Giovanni Mastroeni

Poesie


Linee. Traiettorie. Tratteggi. Intrecci. Incroci, strade e rotonde di storie si spostano, rispettando quasi tutti i semafori, su tutto il contrario di una strada. Affanni di omini stanchi che, chissà da quanto in moto, domandano anche un sol momento di ristoro; ma la tempesta soffia e io, la guardo di sbiego, mi rilassa ma, niente mi infastidisce quanto ciò che mi rilassa, quindi inclino la testa, rimanendo immobile; la pelle è fredda a ragione del sottile vento deciso, instancabile; il mio corpo non percepisce le gocce, se non sulle tibie, incrociate ad x come la bandiera dei pirati. Un rettangolo morbido ci ha ospitato notte e giorno, uno, forse anche due, e ogni volta che i miei occhi si chiudono lenti mentre qualcuno blatera luminoso in uno schermo, il volume viene dolcemente alleviato da una mano leggera che, subito dopo la carezza, ripone il suo arto alla posizione iniziale. E mi sveglio, e quando vado nuovamente a dormire sorrido, notando la necessità di alzare il volume dello schermo luminoso, abbassato misteriosamente la scorsa notte.
Come un vuoto in mezzo al petto che rimbomba senza sforzi, parole macchinose precipitano giù da palazzi ed osservo la scena, sperando non finisca presto o augurandomi di star guardando un ricordo.
Costruzioni, artefici, le immagini sotto la fronte. Provocano prurito ma non mi gratto, scompongo piuttosto, in piccoli pezzetti, ogni ondata emotiva che bagna la mia riva, accogliendone colori, consistenza e temperatura senza mai dar nulla per scontato. Nel cuore di una notte meno buia delle altre rifletto, ma le immagini sono come viste dal vetro di un’auto in mezzo alla pioggia e con i finestrini aperti, quindi attendo. Paziente.

 


 

Scivola dissenso
in acque salate,
quasi marmoree,
e occhi agitati:
questi,
indecisi e sicuri,
ondeggiano
come solo il mare
sa fare,
senza sapere come fermarsi.

Chi sono io per supporre anche un sol lamento? Per gridare in una folla di bisogni che anch’io faccio parte del problema e che voglio contribuire alle urla? Preferirei non poco, sorridere e nascondermi; con eleganza però. Ondeggiare, sicuro ma non deciso, scivolando tra i protestanti come ferro e olio; proporre vorrei, esternare tutta la volontà di vita vorrei, mentre sto immobile in un punto ben preciso che rubo attimi al libero scorrere.
Basta guardare più lontano di ieri per avere più probabilità di capire dove andare e, semmai, da dove passare.
Giace, rannicchiato in un letto troppo vecchio, un bocciolo di creazione che rigenera le energie. Dorme beato. L’inquietudine lavora, ma è travestita da tante attrazioni intellettive che travolgono e avvolgono, creano meravigliosi pigmenti mentali che spingono dal precipizio della curiosità senza lasciar spazio di far l’ultimo passo. Giochi, consapevolezza, sigarette cattive e caffè appena sveglio si tengono per mano canticchiando una canzone che, in un modo o nell’ altro, odiano tutti ma che, proprio per lo stesso motivo, tutti sanno a memoria e, partecipando al coro, ridono, piangono e fanno scommesse: scommesse di vita sotto chi scommesse la vita.
La bocca si scioglie, il gelato la recupera ma lo smog è più di ieri e dobbiamo andare dal dentista. Il rossetto dell’assistente brilla come uno scippo a teatro, io ho paura dei teatri, però non del dentista; infondo, dopo c’è sempre il gelato. E infatti va tutto bene, il gelato è buonissimo e nelle orecchie risuona, come un sogno, una di quelle canzoni che si sentono nelle sale di ebollizione cognitiva, con le luci colorate e gli occhi spenti. Colora il miscuglio delle mie immagini dando un ritmo alla scena; io in quel momento non lo so ancora, ma percepisco un che di positivo, affine, oserei. Palazzi popolari, anime perdute, urla disperate e gabbiani sui balconi pronunciano preghiere, rivolte solo a loro stessi. Dio li ha già traditi; in ginocchio per chiesa ma non per pregare. Nascosti negli angoli tra dove la luce si è persa e dove c’è puzza di piscio e birra vomitata. Li, proprio lì, il disordinato sociale che hai di fronte porterà sua figlia a mangiare un gelato: è lì per farle vedere il mondo, ma vedono solo il suo, di mondo, perché il resto non lo conosce. La bimba finirà il gelato, guarderà le mura, e canterà di voler passare oltre con una splendida voce che, senz’altro, favorirà il consenso. Le perle ai suoi orecchi giocano come in un altalena, mentre lei si guarda negli occhi riflessa nello specchio e sussurra frasi motivazionali che imparerà a memoria durante le crisi d’ansia nei bagni della scuola mentre fuma sigarette rosse cercando nelle ante delle finestre una risposta ai suoi perché. Senza mai affaticarsi troppo. Questa sera si vede bene: gli occhi sono fermi, è il momento giusto per correre in ascensore, salire sul primo mezzo di trasporto che chi legge si immaginerebbe e cominciare un nuovissimo percorso, verso orizzonti scaduti e inconsapevoli, colori chimici e sorrisi, con lenti scure e spinelli al sole, se c’è un po’ di venticello è meglio.
Sgambetti, di verbo e di atto.

 


 

Il dolore di una rabbia che mai ebbe il coraggio di nascere e divenir cosciente, urla disperate di un bambino bloccato nel sottotetto della casa che odia di più, che poi è sempre la sua. Ombre di spaventi mai provati che prendono mille colori e non permettono la chiarezza di espressione e la pulizia di linguaggio. Un intero ecosistema di superfici marce che si autoregola rimanendo immobile. Sensazioni incomprese si annidano e si attanagliano nella mia foresta di confusione, che è in realtà inevitabilmente ordinata non potendo essere altrimenti. Indici di incomprensione reciproca che si scontrano fino a farsi sbucciare le ginocchia, come tronchi che non reggono il peso, come anime che non trovano pace.
Improbabili accostamenti cromatici entrano in empatia ed è così davanti gli occhi di tutti il potere armonioso della contraddittorietà. Ambedue le direzioni in cui mi diressi, in quella splendida mattina confusa e piena di male, puzzavano di umido, di già calpestato.
La consapevolezza di un sentimento che non si sente, eppur sussiste; gridando, come chiunque sia affetto da disturbi di personalità.
Ho ancora una volta lasciato vincere, in quanto presumo che il bisogno di vittoria sia un superfluo mezzo di affermazione personale; sono quindi spesso io solo ad abbandonare il palcoscenico, spontaneamente, quasi non volessi permettere a questo stupido gioco di partecipare di me, quasi non riuscissi a riconoscere di star giocando al gioco che affermo detestare di più, che ripudio come offensivo e limitante; come non volessimo accettare la discrepanza tra la natura dei nostri atti e la nostra prospettiva di astrazione a questo riferita.
Come se soffrire per scrivere fosse l’unica condizione, l’unica prospettiva di ricompensa autoimposta da un modello di ragionamento ormai tanto solido quanto puerile.

‘Incatenati in vortici di ricompensa
abbeveriamo le ninfe
sudando e piagnucolando
che qualcuno spenga la musica’.

Così recitava la mia mente, in cima ad un palcoscenico naturalmente originato, mentre spettatori naturali quali pietre, animali, passanti e luoghi comuni borbottavano inferenze quantitative e rimanendo sempre nella posizione più superficiale del panorama, senza ascoltare le foglie, senza osservare i disturbi comportamentali della natura, senza ascoltare il lamento dell’ecosistema: tradito e sconfitto da un’ispirazione più grande che mai venne esplicitata.
Troverò un canale di comunicazione ancor prima che uno di sfogo effettivo e le mie urla risuoneranno ridondanti, in una caverna dimenticata, come il riverbero di passi che calpestano se stessi.