambetta

in cerca di un riparo, dove aspetta

quieto il momento per ricominciare.


 

Reagisce l’ostrica alla malattia

con sferica e lucente perfezione:

noi la chiamiamo “perla” l’escrescenza,

preziosa ci appare e ce ne orniamo.

Così vorrei saper cristallizzare

le mie parole con la stessa chiara

bellezza formale attorno alla tua

persona: sei tu il granello di sabbia

che irrita il mio cuore solitario.


 

Afrodite torreggia sul suo trono

dipinto, Afrodite figlia di Zeus,

avanza nel cielo su un carro d’oro

che porta le spoglie ormai putrefatte

di una dea morta. Vana preghiera

innalzo al suo passaggio, vanamente

invoco il suo nome. Così chi ora

mi fugge non mi inseguirà, chi ora

doni rifiuta doni non farà.


 

Mi stenderò sotto un ciliegio in fiore

e tu ti stenderai sopra di me

come una coltre di petali smossi

dal vento leggero di primavera

 

e nasceranno dalle nostre carni

corolle squillanti di fiordalisi

assetati di luce nel meriggio

abbacinato e frinente di giugno.

 

In autunno sarai come le foglie

secche, d’inverno come neve e sotto

questo tuo abbraccio lieve dormirò

 

e sognerò che forse come tutti

tu non desideravi al mondo niente

altro che questo, d’essere trovato.


 

Quando hai smesso di tenermi per mano

è stato troppo presto, mamma, troppo

per i miei piccoli piedi bambini

che non sapevano andare da soli,

non ancora, e tuttavia sono andati

perché tu lo volevi, nell’assenza

confidando di trovare una prova

d’amore, un abbraccio nella distanza

come ora cerco nel silenzio d’altri.


 

Ti sottrasse alla vista dell’autunno

l’estate ingorda di prede e di sole,

ti derubò dei colori dorati

delle foglie che fanno da tappeto

scricchiolante sugli alti marciapiedi

del lungofiume e ti rubò le brezze

rinfrescanti, ma non potrà rubarci,

a noi che ancora la subiamo attoniti,

la fiamma luminosa del ricordo.


 

Un foulard al collo e un colpo di vento

e di colpo divento un altro me:

se la seta ondeggia come una vela

spiegata io sono Corto Maltese

che fende con sguardo avventuriero

i mari tempestosi del possibile.

Sono fiori colorati che il vento

invola a carezzarmi il volto come

ali lievi di fragili farfalle.