Giulia Martinelli - Poesie

Ballata con una iena

 

Non è che tutto mi fa male
è che tutto non prende nessun senso
ho un cazzo di demone che ogni giorno si sveglia con me
ma che nessuno sente, vede, percepisce
che mi perseguita quando cammino
lo vedo mentre sono al bar e guardo lontana
lui è lì
mi imita nei gesti
io bevo del vino bianco perché mi sembra più leggero
lui beve il suo rosso così denso come fosse sangue
è seduto e nessuno lo nota
è vestito di nero come in un cliché
non è bello ne brutto
non fa paura
non è la tipica descrizione di un demone
di quelli che leggiamo nei racconti biblici
no è roba diversa
lui mi guarda e io ritorno a essere chi sono
la maschera scompare mentre il trucco si scioglie
le occhiaie tornano al loro posto
e i miei 10 chili presi per sembrare più sana fanno lo stesso
sento i denti diventare gialli e doloranti
sento le ginocchia sbucciate
sento la schiena voler tornare alla sua postura naturale
è una cosa di pochi secondi
ci siamo solo io e lui
mi alzo col mio vino, lo rovescio in un vaso
prendo una bottiglia di rosso
mi siedo sul suo tavolo
passa la mano tra i miei capelli
ritornano a cadere a ciocche
è una visione mistica
sono nel peggior stato della mia vita
e non mi sono mai sentita così desiderabile
mi bacia con le sue labbra proporzionate
invece della lingua vi è una lama
la racchiudo tra i miei denti e mi lascio alle risa
la mia bocca sanguina, le mie gengive sanguinano
e io non mi sono mai sentita così emozionata
comincio a gattonare e lui mi guarda
non fa trapelare nessuna emozione ma io le sento
come se fossero le mie
mi spoglio, rimaniamo io lui e il mio corpo
non vi è più nessun tatuaggio
ricompaiono le vecchie cicatrici
il sangue ricomincia a colare
e cominciamo a ballare
non mi sono mai sentita così viva
come mentre sto per morire
la mia mente non è più in gabbia
continua a farmi ballare


Scorza umana

 

Siamo la nostra pelle
per questo me la marchio
e imprimo di dolore;
per questo vorrei scavarmi il viso
mentre mi sussurri la mia imperfezione;
per questo faccio uscire acqua di rose dai miei occhi
mentre vorrei strappare ogni centimetro
amputare le gambe
le braccia
il petto
il seno
la fica
qualsiasi parte di me
perché non siamo niente
se non il nostro fuori
il dentro viene dopo in linea di successione
e non siamo che scalette
dettate da sconosciuti
ho un cervello da intellettuale
un cuore da poeta
e un’estetica che non li rappresenta;
vedo la mia pelle
vorrei tagliare ogni parte sporca
imperfetta
e poi mi si chiede perché mi marchio
perché abbellisco il mio viso di ferro
perché cambio il colore del mio creato
o perché metto un sorriso;
perché siamo il nostro fuori
e mai niente ce lo toglierà


Sofferenza

Più vado avanti
più tu non esci
perché sai
che se dovessi uscire
da me
sarebbe tutto vero

 

-

“Non mi hai mai detto il tuo vero nome, ora che ci penso”

Era sdraiata dietro di me. Sentivo il suo aspirare avidamente la sigaretta come se fosse l’ultima della sua vita, come faceva sempre. Non pensavo mi rispondesse, non ne avevo speranza, o convinzione, o aspettativa. Ho solo pensato che in quel momento esatto, tentare non mi avrebbe fatto paura. Perché, in realtà, dopo tutta quella storia neanche Hyena mi avrebbe terrorizzato.
Credo che niente lo avrebbe mai più fatto.

“Eleadora” disse lei a un certo punto, sogghignando. Mi prese alla sprovvista.

“Che nome del cazzo, capisco perché ti fai chiamare Hyena” 

Cominciò a ridere in modo forte, innaturale, e si mise nella solita posizione: seduta, schiena incurvata dal far uscire la spina dorsale, le braccia intorno alle gambe. Era la solita in cui l’avevo vista tutti quei mesi, solo che ora rideva. Senza guardarmi.

“Mia madre aveva un gran senso dell’umorismo”

Stetti zitto per un po’, fissandola. Fissando le sue lunghe trecce, il modo insolito in cui le sue ossa curvavano, la pelle coperta di tatuaggi indecifrabili, gli occhi, uno color ghiaccio e uno nero come la pece, che mi avevano inquietato così tanto, e ora invece ammiravo. La cicatrice sul viso le spaccava a metà la guancia. I suoi occhi guardavano in alto, contemplando, sembrava, qualcosa nella luce notturna delle stelle, ma in realtà credo fossero solo da pazza. E io che ci vedessi qualcosa che nessuno ci vedeva.
Il pazzo ero io. E forse lei era la mia Tyler Durden.  

“Sai cos’è lo Xeroderma pigmentoso?”

Continuava a cullarsi e guardare in alto. Io stetti zitto, tanto non stava parlando davvero per me.

“E’ un gruppo di malattie genetiche, mia madre era portatrice sana del tipo C. E’ una malattia che ti fotte il meccanismo della riparazione del DNA. Diventi allergico al sole. Capisci? Alla fonte della vita, è come essere allergico all’acqua. O al sesso.
Comunque, per vivere puoi solo rimanere in casa protetta dalla luce solare e da fonti di radiazioni ultraviolette. Non puoi più vivere, se non come un’eremita, a meno che a te non vada bene di ustionarti ogni volta che vai a prendere la posta.
E quella stronza era una portatrice sana.”

Si era fermata. Le parole avevano smesso di scorrere. Io avevo chiuso gli occhi in attesa, incantato da qualsiasi cosa dicesse, pure quando diceva “fottere”.
Scoppiò a ridere, rideva così tanto che la cicatrice sembrava si stesse per aprire per lo sforzo. I denti aguzzi e le labbra spaccate rendevano il tutto incredibilmente grottesco e meraviglioso allo stesso tempo.

“E’ probabile che un portatore sano attacchi questa malattia al figlio. Con me hanno deciso di giocare alla roulette russa. Non che gli sia andata molto bene comunque.”

Cominciai a capire, mi stava cominciando ad essere chiaro il sadismo della donna che lei in passato, un passato molto lontano, aveva chiamato “mamma”.
Chiusi gli occhi, deglutii.

“Cosa significa Eleadora?” 

Mi guardò con uno sguardo divertito. A lei dava un piacere immenso  infettare le persone con la sua sofferenza.
Fece un sorriso ampio. Cominciò a colare sangue dalla ferita sul labbro. 

“Dono del Sole” 


Poesia su una senza nome

J. era una donna così bella
bella tanto quanto triste
portava tagli sulle braccia
ma diceva di non voler morire
“voglio solo che mi guardino”
allora J. Io ti guardo
mentre penso che ti scoperei così volentieri
contro quel muro
ma poi avrei sbagliato
avrei cercato di toglierle quella tristezza
solo facendole chiudere gli occhi
per cinque minuti
e provando a farle sentire qualcosa di bello
che andava oltre l’umana concezione
e poi me ne sarei andata
perché le cose così belle non vanno mai rovinate
e io so fare soltanto quello


Pensavo fosse amore invece era paura 

 

Vorrei darti il mio sangue se il tuo non fosse abbastanza;
Strapperei la mia colonna per poterti reggere;
Ti sto dando il cappio della mia anima, non uccidermi, fallo velocemente
continua a guardarmi e dimmelo;
Vorrei baciarti ogni particella, ogni atomo del tuo bacino, le galassie che stanno sulle tue cosce, i neutroni che tocco sui tuoi seni
prenditi tutto quello che ero, che sono, che sarò
fonditi con me e creami da capo ogni giorno: così sarò solo tua
toccami mentre sono esausta da una giornata di lavoro
fammi piangere lacrime non dagli occhi
fammi venire mentre tutti ci guardano
nutriscimi, nutrisci quello che creerò per te
alimenta ogni nostro fuoco, al rischio di bruciare case, edifici, monumenti
spezzami il cuore al mattino, ricucimelo prima di dormire,
chiedimi di non fare troppo rumore quando cado
ma rialzami ogni volta
spiega alle persone che l’amore è funesto, terribile, angosciante
ma solo quando si è lontani
solo quando si pensa da soli
l’amore che provo per te è nato da tempesta
diventando diluvio
e ormai è un tornado
vorrei dirti di non fuggire
proverò a cullartici a ritmo
a rischio di farti prendere qualche mobile qua e là
ma il fatto è che l’amore non è questo


 

Rockstar 

 

Sono qua
porgimi la tua mano
conficcami le tue lame nelle dita
baby io mi sento così male
ogni volta che vai via
questa città profuma di te
e dei tuoi capelli neri
accendo sigarette per non pensare
ti ho vista e ho pensato
“che casino”
dormi su di me, inglobati
dammi il tuo cuore e mettilo nei miei polmoni
Se dovessi andartene
mi strapperei le budella
e verrei a regalartele
in un pacco color cremisi

 

-

‘Amico, ho fatto un casino.’ Esordì così Marco. Credo fosse la quinta volta solo in quel mese che glielo sentivo dire. Lui lo diceva sempre.

‘Sentiamo, che hai combinato sta volta?’

‘No Rex, questa non è una stupidata, questa è una cosa seria. Ma davvero seria. Cioè ho fatto il più grande casino che si possa fare.’

‘Ti ho detto di dirmi.’

‘Non ci riesco se manco mi guardi in faccia e pensi sia una stupidata perché, cazzo, stavolta non lo è e..REX! PORCA PUTTANA!’

Senza neanche rendermene conto mi stavo addormentando. Ero abituato talmente tanto alle solite cazzate di Marco che non ci davo mai peso.

Solo che quella volta nei suoi occhi scorsi qualcosa di diverso. Di solito quando faceva qualche casino veniva da me tutto incazzato e con gli occhi a palla, pronto a rompere ogni cosa intorno a lui.

Ma quella volta era sull’orlo delle lacrime, le mani gli tremavano, stava sudando freddo.

‘Raff, prendi subito una sedia e due bustine di zucchero.’

‘Cosa sta succedendo?’ sentii urlare dall’altra stanza.

‘Ti ho solo detto di farlo e fallo pure in fretta, cazzo!’

Un 30 secondi dopo portò tutto, aiutammo Marco a sedersi con calma e, nonostante i continui rifiuti, gli mandammo giù per la gola lo zucchero.

Poi Raffaele gli portò un bicchiere d’acqua e chiese se servisse altro.

Feci un cenno con la mano. Quello era un nostro segnale, come per dire, ‘vattene da qua che non centri niente’, però era detto in modo gentile e quindi ci andava bene.

Marco non riusciva a parlare, stringeva i pugni, e io non riuscivo a capire se stesse urlando o piangendo.

Faceva dei lamenti, tutto qua. Li lasciai qualche minuto per riprendersi del tutto.

Quando tornò lucido, si sistemò bene sulla sedia, bevve ancora un po’ della sua acqua e cercò di asciugarsi il sudore con dei fazzoletti.

Io continuavo silenziosamente ad aspettare la risposta.

‘Rex.. Rex io l’ho messa incinta quella.’

‘Quella chi?’

‘Annalisa, e chi se no, Lisa si proprio lei..’

‘Da quanto tempo lo sai scusa?’

‘Da tre settimane, l’ho anche accompagnata a fare la visita e tutto.’

‘E perché non ce lo sei venuto a dire prima?’

‘Perché non era un problema quello.’

‘Beh si certo tu metti incinta la tua ragazza e non è un problema, si, mi sembra logico.’

‘Non lo era. Davvero. Fino ad oggi.. A Raff raccontaglielo tu dopo, a me non va di parlarne ancora oggi.’

‘Di questo non preoccuparti. Ma mi spieghi che è cazzo è successo oggi?’

‘Avrei dovuto dirvelo, con voi so che ne avrebbe parlato, voi l’avreste convinta.. invece lei fa tutto di testa sua, fa quello che le pare e non ci pensa alle conseguenze. E non ci pensa a me. E poi chi se la sente una responsabilità del genere a quest’età. E poi come cazzo lo mantengo un figlio, Rex? Come? Non posso, non posso..’

Non volevo aggiungere niente. Parlava praticamente da solo. Aspettai.

Stette zitto circa cinque minuti, credo stesse cercando di mettere insieme parole che gli sembravano impronunciabili, quasi come se non esistessero.

‘Oggi aveva la visita, quella che fai.. fai prima di, ecco, abortire.’

‘Si, ed è andata male?’

‘No, cioè boh, lei non c’è andata.’

‘Come no? L’ha rinviata?’

‘No, peggio. L’ha annullata. Ha deciso di tenerlo.’

Da bambino avevo imparato che il silenzio nel 90 per cento dei casi è sempre la scelta migliore. E quello era uno di quei casi. Gli porsi una sigaretta. 

‘Ma Raff non si incazzerà?’

‘Per oggi potrà capire.’

Se la accesse. 

Raff si incazzò.

Non mi interessava.

Passarono 10 minuti.

‘E tu?’

‘Io cosa, Rex?’

‘Tu che hai fatto quando te l’ha detto?’

‘Io me ne sono andato Rex, io me ne sono andato da quella casa e da lei scappando senza dire nulla appena me l’ha detto. Ho spento il telefono ma comunque non mi avrebbe mai cercato, sai com’è lei.’

‘Ma tu la ami.’

‘Si la amo ma non voglio un bambino ed ero stato chiaro con lei dall’inizio. Se dovesse succedere per sbaglio, abortisci. E lei mi diceva ‘sisi certo amore non preoccuparti’ e ora invece tra meno di nove mesi ci nascerà un bambino del cazzo che io non ho mai voluto.

‘Non lo so Marco.’

Io non mi ero mai innamorato, non potevo capire, sapevo che c’era qualcosa di forte, nell’amore, qualcosa che ti travolge e ti prende e ti spezza, ma non sapevo esattamente cosa fosse.

Marco se ne andò tre ore dopo.

Ancora non camminava bene e sudava.

Aveva fatto la sua scelta. Anzi l’avevano fatta, anche se non insieme, non felice magari, ma ogni scelta porta a una conseguenza.

E non vanno mai criticate le scelte altrui per quanto possano sembrare insensate.

Io rimasi li con Raffaele fino a notte tarda, gli raccontai tutto, e lui rimase impassibile.

‘Che sfiga.’

‘Che sia rimasta incinta? Già.’

‘No, non quello. Intendevo che sfiga che non si siano neanche potuti dire addio. Ogni cosa, bella o brutta che sia, merita un finale.’

L’ultima frase, detta da Raff in una triste notte di fine estate, è probabilmente, anzi, quasi sicuramente, il motivo per cui io vi stia scrivendo tutto questo.

 

-Avevamo festeggiato alla grande quella sera. Un colpo del genere era qualcosa che ti capita una volta nella vita e non volevamo assolutamente rischiare di non festeggiare una cosa del genere.

Quando mi incamminai verso casa credo fossero le cinque del mattino. Ero moderamente ubriaco, ma non avevo ancora voglia di dormire.

Quella sensazione di onnipotenza stava prendendo ogni parte di me, volevo fare qualcosa di assolutamente eclatante.

Stavo cominciando a realizzare che tutto quello non mi sarebbe mai bastato, che quel colpo così assolutamente geniale non avrebbe soddisfatto neanche lontanamente le mie voglie di potere.

Il giorno successivo saremmo stati su quasi ogni giornale dello Stato, in prima pagina, e su ogni rete televisiva. La cosa mi rendeva entusiasta, ma non abbastanza da placare quel vuoto che ormai sentivo da troppi mesi.

Stavo cercando le chiavi quando notai che il mio appartamento era già stato aperto da qualcun’altro. Presi la pistola e con cautela entrai.

Potevo anche essere completamente sbronzo ma avrei centrato cinque uomini di fila, sicuramente non mi faceva paura un misero ladro, così sprovveduto per di più.

Le luci del soggiorno erano completamente accese, e per impulso puntai la pistola verso la figura che stava fumando un sigaro seduta tranquillamente sulla mia poltrona.

‘Abbassa quella pistola, coglione.’

‘Da quando hai le chiavi?’

‘Da mai, ma se credi davvero che io non sia capace di entrare nei appartamenti altrui ti sei proprio rimbecillito.’

Christiane non si girò neanche un minuto, ma conoscevo quella voce e quel corpo alla perfezione. Addirittura il profumo era inconfondibile.

‘Abbassa quella pistola, ho detto.’

E io abbassai quella pistola.

Mi sedetti, un po’ malconcio, nella poltrona vicino alla sua. Notai che sotto le luci soffuse del mio soggiorno era ancora più bella.

Non capivo come io potessi essere così maledettamente.. me, eppure farmi fregare sempre da quel viso.

‘Come hai fatto a fregare il metodo di sorveglianza di Davide?’

‘Semplice, non l’ho fregato.’

La guardai dubbioso.

Lei si girò appena giusto per guardarmi negli occhi.

‘Gliel’ho semplicemente chiesto, alla mia maniera.’

‘Anche Davide ora si fa raggirare dai tuoi modi? Credevo in lui, almeno in un po’ più di resistenza.’

‘Te l’ho detto, gliel’ho chiesto, spiegando le mie motivazioni. In modo convincente. E comunque stava ubriaco perso.’

‘Domani si preparà a un discorsetto niente male.’

Rise. Alla sua maniera.

In realtà tutto era alla sua maniera. 

Non c’era assolutamente nulla di normale o consueto con lei. Era tutto fuori da ogni logica.

‘Comunque, cosa diavolo ti serve alle cinque del mattino?’

Chiuse gli occhi per un momento interminabile, fece un tiro, li riaprì e per un po’ stette in silenzio. Guardò fissa il camino. 

Poi si alzò, senza dire nulla, spense il suo sigaro e cominciò a spogliarsi.

Lentamente. 

Io riuscivo a stare solo zitto ed immobile. Se mi aveva affascinato dal primo sguardo, vedersela davanti, nuda, sicuramente mi stava scuotendo in un modo particolare.

Penso sia tra i primi cinque ricordi più belli della mia vita.

Era assolutamente perfetta nella sua imperfezione. Aveva un seno non troppo grande, un corpo bianco, tutto era in perfetta armonia, quasi etereo.

Poi c’erano quelle cicatrici. Quelle che normalmente faceva intravedere ogni tanto. In quel momento, lì erano tutte davanti a me, solo per me. 

Ogni singola parte del suo corpo non scampava a quella che, a primo impatto, poteva sembrare una tortura. Ma una tortura lontana. Lei non guardò mai il suo corpo.

Continuò per tutto il tempo a guardare in alto.

Poi nulla, si rivestì, ancora lentamente, per concedermi di guardare ancora un po’, per non far svanire quella piccola magia del tutto.

Si risedette e si accese un’altro sigaro.

Aveva degli occhi strani, come presi da un dolore, un dolore talmente forte che era inacessibile a chiunque altro non l’avesse provato.

E mi dava l’idea che l’avessero provato in pochi da quanta fosse l’intensità.

Stemmo lì, credo per quelle che furono due ore, a semplicemente fumare e guardare il camino. Io ogni tanto mi giravo e guardavo lei. I suoi occhi.

Lei non si girò mai.

Alle sette e un quarto precise si alzò per andarsene. Io la accompagnai alla porta. Non ero riuscito a capire nulla di quello che fosse appena successo.

Aperta la porta, lei si girò verso di me, ma senza mai guardarmi negli occhi.

‘Un giorno, appena conosciuti, avevi detto che prima o poi avresti voluto conoscermi per davvero, senza maschere, senza nulla. Mi sembrava un buon giorno oggi.’

Non risposi.

Se ne andò.

Io spensi tutte le luci e mi misi a letto. Non riuscii a dormire. 

L’immagine del corpo nudo di Christiane non si tolse mai più dalla mia testa da quel giorno.


 

Coglimi 

 

Immagino come dai tuoi seni possano
uscire fiori
e come dalle tue labbra
note musicali
ti immagino madre di due splendidi bimbi
e tu che mi urli contro
che ho fatto scadere di nuovo il latte