Dedica all’estate
(alle mie maestre elementari Claudia e Margherita)
Ho visto l’estate,
gialla come il girasole
allegra come una bambina
parla,
con le parole delle onde
sorride,
con le spighe del grano
quando credi che tutto bruci
sono solo dei raggi di sole
Il colore delle emozioni
Ci sono molti colori nel mondo,
ognuno dei quali esprime emozioni
Sapresti dirmi qual è il più bello tra tutti?
Non lo so,
ogni colore ha la sua emozione
forse il più bello è quello dell’amore
Tentativi
Te l’ho mai detto che
ogni volta che mi guardi
mi perdo nei tuoi occhi?
Te l’ho mai detto che
ogni volta che mi sorridi
mi sciolgo come neve al sole?
Te l’ho mai detto quanto ti amo?
Ascoltare
sento da lontano una voce cantare,
soave
sento il flauto di una bambina suonare,
angelico
sento le note di una chitarra vibrare
il vento trasporta emozioni
basta saper ascoltare
Momenti
Quando ci accorgiamo
che tutto sta per crollare
ci sono momenti
a cui dobbiamo tornare
momenti in cui dobbiamo trovare
Amore
fondamenta da cui dobbiamo costruire
il cuore
Anima al tramonto
vedere il sole tramontare mi fa tremare
scompiglia la mia anima,
tutto quanto dentro cambia.
Una lacrima mi solca il viso,
il cuore batte
più forte,
deciso.
Immagini del mare
Mare, onde,
azzurro brillante,
felicità, alghe,
ombra delle palme,
spiagge,
palloni colorati,
sgonfiati dal sole,
consumati dalle parole
di chi vuole giocare
Il pallone sfugge
dalle mani dei bambini
il mare lo trasporta leggero
ora sembra un puntino nero
si allontana invisibile
all’orizzonte del cielo
La bella addormentata vestita da sposa
L’ inverno è magia,
neve, follia.
Fiocchi di neve
si posano leggeri
sopra i monti, sui sentieri
Candido vestito indossa la sposa
che sopra il monte riposa.
Contraddizioni femminili
L’universo femminile è molto strano. Sarà, forse, per il fatto che noi donne siamo, in qualche modo, collegate ai cicli lunari? Sì, molte persone pensano che noi donne siamo per così dire lunatiche per colpa del ciclo. Spesso i comportamenti che mostriamo in determinate circostanze ci contraddicono. Giuseppe Verdi nel suo “Rigoletto” definiva la donna “mobile, qual piuma al vento”. Come se fossimo paragonate ad una piuma. Se butti una piuma al vento essa tende ad andare un po’ dove vuole. Di qua, di là … La coerenza della donna qualche volta è un po’ così.. come la piuma. Va un po’ da una parte ed un po’ dall’altra… Alle volte ci diamo addosso, causando noi stesse la nostra infelicità. In questo siamo un po’ masochiste, forse. Ci diciamo che siamo brutte, ma vogliamo sentirci dire che siamo belle, ci diciamo che abbiamo un brutto fisico, ma vogliamo che gli altri ci dicano che non è vero. Ci contraddiciamo per qualsiasi cosa. Ad esempio ci lamentiamo della linea senza, però fare nulla per migliorarci in qualche modo. Oppure, al contrario affermiamo che la dieta non la facciamo o meglio non abbiamo mai avuto bisogno di fare una dieta, perché abbiamo la fortuna di avere un metabolismo veloce. Sì… e poi andiamo a correre tutti i giorni con tanto di conta chilometri al braccio! Oppure ancora quando decidiamo che è arrivato il momento di andare dalla parrucchiera, perché vogliamo cambiare acconciatura e poi una volta tornate a casa ci pentiamo amaramente della scelta che abbiamo fatto e magari per giorni andiamo in giro con il cappello. Magari quel famoso cappello che fino a pochi giorni prima non volevamo vedere nemmeno in foto perché non ci piaceva. Diciamo di non essere interessate ai “mi piace” sui social e passiamo parte del nostro tempo ad aggiornare immagini di qua e di là. Un po’ di tempo fa ho avuto modo di parlare con una mia amica riguardo proprio l’ argomento social. Lei ha iniziato il discorso affermando che si sarebbe voluta togliere da tutti questi social, perché in fondo non le interessavano più di tanto. “Non ha senso.. cioè la gente perde veramente un sacco di tempo davanti ad uno schermo. Dimmi tu se ha senso, Giuly? No, basta! Mi sono veramente resa conto che non si può andare avanti così!! Non mi piacciono più queste cose!! Gli amici puoi sentirli lo stesso anche senza queste fesserie, no?” Passano due settimane e nel frattempo ha cambiato immagine del profilo due o tre volte da una parte, ha messo una cosa come dieci post dall’altra e per non parlare della quindicina di storie che ha pubblicato!
Giulia Bassi
IL VIAGGIO DELLA SPERANZA
Giulia Bassi
A chi non ha mai
perso la speranza
Ammar, Kamissoko, Ly, Dennaban,
Baba, Bah, Rasta, Foufana, Sidibé,
Frank, Sow, Felix, Solomon, Kaoussou
Qualche pagina di diario per non dimenticare un’ esperienza a dir poco fantastica.
Domenica 13 agosto 2017
Partenza per Reggio Calabria Lido
Sono un pochino preoccupata per questa partenza. Non so bene cosa aspettarmi. Chissà che cosa dovremo fare!? Non ho mai fatto una Route, tanto meno una Route di servizio e sinceramente non so nemmeno cosa voglia dire. Da quello che ho capito dai capi clan, dobbiamo fare servizio a qualcuno. E questi “qualcuno” dovrebbero essere gli immigrati. Ma cosa dovremo fare esattamente? Non sono l’ unica a farsi queste domande per fortuna! Le riunioni che abbiamo fatto da quando è stata decisa la Route fino ad ora si sono concentrate maggiormente su questo, cioè capire cosa e come farlo! Sembra che dovremo fare servizio al porto e questa cosa mi fa un po’ paura. Non so cosa potremmo trovare in quel contesto. Ne ho parlato anche con i miei genitori e non sono molto entusiasti di questa cosa. Sarei rimasta sorpresa del contrario a dire il vero! Mamma e papà sono stati sempre un pochino restii alle novità, soprattutto novità di questo tipo. Quando, qualche settimana fa ho fatto loro presente che stavamo affrontando il tema “Immigrazione” e che saremo dovuti partire per Reggio Calabria per scoprire questa realtà, la reazione non è stata proprio delle migliori. Mio papà a dire il vero non voleva nemmeno mandarmi, mia mamma, chiaramente un po’ gli dava corda. Immaginavo fossero, forse, un po’ spaventati, ma non so bene per quale ragione. Probabilmente per le stesse motivazioni per cui lo ero anche io. Più tardi, però, ho capito che il mio essere spaventata era solo colpa di tutto quello che sentivo da persone intorno a me, le notizie che sentivo al telegiornale, tutti i vari pregiudizi che mi ero fatta, senza sapere nulla.
- – -
Siamo appena arrivati in stazione a Modena, accompagnati dai genitori in macchina. Abbiamo tutti degli zaini pesantissimi! Per fortuna che non dobbiamo camminare, non ce la farei a fare tanti chilometri con uno zaino così. Osservo gli altri ragazzi e noto che nemmeno il loro zaino scherza. Noi ragazze del clan, prima di partire, abbiamo fatto un gruppo WhatsApp per preparare lo zaino. In questo modo ho scoperto che serviva la gavetta.. e io che pensavo fosse un’ esclusiva solo dei militari! Ci salutiamo con grandi sorrisi ed occhi pieni di voglia di scoprire. Il mio cuore batte un pochino più forte del solito, come quando si è emozionati e, a dire la verità, lo sono. Stare lontano da casa sette giorni con persone che si conoscono poco, praticamente dall’ altra parte dell’ Italia, senza ben sapere cosa si andrà a fare è un pochino strano. I miei amici credono che io sia impazzita da un momento all’altro. Effettivamente non è da me prendere decisioni del genere, ma ho tanta voglia di vivere nuove esperienze.
- – -
Siamo saliti sul treno diretto a Reggio Calabria. Siamo divisi nelle cuccette, perché viaggiamo di notte. Abbiamo sistemato i nostri zaini e le nostre cose e poi ci siamo messi tutti a chiacchierare in uno scompartimento, abbiamo giocato a giochi stupidi per passare il tempo, riso e scherzato. Le mie paure nel frattempo si sono affievolite e ho cercato di godermi al meglio il viaggio. A una certa ora, ormai stanchi, decidiamo di andare ognuno nei propri scompartimenti per riposarci e dormire un pochino. Le luci della stazione di Roma fanno capolino tra la tenda del finestrino, mi accosto per chiuderla e noto due ragazzi che si baciano tra le lacrime. Uno dei due dovrà partire e forse non si vedranno per molto tempo. Osservo per un pochino la scena fino a quando il fischio del treno, che sta per ripartire, non mi risveglia da questa specie di incantesimo. Accosto, finalmente, le tende, come quando si chiude il sipario del teatro e la sensazione che provo è proprio quella di quando hai appena visto un’ opera commovente e ne sei rimasto affascinato. Mi sdraio di nuovo, chiudo gli occhi e mi addormento così con ancora quell’immagine negli occhi e nel cuore.
Lunedì 14 agosto 2017
Mattino:
Finalmente siamo arrivati dopo ore di viaggio. Dalla stazione al posto in cui dobbiamo stare in questi giorni dobbiamo camminare circa dieci minuti. Arrivati davanti al cancello, saliamo le scale e troviamo un bel prato in cui piantare le nostre tende. In mezzo a questo prato, oltre agli alberi, troviamo un altare e due panchine una di fronte all’ altra. “Perfetto, questo sarà il posto dove cucineremo e mangeremo insieme!” afferma subito Mara, la capo clan. Cucinare sopra ad un altare non si è mai visto! Montiamo le tende e ci diamo una bella rinfrescata, dopo di che siamo pronti per capire cosa dovremmo fare.
Ci dicono che abbiamo l’ incontro con il medico Vincenzo -Enzo- Romeo (medico sbarchi Croce Rossa Italiana, responsabile dei 4 porti calabresi)
Scendiamo le scale ed entriamo in una stanza con delle sedie sistemate come fosse una sala riunioni ed un proiettore appoggiato su di un tavolino. Enzo è lì in piedi che ci aspetta. Subito si presenta, dice di essere un medico che si occupa degli sbarchi al porto di Reggio Calabria ed è il responsabile dei quattro porti calabresi. Enzo sostiene che l’Italia sia un bellissimo Paese. Però questo bellissimo Paese ha un grande problema che riguarda l’ organizzazione. Un’ organizzazione che talvolta risulta scarsa. Ci racconta che tutti gli immigrati partono per l’Italia con la speranza di trovare un futuro migliore. Quasi nessuno sa cosa li spetta: l’interminabile viaggio nel deserto, la Libia, il viaggio per mare su barconi spesso sovraccarichi e poi l’Italia.
Lo Stato italiano divide gli immigrati in tre categorie: immigrati politici, immigrati economici, immigrati sociali. Ma ha senso dividere gli immigrati in categorie? Non sono già catalogati solo per il fatto che vengono chiamati immigrati? Serve un’altra sotto categoria? A volte vengono trattati come cose e non come persone. Tutti hanno una sola cosa in comune, un solo obiettivo: la ricerca di un futuro, una vita che altrimenti non sarebbero riusciti a vivere. Enzo ci ha raccontato moltissime cose. Molti ragazzi arrivano nel nostro Paese stremati per il viaggio, con lesioni, malattie dovute al trattamento ricevuto durante il loro viaggio, in particolare in Libia. La malattia più comune degli immigrati è la scabbia. La scabbia è una malattia della pelle. È causata da un parassita molto piccolo e di solito non direttamente visibile, che si inocula sotto la pelle del soggetto colpito provocando un intenso prurito allergico. Questo porta il malato a grattarsi fino al sanguinamento e, nei casi più estremi, fino a scoprire il muscolo. Comuni sono anche le ustioni provocate dalla miscela di carburante ed acqua marina. Enzo ci ha raccontato di un ragazzo che, dopo essere stato gettato a terra, nella stiva, ha ingerito parte della miscela che gli ha corroso lo stomaco e l’intestino provocandogli numerosi rigetti di sangue.
Tutti i ragazzi arrivano senza scarpe, in modo tale che sulla barca ci stiano almeno altre 15 persone. Molti di loro scendono, toccano terra e svengono, per mancanza di cibo ed acqua, dato che passano tantissimo tempo senza ne bere né mangiare.
In Libia i profughi vengono catturati da degli sfruttatori, che con la scusa di fargli proseguire il viaggio, chiedono loro soldi, li sfruttano in ogni modo: li picchiano, li stuprano (sia donne che uomini), fanno chiamare la famiglia e durante la telefonata li torturano, in modo tale che dall’ altra parte la famiglia si attivi per fare avere al più presto il denaro.
Le storie che mi hanno colpito di più sono quelle di ragazzi come tanti, come me, con un sogno, un desiderio, partiti con la speranza di realizzarlo. Un ragazzo che ha poco meno dei miei anni ama le moto e sogna di diventare il meccanico della Ducati. Non ha abbastanza soldi per permettersi un viaggio abbastanza sicuro, per cui è costretto a stare nella stiva. Ha paura, si agita. Per tenerlo fermo gli legano le mani ed i piedi con delle fascette. Arrivato a terra ha tutti e quattro gli arti in cancrena. I medici sono così costretti ad amputare gli arti per salvargli la vita. Ora questo ragazzo è in centro protesi con la speranza di dare una nuova vita alle sue mani ed ai suoi piedi, ma soprattutto dare nuova vita al suo sogno.
“Bisogna costruire ponti, perché altrimenti noi continueremo a vivere nella paura e loro nell’ odio. Così è una vita di merda!”
Pomeriggio: incontro con l’ associazione “Libera”
Dopo pranzo, laviamo la nostra gavetta e ci mettiamo tutti sul prato. L’ idea iniziale era solo quella di rilassarci un pochino, ma poco dopo ci addormentiamo tutti.
Verso le quattro di pomeriggio ci avvertono che dobbiamo andare ad un incontro con Libera, un’ associazione che si occupa di sensibilizzazione e contrasto al fenomeno delle mafie. Questa associazione, ci dicono, si è costituita con l’intento di sollecitare la società civile nel contrasto alle mafie e nella promozione della legalità democratica e della giustizia.
Bruna, una volontaria, ci racconta la sua esperienza al porto.
“Un sorriso”, afferma “è ciò di cui loro hanno bisogno!”
Una donna viene chiamata a raccontarci la sua storia. Viene dal Senegal; è dovuta scappare dal suo paese per curare la figlia malata. La sua meta è l’ Europa. Arrivata, dopo molto tempo in Italia, decide di studiare, per avere una sua indipendenza, per questo si iscrive all’ Università. “L’istruzione”, dice, “è molto importante!” Manda i suoi figli a scuola. Adesso una delle figlie, ormai adulta, si è trasferita a Milano, studia alla Bocconi. E’ felice ora. Conclude il suo discorso con una bellissima frase: “Gli ostacoli non devono impedire il realizzarsi dei propri sogni !”
Viene chiamato ad intervenire un altro ragazzo. È timido ed insicuro, ma dopo qualche incoraggiamento decide di raccontare la sua storia, che non ha mai raccontato a nessuno prima d’ora. << Ciao, il mio nome è Kaoussou, ho quasi diciotto anni e vengo dal Senegal. Studiavo nella scuola del mio paese e nel tempo libero giocavo a calcio. Ho una famiglia molto numerosa: avevo quattro fratelli, due più grandi e due più piccoli. A casa mia non avevamo problemi economici, infatti tutti noi andavamo a scuola. Un giorno siamo stati costretti ad andare ad abitare con i parenti di mia madre, stavamo tutti insieme in una casa. Provo a spiegarvi, ma non so se capirete … le situazioni famigliari sono diverse: non si è mai liberi dalla propria famiglia d’origine. Noi dipendevamo dalla famiglia di mia madre, che aveva piena autorità su di noi. Per questo motivo diventò difficile la convivenza. I miei due fratelli più grandi furono uccisi proprio dai miei zii materni, avremmo voluto fare qualcosa, ma non potevamo. Mio padre non sopportava più questa situazione e una notte ci lasciò, scappò senza dire niente. Mi ritrovai solo con mia mamma e i miei due fratellini più piccoli in una casa piena di conflitti. Le preoccupazioni di mia madre crescevano di giorno in giorno. Iniziò a incitarmi a scappare e abbandonare la città per raggiungere mio zio nella capitale, “la sarai più sicuro” diceva. “È pazza” pensavo. Le dicevo che non avrei mai potuto abbandonarla, ora ero io il più grande della famiglia ed era mio compito proteggere lei e i miei fratelli. Col tempo, però, mi resi conto che mia madre aveva ragione: non potevo avere futuro ed essere libero in quel posto. Salutare lei e i miei fratelli fu la cosa più difficile. Ma sapevo che l’unica cosa da fare era partire. Avevo 16 anni. Mentre ero in viaggio per la capitale, sentii parlare dell’Europa e del futuro che avrebbe potuto offrirmi. Decisi che valeva la pena tentare. Arrivato nella capitale non avevo posto in cui andare, così passai giorni e notti in strada. Un signore, un giorno, mi vide e decise di accogliermi nella sua casa e offrirmi un lavoro. Mi salvò la vita. Lavorai per diversi mesi. Quando riuscii a permettermi il viaggio partii. Avevo sentito parlare del deserto, e del fatto che molti non riescono a sopravvivere. Su quei pick up la morte era quasi certa. Grazie ai soldi che avevo guadagnato riuscii a prendere una rotta più sicura. Arrivai finalmente in Libia. Riuscii a oltrepassare il confine senza documenti, ed è per questo che tutti passano da questo Paese. Chiunque può entrare e uscire quando e come vuole. Non esiste un governo. Dopo poco però mi catturarono, come tutti quelli che entrano in Libia. Iniziarono a torturami, per avere i pochi soldi che mi erano rimasti. Ci sono tante bande di libici che guadagnano in questo modo, infatti il secondo reddito del paese è dato dai traffici e da tutto questo. In realtà io non ero partito da solo, ero con un mio amico, che ha condiviso con me l’intero viaggio. Mentre mi stavano torturando lui provò a difendermi e per questo venne ucciso. Mi costrinsero a portare sulle mie spalle il suo corpo, e dopo gettarlo in un fosso… non volevo farlo … Penso a lui ogni notte prima di dormire, piango ripensando a quei momenti. E’ un pensiero che non riesco ad evitare. Lui è il mio unico rimpianto. Riuscii a scappare, ma la mia libertà non durò molto, venni arrestato e portato in prigione dove rimasi per sei mesi. Non mi davano da mangiare e da bere. Rischiai di morire. Mi salvò un signore, che mi offrì un lavoro in campagna. Però non mi pagava e rimandava sempre la data della mia partenza. Stavo per perdere le speranze quando un giorno mi disse di prepararmi velocemente che sarei partito a breve. Passai sei giorni e sei notti in una barca, eravamo circa cinquecento, eravamo molto stretti e non c’era posto per muoversi. Uno si sedeva per terra e l’altro sulle sue spalle. Non mangiavamo, e bevevamo così poco che se uno sopravviveva arrivava in Italia con problemi gravi di salute. Arrivai in Italia a 17 anni. Appena sbarcai chiamai mia mamma che mi credeva morto e al telefono non riusciva a credere che fossi io. Non ci sentivamo da più di un anno. Ora sono in una famiglia italiana, ringrazio Dio di essere in questa casa. Ora sono libero di potermi costruire un futuro proprio come sognavo.>>
Sera:
Dopo cena abbiamo fatto un po’ di chiacchiere. A dire il vero io non ho parlato molto, mi sono limitata ad ascoltare gli altri che raccontavano i campi estivi o le varie esperienze passate. Mi sono comunque divertita ascoltandoli ricordare e raccontare così allegramente le vissicitudini. Dopo un po’ di chiacchiere, però, la stanchezza si è fatta sentire e siamo andati a dormire dandoci la buonanotte tra sbadigli e risate.
Martedì 15 agosto 2017
Mattino: messa, giro per Reggio Calabria alla scoperta della storia
Oggi è ferragosto e stamattina siamo andati tutti a messa in uniforme. Dopo la messa i capi ci riuniscono e ci comunicano che staremo in giro per la città fino all’ora di pranzo, perché oggi è festa per tutti. Hanno preparato un gioco a squadre: l’ obiettivo di ogni squadra è quello di trovare un simbolo o un monumento tra quelli segnati su di una lista. Finito il gioco e decretato la squadra vincitrice, andiamo a visitare il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, il grande istituto museale nazionale permanente dedicato alla Magna Grecia. Questo museo conta ben 220 vetrine e si sviluppa su quattro livelli, che raccontano la storia del popolamento umano in Calabria dalla preistoria alla romanizzazione,secondo un criterio cronologico/tematico. Nel 1981, è stata allestita la sezione destinata ad accogliere le due statue scoperte nel 1972 nei fondali di Riace Marina, i famosi Bronzi, insieme alla scultura bronzea denominata Testa del Filosofo, recuperata nel mare dello Stretto di Messina, a Porticello, presso Villa San Giovanni, insieme alla cosiddetta Testa di Basilea.
Pomeriggio: deserto (punto della strada)
Oggi pomeriggio ci siamo presi del tempo per noi, ognuno ha avuto modo di riflettere partendo da se stesso, da ciò che viviamo tutti i giorni… personalmente ho cercato di fare un’analisi su me stessa, su quali sono i miei obiettivi, le mie paure ed i miei limiti. In gergo scout questi momenti in cui si riflette e si sta soli si chiama “deserto”. Oggi, in particolare, abbiamo fatto il “punto della strada”.
Passate circa due ore, i capi decidono di portarci in spiaggia. Non vedevo l’ora di fare un bel bagno in questo bellissimo mare calabrese. Tra bagni, meduse, scherzi e risate arriva l’ ora di tornare alle tende.
Sera: condivisione deserto con tutti.
Questa è stata una delle serate più forti, ma anche una delle più commuoventi e belle. Non credevo di riuscire a tirare fuori così tanto di me stessa, soprattutto davanti a persone che non conosco e che non mi conoscono. Non sono abituata a parlare davanti a tutte queste persone, anche se non è che fossimo in tanti. Come immaginavo mi sono impappinata nelle frasi e mi sono commossa mentre parlavo.. Parlare di me stessa, dei miei sentimenti, delle mie emozioni e dei miei limiti è sempre stato difficile per me, anche con persone che già conosco da tempo. Ho parlato delle mie paure, soprattutto la paura del giudizio degli altri, del fatto che non credo in me stessa, ma anche dei miei sogni e delle mie speranze.
Alla fine della condivisione mi dirigo verso la tenda per sistemare lo zaino, anche se, a dire il vero, non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, ma è un modo per distrarmi e non pensare alla figuraccia che ho fatto. Piano, piano si avvicina la Gio, che con voce gentile mi dice: “Giuly, posso abbracciarti?” “Certo, che puoi! Grazie!” Avevo proprio biosgno di un abbraccio. Mi viene di nuovo da piangere, non mi aspettavo questo gesto così spontaneo e fatto con il cuore. “Vuoi che andiamo un secondo in bagno, tanto devo fare pipì?” mi chiede. ”Va bene, così mi sciacquo la faccia”. Mentre siamo in bagno lei cerca di consolarmi: “Hai fatto davvero una cosa coraggiosissima, nessuno lo avrebbe fatto al tuo posto, forse nemmeno io. Insomma sai cosa significa entrare a diciotto anni negli scout?” Sì, effettivamente, è stata una decisione quasi assurda, ma dovevo provare. “Non si tratta certo di una squadra di calcio. Hai avuto coraggio, credimi. Fidati, nessuna delle persone che conosco lo avrebbe fatto! Penso che tu sia più forte di quello che credi”. Io non so se sia davvero forte come dice, ma dopo questa chiacchierata credo che abbia grandi potenzialità per diventare mia amica. Potrei iniziare a fidarmi di qualcuno. Dopo tutte queste emozioni ho bisogno di dormire, sono esausta. Mi addormento con la gioia nel cuore.
Mercoledì 16 agosto 2017
Mattino: incontro con Fabio (scout che si occupa degli sbarchi come volontario)
Ci troviamo nuovamente nella stanza in cui abbiamo incontrato Enzo il primo giorno. All’ inizio comincia con qualche domanda sull’ Africa. Nessuno sa rispondere. Siamo veramente ignoranti!
La sua presentazione è provocatoria e fa riflettere molto. Quali sono le principali cause che spingono a partire? I motivi per cui una persona decide di partire sono tanti, ad esempio: rischio politico; guerre e conflitti interni; libertà di stampa; denutrizione; malattie; persecuzioni religiose
Come era la situazione prima del 2010? Prima della morte di Gheddafi, che usava le partenze dei barconi dalla Libia come ricatto verso l’Europa, l’invasione che si temeva era quella dei paesi dell’ Est Europa. Questo ed altri motivi avevano portato al trattato di Dublino. I migranti sub sahariani, in passato, andavano in Libia per trovare lavoro. Dopo l’inizio della guerra civile sono costretti a proseguire il viaggio verso l’Europa.
Quali sono i mezzi di trasporto nel deserto? La durata del viaggio è inversamente proporzionale alla propria disponibilità economica Esistono tre diversi modi per attraversare il deserto. Se si hanno abbastanza soldi si può viaggiare a bordo di pick-up, ma anch’ essi risultano essere sovraccarichi, per cui si ha il rischio di cadere e di essere schiacciati, se, invece, non si è molto ricchi, ma comunque si hanno un po’ di soldi, si può affrontare il viaggio su dei cammelli; mentre, se si è molto poveri l’unica soluzione, stremante è quella di andare a piedi. Chi sta male, viaggia solo ed ha pochi soldi può essere abbandonato nel deserto. Il Sahara è pieno di cadaveri lungo le piste.
Quali sono, invece, i mezzi di trasporto in mare? Barcone o gommone? Il barcone è quasi sempre un vecchio peschereccio. Se non affonda viene recuperato dagli scafisti per essere riutilizzato. Il gommone è meno costoso rispetto al barcone, ma ha il difetto di essere molto fragile e se troppo carico si spezza. Per non fare ribaltare il gommone, gli scafisti, sistemano delle assi di legno sul fondo piantandole con dei chiodi molto lunghi, in modo tale che, con il peso delle persone, il gommone non si ribalti. Il problema di questa soluzione è che i chiodi, che vengono usati per piantare le assi, fuoriescono di qualche centimetro … sono veramente terrificanti i racconti dei volontari e le foto che ci hanno mostrato di questi ragazzi sbarcati con braccia, mani, piedi, schiena e fondoschiena pieni di buchi e ferite dovute a questi chiodi. Alcuni di questi ragazzi venivano trovati dai volontari praticamente “crocifissi”. Dai racconti di chi è arrivato in Italia sappiamo che: è facile morire perché i gommoni o i barconi troppo carichi si ribaltano. Gli scafisti hanno delle regole rigide ed inviolabili. Chi viola le regole degli scafisti (es. cercando di passare da sotto coperta al ponte della nave), viene picchiato oppure ucciso per essere d’esempio a tutti.
A bordo non sono permessi bagagli se non pagando una somma di denaro aggiuntiva, anche una semplice bottiglia d’acqua può venire a costare molti soldi. Chi possiede abbastanza soldi può decidere di acquistare un giubbotto di salvataggio, pagando una somma maggiore, ma quando sbarcano in Italia ci sono i volontari che, la maggior parte delle volte, togliendoglieli si rendono conto che, in realtà, questi salvagente sono fatti di materiale simile alla gomma piuma, per cui si impregnano di acqua e fanno affondare le persone. Molti genitori decidono di prendere il salvagente solo per i loro figli, perché costano tanto, per cui non se li possono permettere anche per loro, credendo che almeno i figli si possano salvare, se si dovesse ribaltare la barca. In realtà non è così: chi ha il giubbotto è il primo a morire. Una mamma, per pagare il giubbotto di salvataggio ai sui figli, si era addirittura prostituita, ma quando la barca è affondata ha visto i sui figli morire sotto i suoi occhi, mentre lei, che non aveva nulla, si è salvata. Non ho parole, davvero.
Durante l’ incontro ci ha proposto due giochi particolari. Il primo gioco ci voleva fare rendere conto di quanto fosse estesa l’ Africa. Erano state preparate due cartine dell’ Africa vuote disegnate su due cartelloni colorati e tutti gli stati europei oltre che gli Stati Uniti e la Cina sono stati ritagliati. Siamo stati divisi in due squadre. Lo scopo del gioco era quello di riuscire ad inserire sulle cartine dell’Africa gli stati o i paesi europei. Ci siamo resi conto, in questo modo, che l’Africa ha un’estensione molto notevole. Al suo interno può contenere tutta l’Europa, ed, addirittura, gli Stati Uniti e la Cina! E’ davvero incredibile! Il secondo gioco riguardava la “comunicazione tra culture diverse”. Siamo stati nuovamente divisi in gruppi. Ciascun gruppo aveva istruzioni differenti: uno era un gruppo di volontari pronto ad aiutare chiunque avesse bisogno, mentre l’altro era un gruppo di persone che veniva da un paese straniero, non parlava, ma si faceva capire a gesti. Il primo gruppo non riusciva a capire ciò che voleva comunicare il secondo e viceversa. Non è detto che tutti abbiano bisogno di aiuto.
“Se siete venuti qui con l’ idea di aiutarli vi siete sbagliati. Loro non hanno bisogno di voi.”
…
“E’ più probabile che alla fine di questa esperienza sarete voi ad avere imparato qualcosa da loro piuttosto che il contrario.”
Questa frase in quel momento non l’ avevo capita, ma più avanti mi sarebbe ritornata in mente.
L’ incontro con Fabio si conclude con una slide, dalla quale ho preso queste frasi che mi hanno davvero colpito.
A chi domanda: “Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in mare?” La risposta è: “Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu cosa sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?
A chi domanda: “Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri!” La risposta è: “Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta.”
- – -
Pomeriggio: primo incontro con i ragazzi (Piazza mercato)
Calcio, giochi, canto, ballo, bonghi (Baba), chitarra
Oggi pomeriggio incontriamo i ragazzi per la prima volta. Chissà cosa penseranno di noi!? Dopo le parole di Fabio mi sento ancora più in ansia. “Se siete venuti qui con l’ idea di aiutarli vi siete sbagliati. Loro non hanno bisogno di voi.” Forse ansia non è la parola giusta, ma in questo momento non mi viene in mente nessuna parola appropriata allo stato d’animo che sento.
In circa dieci minuti a piedi arriviamo nel posto in cui stanno loro. Mentre camminiamo pensiamo insieme a cosa fare quando li vedremo, a come comportarci, a cosa dire. Fabio ci ha fatto qualche raccomandazione: “Non date loro il numero di telefono, vi consiglio quasi di eliminare momentaneamente le applicazione dal cellulare ad esempio WhatsApp, Instagram e Facebook. Potrebbero diventare un pochino pesanti magari. Cercate di non fare domande dirette sulla loro famiglia … nel caso saranno loro a parlarne. State attenti alle domande dirette, in particolare ad esempio sul viaggio o sulla Libia: a loro non piace parlarne.” Ti svelo già da qui, caro diario, che alcune di queste raccomandazioni non le rispetterò così come mi è stato detto.
Arrivati dai ragazzi non sappiamo ancora come comportarci. “Beh almeno non presentiamoci tutti in fila come fossimo delle guardie”, dice qualcuno. No, direi che di guardie ne abbiamo già viste abbastanza! Sorridiamo e salutiamo con un caloroso “ciao” i ragazzi presenti. Anche loro salutano, ma pochissimi sorridono, anzi forse nessuno. Alcuni di loro ci guardano seri, ci scrutano come se non capissero le nostre intenzioni. Dopo pochi secondi tornano a fare quello che stavano facendo prima che arrivassimo noi, come se la nostra presenza non li avesse minimamente disturbati. Mi sento un pochino in imbarazzo e dagli sguardi degli altri ragazzi intuisco che anche loro si sentono turbati. Dopo qualche attimo di esitazione capiamo che dobbiamo essere noi a fare il primo passo: loro non lo farebbero mai. “Ragazzi, non stiamo tutti uniti, in gruppo. Sembriamo le belle statuine. Dai facciamo qualcosa, socializziamo.” Dopo qualche minuto ci troviamo ad osservare i ragazzi che giocano a dama. Sisi proprio a dama, certo in un modo un pochino diverso da come siamo abituati noi, ma comunque si tratta di questo gioco. Altri ragazzi, invece guardano una partita di calcio in televisione. E come tifano! Qualcuno è riuscito ad avere il primo approccio con loro. Ci iniziamo, quindi a presentare a ruota e scopriamo che, in fondo sono ragazzi simpatici. Passata circa un’ ora, ormai, decidiamo di andare a fare un giro e loro propongono di andare in piazza dove al mattino fanno il mercato. Non tutti decidono di seguirci, però. Giochiamo a calcio, a frisbee, balliamo, suoniamo i bonghi, qualcuno prova a suonare la chitarra e facciamo anche un po’ di conversazione, ma soprattutto tante foto. “Vogliamo ricordare voi.” Dice Bah con un sorriso smagliante stampato sul viso. Arrivata l’ ora di tornare a “casa” ci diamo appuntamento per il giorno successivo. E credimi, caro diario, io non vedo l’ ora che arrivi domani. Non avrei mai pensato di dire o di pensare una cosa del genere qualche giorno fa, ma sto iniziando a capire che le cose stanno cambiando, il mio pensiero sta cambiando.
Sera:
Dopo questa splendida giornata decidiamo di andare a letto subito, cioè all’ una di notte praticamente! Avevamo un sacco di cose da dirci, da raccontarci e abbiamo perso il senso del tempo. Finalmente, però andiamo tutti a dormire. Sono felice di questa giornata, non so bene per quale ragione a dire il vero, ma leggo negli occhi degli altri che provano le stesse cose. Piano, piano mi addormento, la stanchezza ha preso il sopravvento.
Giovedì 17 agosto 2017
Mattino: visita al cimitero dei migranti
Fabio ci accompagna ad Arno, una piccola frazione collinare della città. Qui è nato “Il cimitero dei migranti”. Per raggiungere il posto prendiamo l’ autobus. Non so cosa aspettarmi. Provo ad immaginare cosa potremmo trovare lì e la risposta mi viene quasi naturale. Quello che si immagina, spesso, però non è mai come la realtà. Immersa nei miei pensieri, il tempo vola e siamo arrivati a destinazione: dobbiamo scendere. Alle porte del cimitero, fuori dalla cancellata ci accoglie una scritta:
“Il dolore non ha colore, non ha religione, non ha geografia. Il dolore è umano, è proprio dell’uomo. A Reggio Calabria lo viviamo e lo affrontiamo restando umani. Abbiamo dato degna sepoltura alle 45 vittime che il mare ci ha tristemente consegnato. Da oggi per la nostra città ogni 3 giugno sarà sempre la giornata della Memoria per le vittime delle Migrazioni. Per non dimenticare e, soprattutto, per educare le nuove generazioni alla solidarietà, all’inclusione, all’integrazione”. Queste sono le parole che il sindaco della città ha espresso durante la commemorazione delle vittime del mare.
Entriamo nel cimitero. Fabio ci spiega che è stata l’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Giuseppe Falcomatà, a mettere a disposizione l’area per consentire una degna sepoltura alle vittime che il mare consegna. Nel piccolo cimitero, oltre alle salme del posto, ci sono 45 africani (in maggioranza etiopi e nigeriani). L’obiettivo è di dare dignità a quelle persone. Le uniche figure che stanno dietro a questo posto sono gli scout che, in qualche Route di servizio, come noi, cercano di rendersi utili in qualche modo, ad esempio, semplicemente strappando qualche erbaccia che spunta dai mucchi di terra. Quei mucchi di terra rappresentano storie, tutte diverse. Storie di persone che sognavano l’ Europa e che invece hanno trovato la loro morte in mare. Fabio ci invita a fare un giro in mezzo a questi mucchi di terra, prestando un’ attenzione particolare alla data di nascita e di morte. Sono tutti giovani, troppo giovani. Giro per un po’, poi mi fermo. Mi viene da piangere. No, sto già piangendo. Davanti a me la tomba di una ragazza nata nel 1999. Ha la mia età. Alzo lo sguardo e qualcuno sta già strappando qualche erbaccia dai mucchietti di terra. Decido di farlo anche io, proprio lì. Poco dopo mi alzo e continuo il mio giro. Leggo l’ età di altri. Tre tombe vicine: una madre ed i suoi due figli di pochi mesi. Sono sconvolta. Mi allontano da li, la commozione è troppo forte. Sento che ho bisogno di respirare.
“Non piangete per loro, pensate a cosa potete fare per gli altri”
E’ ora di tornare indietro. Durante tutto il viaggio di ritorno nessuno di noi parla. Io provo a guardare in faccia qualcuno. Pessima decisione. Alcuni hanno gli occhi lucidi, altri hanno pianto. Mi viene da piangere di nuovo. Questa volta mi trattengo, almeno ci provo, ma già mi bruciano gli occhi e mi si appanna la vista. Il nodo in gola, non riesco a mandarlo giù. Provo a resistere, giro il volto verso il finestrino e chiudo gli occhi. Così con il mento sulla mano e la faccia nascosta dagli occhi degli altri le lacrime non si vedono.
Pomeriggio: secondo incontro con i ragazzi
Oggi abbiamo deciso di portare i ragazzi a fare un giro sul lungo mare. Ho avuto modo di conoscere meglio un ragazzo. Mentre camminiamo mi si avvicina questo ragazzo. Inizialmente non parla, si limita ad osservarmi e a camminare.
Lui si chiama Frank, ha diciassette anni, o meglio dice di averne diciassette. Viene dal Mali. Per arrivare in Italia ha dovuto affrontare un lungo viaggio passando per molti Stati africani compresa la Libia: un posto che non piace a nessuno. Frank afferma che la Libia è un bruttissimo Paese: “Posto no bello!” Dalla sua reazione intuisco che parlarne suscita in lui brutti ricordi. Si sfrega le mani e si gratta la testa. Mi dice che in Libia ha lavorato per pagarsi il viaggio in barca per poi arrivare in Italia, precisamente a Reggio Calabria.
(Pausa)
Chiedo del viaggio in barca. Mi risponde che è stato un viaggio lungo, lunghissimo … erano tantissimi su un’imbarcazione troppo piccola. Ha visto morire sotto i suoi occhi un bambino piccolo ed una donna incinta, entrambi sfiniti per un viaggio troppo lungo e faticoso. Lui non ha potuto fare nulla. Mi guarda e sorride. “ Se io morivo fa niente. Morire prima, dopo.. non cambiava. Prima non sono morto.” Mi sorride di nuovo. Ricambio il sorriso. “Sono venuto qui, in Italia, per sopravvivere!” Un attimo di pausa. Un attimo che a me sembra un’eternità. Lui guarda me, poi davanti a se: i suoi amici sono lì che giocano a calcio, altri ballano, altri chiacchierano. Non so che cosa dire e nemmeno che cosa fare. Mi viene solo voglia di abbracciarlo, ma ho paura di come possa reagire. Decido che è arrivato il momento di cambiare discorso. Non voglio metterlo troppo a disagio, suscitando in lui terribili ricordi: è un ragazzo troppo dolce. Nessuno meriterebbe una tale sofferenza. Ho il magone. Sto per piangere, ma non posso farlo. Mi devo trattenere. Non posso piangere davanti a lui, sarebbe come rendersi vittima di un dolore che in realtà non mi appartiene, un dolore che non posso capire, un dolore di cui non sono all’ altezza. Mando giù quel nodo che ho in gola. Mi concentro. Faccio un profondo respiro. “Hai fratelli?” chiedo. Non mi risponde. Forse questa domanda non dovevo farla. Provo a richiederlo, forse non ha sentito. “Hai dei fratelli o delle sorelle?” Sorride nuovamente. “Io ho una sorella e tu?” “Sì, ho fratelli.” Risponde. “Sono in Africa? “Sì, loro sono in Africa”
(Un’ altra pausa)
“Tua sorella più grande o più piccola?” Chiede. “Più piccola.” Rispondo.
“Ti piace il mare?” chiedo “No, non mi piace.” Risponde “Perché?” “Non mi piace. Non faccio bagno in mare. Non metto piedi in mare. Mi fa paura! Ho visto i miei amici morire annegati!”
Poco dopo anche Fabio ci raggiunge “Ciao, come state?” ci chiede “Bene!” rispondiamo , all’ unisono io e lui. “ti ha detto quale lavoro gli piacerebbe fare?” chiede Fabio rivolgendosi a me. “No, che lavoro vorresti fare Frank?” chiedo io. “ Si vergogna a dirlo, crede di essere cattivo. Ma secondo te si è cattivi se si vuole fare i muratori?” “Ma assolutamente no! Trovo sia un bel mestiere.”, affermo. Dopo di che Fabio si allontana ed io mi rivolgo direttamente a Frank: “Quindi vorresti fare il muratore!?” Mi rivolge un sorriso bellissimo e risponde: “Sì voglio costruire la casa alle persone che vogliono una bella casa, così loro sono felici. Prima di venire qui, in Italia, ho fatto il muratore per pagare il viaggio.” Non credo alle mie orecchie. Un ragazzo che si crede cattivo perché vuole fare i muratore e lo vuole fare per costruire la casa a qualcuno per renderlo felice. Questa cosa non si è mai sentita da nessuna parte. E poi loro vengono a rubare il mestiere a noi? No, siamo noi che non capiamo proprio un bel niente.
Sera:
Non credo riuscirò a dormire stanotte, anche se sono stanca la mia testa non si rassegna a lasciarmi riposare. Ho bisogno di andare in bagno, sento che mi sta venendo da piangere e non voglio farlo davanti alla mia capo clan. Entro in bagno, mi appoggio alla porta ed inizio a piangere come una bambina che ha appena perso il suo gioco preferito. Ma io non ho perso un gioco, no io ho perso una paura che non credevo di avere, cioè la paura di persone come Frank e mi vergogno tantissimo per avere pensato, in un passato non troppo lontano, che gente come loro possa essere cattiva. Loro non sono cattivi, siamo noi che siamo stronzi!
Torno finalmente in tenda, mi bruciano gli occhi per avere pianto così tanto. Anche questa è stata una giornata piena di emozioni. Sento che le palpebre si fanno ormai pesanti dal sonno, gli occhi mi si chiudono ed io mi lascio prendere da questo sonno ormai pesante.
Venerdì 18 agosto 2017
Mattino: help center
Questa mattina siamo stati in un Help Center, un centro creato per le persone in condizione di grave emarginazione sociale, senza fissa dimora e con difficoltà economiche, sanitarie o relazionali.
Pomeriggio: ragazzi, mare (ballo in piazza, canto, gioco, video scambio) figuraccia con kami (telefono)
Anche oggi siamo tornati sul lungomare.
Abbiamo fatto dei video in cui ci scambiavamo l’ identità: loro facevano finta di essere noi e noi loro. E’ stato molto divertente!
Abbiamo ballato e cantato.. ho provato a suonare i bonghi e direi che non siano proprio il mio forte!
Questa giornata, a dire il vero, però, non è stata proprio semplice. Ho fatto una figuraccia con Kami, il ragazzo con cui il primo giorno ho giocato a frisbee. È stato tutto un grosso equivoco, in realtà, ma lui c’ è rimasto veramente male. E cercare di spiegare tutto quanto in francese non è stato molto facile.
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“Allora hai il telefono?!!” Mi guarda con una faccia delusa. Oddio, no! Cosa ho combinato!! Sapevo che prima o poi qualche figuraccia l’avrei fatta, ma proprio oggi e soprattutto proprio con lui! Avevo detto di non avere il telefono, di averlo lasciato a casa.. ma non intendevo casa mia, ma il posto in cui avevamo messo le tende! Per fortuna che arriva la Gio che mi salva. “Gio, ma lei è stata bugiarda con me!” dice Kami. Lei, chiaramente sconcertata si ferma e cerca di capire. Per fortuna intuisce il terribile equivoco e spiega a Kami la situazione. Alla fine abbiamo fatto pace, siamo diventati, inaspettatamente amici.
Sera: (giochi con il clan napoletano, pizza)
Oggi è arrivato un altro clan che ha deciso di fare la nostra stessa esperienza di servizio. Loro vengono da Napoli ed hanno un fazzolettone di colore diverso dal nostro. A proposito, caro diario, mi sono dimenticata di dirti una cosa importante, io non ho il fazzolettone, perché non sono ufficialmente una scout. Non ho fatto la promessa, almeno non ancora, ma credimi che dopo questa esperienza anche io la farò.
Per cena i capi hanno deciso di prenderci le pizze e dopo avere mangiato abbiamo fatto dei giochi tutti insieme.
Anche stasera facciamo tardi per andare a letto ed io sono sempre più stanca, ma ogni notte non riesco ad addormentarmi se non ripenso alla giornata appena trascorsa. È stata una giornata intensa anche questa, ma sono sempre più felice della mia scelta.
Sabato 19 agosto
Mattino: verifica (cosa fare a casa?)
Questa mattina i capi hanno deciso di farci fare una “verifica”. No, non quelle che si fanno a scuola! La domanda principale era: “cosa fare a casa? Cosa vi portate a casa dopo questa esperienza?” Sono emerse delle cose bellissime da noi, dai nostri pensieri. Personalmente mi porto a casa un bagaglio di cose che non so definire: emozioni varie e contrastanti come ad esempio la felicità, ma allo stesso tempo la tristezza, la gioia ed il dolore, la rabbia, la meraviglia, lo stupore e tanti, tantissimi altri sentimenti difficili da spiegare. Cosa fare a casa? Vorrei fare conoscere a chi non sa, o meglio, a chi fa finta di non sapere tutto ciò che ho scoperto io. Perché al di là del nostro piccolo nido, c’ è un mondo che pochi conoscono e molti, moltissimi ignorano.
Pomeriggio (ragazzi, gelato, piazza mercato, saluti, messa)
L’ultimo giorno è arrivato, purtroppo.
Siamo andati a prendere il gelato tutti insieme in una gelateria che ci hanno detto essere la migliore della città. Poi siamo andati in piazza del mercato, ma oggi non è stato come gli altri giorni. Con noi era presente anche il clan di Napoli che rimarrà con loro, per una settimana, dopo che noi ce ne saremo andati. Devo ammettere che un pochino sono gelosa di questa situazione e anche i miei amici sentono questa cosa.
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“Tornerai a trovarci qui?” mi chiede Kami. “Mi piacerebbe molto, magari un giorno ci rivedremo” rispondo con la voce che mi trema. Oh mio Dio non vorrei piangere davanti a lui. Si avvicina e spontaneamente mi abbraccia. Non mi aspettavo che lo facesse.
Il momento dei saluti è stato davvero triste. Poche parole, ma tante lacrime e tanti sorrisi carichi di emozione e la speranza, un giorno, di rivederci. Mentre torniamo a “casa” tutti piangiamo. Dopo pochi passi ci voltiamo e ci accorgiamo che tutti i ragazzi ci stanno ancora guardando. Indietreggiamo e li salutiamo con la mano fino a quando non si vedono che dei puntini in lontananza.
Mi sono davvero affezionata a loro, alle loro storie, ai loro occhi, al loro sorriso e alla loro spontaneità nei modi di fare e nel relazionarsi con gli altri. Ho capito che sono esattamente come noi, con sogni, speranze, emozioni.. ho capito che sono persone! Sono rimasti e rimarranno sempre nel mio cuore.
Sera: pizza in Piazza della stazione
Arriviamo in stazione molto prima dell’arrivo del treno. Sorpersona! I capi hanno preso le pizze per tutti. Mangiamo seduti per terra vicino alle scale del sottopassaggio che porta ai binari. Osservo gli altri mentre mangiamo e percepisco la tristezza in ognuno di loro. Quella stessa tristezza che provi quando sai che non rivedrai più un amico a cui ti sei affezionato.
Notte: viaggio di ritorno
Saliti sul treno, andiamo nelle carrozze assegnate. Chiacchieriamo un pochino come all’ andata, ma stavolta siamo così stanchi che andiamo a dormire quasi subito. Mi addormento praticamente appena tocco il cuscino e sogno il mare.
Domenica 20 agosto 2017
Arriviamo a Modena nel pomeriggio. I ragazzi decidono di trovarsi la sera per la cena conclusiva della Route. Io, Purtroppo devo rinunciare. Mi aspetta un altro viaggio in treno di ben quattro ore per raggiungere i miei genitori e mia sorella a Cogoleto (Genova). Ci salutiamo con un grande abbraccio e salgo sul treno con l’unico obiettivo di dormire ed ascoltare musica in pace fino a Milano. Purtroppo, però, il mio intento non si è potuto concretizzare. Ho incontrato un ragazzo che ha deciso che io in quelle due ore dovessi essere la sua psicologa e ha così pensato di raccontarmi metà della sua vita. Raggiunta, finalmente, Milano saluto il “buon uomo panzerotto”, soprannominato così per la sua notevole corporatura, e mi metto a correre per non perdere la coincidenza del treno per Cogoleto. Dopo un’ altra ora e mezza di viaggio finalmente sono arrivata. Decido di fare una sorpresa ai miei e li raggiungo in spiaggia con sulle spalle uno zaino che pesa più di me. Noto subito gli inconfondibili capelli di mia madre tra i vari ombrelloni. “E’ arrivata!” esclama con gioia. Mia sorella mi corre in contro e mi abbraccia come se non ci vedessimo da mesi, ma è passata solo una settimana.
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Siamo a casa! Mi faccio la doccia in un vero bagno con una vera e propria doccia. Durante la cena mi chiedono di raccontare la mia settimana. Non nego che sia stato molto difficile. I miei non capivano nulla di quello che stavo dicendo, ma al posto che fare domande e cercare di capire mi guardavano e scuotevano la testa. In particolare, mio padre, vedendomi piangere ha affermato che questa “cosa” che ho deciso di fare mi ha fatto male. “Mi ha fatto male?” Non credo alle mie orecchie. “Stai scherzando vero? Non starai parlando sul serio?” esplodo. “Sto cercando di spiegare che quello che ho fatto in questa settimana mi ha praticamente sconvolta! Sono felice di avere conosciuto persone fantastiche. Mi dispiace solo che tu … che voi non capiate.” “Non so cosa dirti, Giulia. Capisco, ma non condivido.” Cosa dovresti condividere? Lo guardo, mi viene da ridere. Sono sbalordita. Ho i nervi a fior di pelle, mi tremano le mani dal nervoso. Ho la nausea e mi gira la testa dalla stanchezza. “Vado a dormire”, dico con tono secco. Mi alzo da tavola lentamente per paura di svenire, mi tremano le gambe. Vado in camera e mi butto sul letto a pancia in su. Fisso il soffitto bianco per un po’ e ripenso alle parole di Fabio: “Alla fine di questa esperienza sareste voi ad avere imparato qualcosa da loro, piuttosto che il contrario” Sì, ora questa frase ha un senso, ora ho davvero capito.
Mi ha scritto l’Elly stanotte. “Hanno trasferito Frank in un’altra città. Non si sa ne dove e nemmeno il motivo. Non aveva nemmeno diciotto anni. Essendo il fratello adottivo di un altro ragazzo della struttura non sarebbe dovuto succedere. Non doveva essere trasferito.” Mi sembra tutto così assurdo. Dalle informazioni che riesco a percepire con questa famiglia che lo aveva preso in adozione non stava bene. Nemmeno il fratello sta bene con loro, dice che lo trattano male. Perché prendere un figlio in adozione e poi trattarlo male? Magari non è così, forse lui pretende qualcosa che i genitori non possono dargli. Vengono da realtà completamente differenti, probabilmente non si capiscono bene.
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Il giorno dopo decido di scrivere ad Ammar, è l’unico dei ragazzi a cui posso chiedere informazioni.
“Ciao, come va?” “Ciaooo. Tutto bene, tu?” “Bene! Ci sono novità?” “Sì, hanno trasferito uno di noi.” “Chi?” “Frank” “Ah.. e quando?” “Martedì” “Siete tristi per la sua partenza?” “Sì, molto tristi” “Mi dispiace” “Come il giorno in cui ci avete lasciato qui e siete andati via. Tranquilla, la vita è così. Gli auguro buona fortuna dove va”
Dopo questa conversazione, durata poco più di un quarto d’ ora, non so veramente che cosa pensare. Ammar è un ragazzo davvero forte, piuttosto che farsi consolare lui, è lui che tranquillizza me. “Tranquilla, la vita è così”.. già la vita è strana, alle volte crudele, ma in qualche modo è la nostra vita.
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Non sarei mai voluta tornare. E’ come se stessi vivendo una vita parallela. Sono partita con un’ idea e sono tornata con la consapevolezza che quell’idea era solo frutto dell’ ignoranza, della non conoscenza. In realtà prima non avevo proprio un’ idea mia. Non si può pretendere di conoscere qualcosa se non la tocchi con mano. Al telegiornale ti riempiono di notizie che molto spesso non capisci o non vuoi capire. Parole che ti entrano in un orecchio e ti escono dall’altro. Capti solo qualche parola qui e là: “Immigrati …”; “Erano un centinaio … sbarcati questa notte …”
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Settembre
È iniziata la scuola ormai da qualche giorno. Tre ragazze sono tornate a Reggio Calabria per vivere un’ altra settimana di servizio. Avrei voluto andarci anche io ma purtroppo non ho potuto.
Dopo qualche giorno che erano tornate ricevo un messaggio dalla Gio. “Ciao Giuly, come stai? Ti andrebbe se ci vedessimo un giorno di questi per fare due chiacchiere. Così ti racconto un po’ come è andata giù!” Mi affretto a rispondere: “Certamente, non vedo l’ora!”
Il giorno dell’ incontro con la Gio è arrivato. Sono stra carica di sapere come è stato il ritorno. Mezz’ ora prima di vederci mi scrive: “Tra poco parto e ti passo a prendere, ma prima dobbiamo passare da me che devo prendere una cosa a casa mia”. Okay, non chiedo spiegazioni ed attendo che mi scriva di scendere.
Arrivate a casa sua mi dice di sedermi un secondo sul divano. Sinceramente non capisco.. e il gelato? Dopo due secondi torna dalla camera con qualcosa in mano e me lo appoggia sulle ginocchia sorridendo. Si tratta di un disegno, una collana ed un braccialetto che mi ha regalato Kami. Io non ci voglio credere, rimango a bocca aperta e dall’ emozione non riesco a parlare. Cavolo, questo poi non me lo aspettavo!
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Sabato 10 febbraio 2018
Stasera faremo uno spettacolo sulla nostra esperienza a Reggio Calabria. Sarà uno spettacolo meraviglioso, me lo sento. Cioè lo spero tanto. Dal 7 febbraio siamo in settimana comunitaria, in una casa non molto lontana da Sassuolo. Abbiamo, quindi, avuto il modo ed il tempo per preparare al meglio tutto per l’evento: libretti, storie, e tante, tantissime altre cose. Inoltre siamo fieri di avere tre grandi ospiti questa sera: Enzo, Fabio e Bruna che da Reggio Calabria hanno accettato di supportarci nel nostro spettacolo. O forse siamo noi ad aver supportato loro alla fine? Senza di loro avremmo fatto ben poco. Grazie ad Enzo abbiamo aperto gli occhi sulla dura realtà legata al viaggi e agli sbarchi, lui ci ha resi consapevoli del pericolo a cui vanno incontro queste persone e del velo di apatia che avvolge la nostra società. Bruna, con il suo sorriso, con il suo spirito di accoglienza ci ha trasmesso la sua volontà di azione, in quanto cittadina e parte viva del territorio. Fabio ci ha guidati, con il suo stile scout nella relazione con i ragazzi. Il titolo che abbiamo deciso di dare allo spettacolo è “Con occhi nuovi”, perché proprio con nuovi occhi che ora ci guardiamo intorno, con nuovi occhi percepiamo le cose e non abbiamo timore.
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Caro diario, vorrei riuscire raccontarti come è stato lo spettacolo, ma non ci sono parole per descrivere l’ emozione che ho provato in alcuni momenti. In particolare quando l’ Ele ha letto la storia di Frank scritta da me. Beh qualcosa di a dir poco straordinario, ma non perché l’ avessi scritta io, ma per la passione con cui è stata letta e per la reazione del pubblico mentre ascoltavano.
Spero tanto che questa serata sia stata per tutti un seme per andare oltre le semplificazioni, per iniziare a farsi domande e cercare dentro risposte ad una questione sociale viva, per costruire una realtà che possa riscoprire nell’altro un fratello di cui non avere paura, da guardare con occhi nuovi.
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Il giorno dopo lo spettacolo mio padre dice di volermi parlare. “Ora credo di avere capito davvero. Mi sono commosso durante lo spettacolo. Siete stati bravi! Non sapevo che i ragazzi patissero tutto questo per arrivare in Italia.” Lo abbraccio forte. Adesso sì che sono soddisfatta. Tornata da Reggio Calabria avrei voluto fare cambiare idea a tutto il mondo, tutti quanti dovevano sapere, avrei voluto fare conoscere quello che ho conosciuto io a tutti, avrei voluto fare qualcosa di concreto. Tutto il clan avrebbe voluto fare questo e ci siamo riusciti in parte. Abbiamo fatto un spettacolo in cui erano presenti più di duecento persone. Duecento! Abbiamo fatto qualcosa di grande nel nostro piccolo, forse non avremo cambiato idea a tutto il mondo ma a quelle duecento persone abbiamo lasciato qualcosa. L’ho capito dalle parole dei miei amici che sono venuti a vedere, dalle parole della mia prof. Soprattutto l’ho capito dagli sguardi commossi dei miei famigliari: mio padre, mia madre e mia sorella, loro che fino a pochi mesi fa non riuscivano a capire come mai piangessi tanto per dei ragazzi di colore venuti da lontano.
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Da qualche mese, ormai, siamo in contatto con Caleidos, una cooperativa sociale che si occupa di seconda accoglienza. Abbiamo conosciuto i Nigga di Sassuolo. Ci siamo resi conto che forse non era necessario andare così lontano per capire, bastava guardarsi intorno ed osservare bene. Con questi ragazzi abbiamo fatto tante, tantissime cose. Ad esempio abbiamo cucinato insieme, abbiamo fatto partite di calcio, abbiamo chiacchierato e giocato. Siamo diventati amici come con i ragazzi di Reggio Calabria. E non dico amici per dire, ma è veramente così. Amici come due compagni di banco, amici come dei compagni di squadra, quel tipo di amicizia che non ha bisogno di troppe spiegazioni.
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Grazie a questa esperienza ho capito che le paure che provavamo noi prima di partire erano le stesse che provavano loro nell’incontrare noi, forse ancora più forti. La paura di non essere rispettato, la paura di essere giudicato, oppure emozioni come curiosità, tristezza, vergogna. Ho capito che dovevamo essere noi per primi ad accantonare le nostre paure, andare oltre, fare un passo in più, fare un passo avanti, oltre i nostri pregiudizi. Perché la paura ti blocca, t’ intrappola, t’ mprigiona, quasi ti rende schiavo. Ho capito che dovevamo essere noi ad andare incontro a lui, perché è lui che si trova in un posto del tutto estraneo, in un posto dove le persone parlano una lingua che non conoscono. Ho capito che è bello e curioso conoscere persone che hanno culture e tradizioni diverse dalle proprie ed in questa diversità trovare cose comuni.
Ringraziamenti
Un ringraziamento speciale a i compagni di avventura (presenti in Route e non) in ordine alfabetico:
Alessandra, Chiara, Elena, Elisa, Emilia, Enrico, Fabrizio (capo clan) Filippo, Gabriele (capo clan) Giorgia, Mara (capo clan), Matilde, Matteo, Sara F., Sara V. (capo clan), Valerio.
(Il clan Parados)
Grazie alla mia famiglia che ha reso possibile il viaggio a Reggio Calabria.
Un grazie alle amiche che mi hanno supportata e sopportata nella realizzazione di questo diario di bordo, in particolare Roberta e Giorgia.