Giuliano Gentile - Poesie

Senza fine

 

Smise di diluviare all’improvviso! si chiusero i rubinetti, il blu del cielo si affacciò dalle nuvole macchiate di nero che si diradavano leste, un colpo di phon aprì il sipario e un coro di uccellini iniziò a rincorrersi tra loro: era spuntata l’estate in pieno inverno. Per tutto il tempo rimase in piedi a guardarla, per tutto il tempo rimase alla finestra a guardarlo. Era un dialogo di occhi, le favole di ogni paradiso a pochi metri tra loro. Si sarebbero inventati scuse e malattie finte, gomme bucate e trisavoli estinti pur di stare insieme un minuto in più, ogni singolo istante. Quando tornava in cella, partendo, lui la guardava toccandosi il cuore e l’incavo nel petto dove risiedeva il centro della sua anima, era il suo equilibrio, la sua certezza e stabilità: stava in piedi solo per lei. Lei lo guardava e parlavano a gesti dicendosi “ti amo” prima di fuggire per non piangere quella partenza. Un patto, un giuramento, una confessione, uno sguardo infinito: baci di occhi, occhi di baci. Spensierata, con la testa leggera ed i capelli di velluto che l’accompagnavo: la regina disadorna vestita solo di cuori colorati. Insieme erano la totale confutazione di ogni dogma, vicini dimostravano il paradosso eterno di ogni cosa approfittando di ogni momento ed ogni incomprensione. Lui capì che si è qualcuno anche senza dirlo e senza essere troppo in vista, tutto ciò che conta è dietro i denti troppo esposti in una risata disperata. L’unica realtà è quella di chi sta ai margini di una foto; l’avrebbe vestita con la sua lingua amandola senza modifiche e filtri, quando era vestita male e quando si sarebbe aggrinzita. Comprese che era il momento giusto per provarci: si accovacciò schiacciandosi il più possibile a terra, il suo seggio, il suo trono. Respirò profondamente contando al contrario dall’infinito a zero ad occhi chiusi. Quando li riaprì spiccò il salto per il quale si preparava da una vita o forse due; virò a destra afferrando la sua mano e continuò verso il cielo guardando solo lei, esistendo solo per lei. Volavano via da tutto e da tutti senza rallentare, senza esitare, sempre più veloci, sempre mano nella mano diretti non si sa dove, ma via da lì.


Aumenta la dose se ti fa bene

 

C’è la mia forma sul pavimento di questo balcone! A forza di stare seduto qui si è creata una cunetta tondeggiante; non so nemmeno più quante volte mi ci accomodo per fumare o per guardare l’ora d’oro che arriva. È automatico ormai: varco la porta d’uscita e un richiamo della finta erba verde mi invita a prendere posto con la schiena contro le vetrate, davanti a me le sbarre basse e il cielo interrotto dai treni che passano. Conosco gli orari di chi ci va di solito e cerco in ogni modo di evitarli per ritrovarmi da solo e mettere qualche pezzo da ascoltare. Ci passo l’intera pausa cena lì, in silenzio il più delle volte a gustarmi le formiche che corrono in strada per prendere l’autobus o che cercano di uscire dai parcheggi; li osservo dall’alto indisturbato e contro luce, non mi vedono nemmeno. Osservo tutti uno ad uno e cerco di scoprirci qualcosa in più. Di tutte le forme, età ed estrazione, col cane, il gatto, con borsette e sacchetti di finta plastica, in compagnia o soli, al telefono svogliati o di fretta per raggiungere qualcuno all’altro capo del filo; questi ultimi sono i miei preferiti: non guardano niente, tirano dritti senza passare sulle strisce pedonali, attraversano sui prati o sulle ciclabili. Hanno la testa reclinata da un lato con gli occhi bassi, si perdono il cielo che li sovrasta e urtano puntualmente qualcuno che passa. Alle volte inciampano e credono di non essere visti ma, io sono lì che sogghigno e confesso di invidiarli anche. I bambini giocano sempre troppo distanti dai genitori o dai nonni che gridano il nome dicendogli “vieni qui subito”, gli skaters scivolano sul marmo liscio della piazza e alcuni si fanno selfie sistemandosi e mettendosi in posa: uno di fronte all’altro per ripararsi dalle figuracce. Come si fa a non guardare quella vita che fuoriesce sparpagliata dai posti di lavoro o dalle scuole, fuori dalle palestre e lontano dai vari punti di domanda che portano dentro. Quelli che di giorno sono stati zerbini con altri, improvvisamente diventano fuggiaschi senza barriere e senza cravatte, si alleano mentalmente strada facendo; si preparano ad entrare in pizzeria per chiudere in gloria la serata in chissà in quale casa, su quale tavolo, con che pantofole. Un paio di bottiglie di birra, una margherita familiare per mettere tutti d’accordo con i gusti ed un sacchetto che sarà usato per la pattumiera, con dentro ketchup, maionese e qualche vizio concesso solo da venerdì a domenica sera. Quando rientro nell’acquario li rivedo tutti da un altro profilo: cambio punto di vista e li vedo in coda dall’egizio ad aspettare l’ordinazione: sigaretta in mano, uno solo dei due auricolari indossati e il passo nervoso, solitamente discutono con le persone che li aspettano a casa! Il sacchetto è posato a terra e girano su loro stessi guardando in alto ogni tanto. Ci sono quelli dell’aperitivo che fanno dentro e fuori dal pub riempendo i piatti e bevendo misture colorate, perennemente slacciati e senza freni, con un braccio giù dal tavolo e un forte strabismo per guardare la persona di fronte e il telefono diametralmente opposto. Al semaforo c’è sempre quello che non parte e quello che suona nevrotico, la tipa che non attraversa o che passa e si ferma in mezzo senza motivo: scatta l’arancione e inizia a trottare. Immancabili quelli che corrono a fine serata, in due solitamente, con le magliettine fluo e traspiranti, paonazzi in volto che si chiedono perché si sono lasciati convincere a provarci. Il leader, quello più aitante solitamente ha i pantaloncini e scarpe da running grigie, una fascia all’avambraccio per contare i passi credo e un marsupio girato dietro; le chiavi di casa appese al cordino al collo che gli scava la gola. Solitamente sono quelli più esterni, verso la strada. Macchine con i fari spenti e quelli che abbagliano, i guidatori ansiosi che guidano troppo in mezzo e sterzano solo alla fine per evitare un frontale. Ed io continuo a scrutarli tutti e a immaginare che faranno dopo. Nel frattempo, quello che gesticolava con la famiglia al telefono ed il bambino che piange in lontananza, ha in mano due cartoni di pizza, ha preso anche le patatine ed un kebab: sarà un tour de force calcolato per loro. Sicuramente li mangeranno mamma e papà davanti alla tv quando riusciranno a darsi almeno un bacino post cena. Al terzo giro i corridori ormai camminano e uno solo dei due parla all’altro sorridendo e dandosi un tono, la mano appoggiata sulla spalla dell’altro in fin di vita. Ennesimo cocktail al pub per chi smascella senza fine e l’ora dei selfisti è passata da un po’. Nipotini e nonni dileguati nella notte. Ed io

sempre qui a prendere note mentali sorridendo. Mi chiedo e mi faccio un conto di quanto non sono io ad essere osservato da quelli laggiù! Sembra più difficile guardare dal basso, alzare un secondo lo sguardo in alto e vedermi sdraiato con i piedi sul tavolo, l’uno sull’altro, in bilico quasi sulla sedia. Tra 27 minuti sarò uno di quelli che prendono la macchina e non accendono i fari, camminerò troppo in mezzo alla strada e devierò all’ultimo secondo per non chiudere male la giornata. Accenderò una sigaretta e li guarderò tutti mentre gli passerò davanti: li ritroverò allo stesso posto di prima, mi aspetteranno lì fino a domani, in posa e al “ciack azione” la loro esistenza ripartirà. Tirerò fuori il bugiardino dalla scatola e leggerò la posologia ed ogni carattere in grassetto:

Aumenta la dose se ti fa bene

Controindicazioni: quando svanisce l’effetto nessuno si accorgerà di te

Non aggiungerò altro, donerò la pace alla mia mente e mi risiederò nella conca fatta su misura per me nel pavimento. Aprirò un altro pacchetto e ne accenderò un paio, una dopo l’altra. I miei pensieri al mio fianco sempre più forti, un bel po’ di sorrisi e riprenderò ad osservare tutto e tutti; e nessuno mi potrà vedere, nessuno mi vedrà.


Pane e panelle

 

Solo una frase: “La cena è pronta”. Panelle e puzza di fritto in tutta la casa! E la mia mente svanì in quel momento di famiglia riunita attorno alla tavola che mi aspettava famelica. Le dita della mano riunite, pronte a gozzovigliare e fare briciole ovunque. Con una mezza parola soltanto chi doveva capire, capiva e chi tirava calci sotto il tavolo, continuava imperterrito! Ridevo perché mangiavo lento con gli occhi addosso e le facce che si chiedevano “ma non gli piace?” ed in realtà adoravo il tepore della frittura rinchiusa nelle fette col sesamo, il profumo di pane appena cotto che si inumidiva e grondava olio: rovente e scottadito; che bello è stato quel momento a quell’ora? Un paio di birre prima e il sole ancora alto di sera che entrava dalla veranda della cucina, una cartelletta di disegni e lavoretti di fine anno scolastico da osservare, musica di morsi e risate di bocche sporche e vissute che benedicevano e ringraziavano per la cena. Ed io lì con loro, con la testa tra le nuvole che giocavo con la più piccola delle cinque dita che mi fissava e chiedeva all’orecchio della madre cose magiche e segreti inenarrabili. “Dopo ti dico una cosa ma è un segreto e tu non lo devi sapere”, risi sguaiato! Non ero riuscito a trattenermi alla proposta del ditino che mi spaccava lo stinco. Incrociava le braccia inscenando un broncio pieno di semini che sembravano coriandoli neri e tutti noi ridemmo senza più pensare alle mancanze, ai cuori devastati e alla vita che ci perseguitava. Per assorbire l’olio che ungeva i rettangolini di farina di ceci, sul piatto si posava un tovagliolo che attirava l’attenzione perché si sposava perfettamente con le mele rosse stampate sulla tovaglia, sembrava il velo di una sposa che sporgeva. Le forchette vennero sapientemente messe da parte e ci buttammo all’unisono a prendere i panini imbottiti che rimanevano in attesa mezzo adagiati ed illuminati dal riverbero del sole. Non c’era silenzio, nonostante fosse vietato parlare a bocca piena. In realtà non c’era nient’altro se non quel momento così vivo e saporito. Un groviglio di mani e passaggi di bicchieri e bottiglie di ogni forma. Alle volte qualcuno veniva interrotto nel passaggio dal piatto alla bocca, da un braccio che passeggiava in mezzo e che porgeva qualcosa rischiando di essere sbranato; guardavamo e sorridevamo: unici, eterni, immortali al sicuro dal mondo lì fuori che ci aspettava in macchina col motore acceso e i finestrini abbassati per uscire ed acchiapparci. La vita succhia il sangue lì fuori, ed il nostro deve essere particolarmente dolce e appetitoso.  Lupi truccati da agnelli che aspettavano col pungiglione di zanzare incipriate come coccinelle portafortuna, tutti in coda a presentare il conto a fine serata, puntuali come il tram che arriva quando accendi la sigaretta. Sembra che lo faccia apposta tutte le volte! Non arriva? Non rispetta l’orario? Salta la corsa? Perfetto! mostragli quanto è inutile la sua presa di posizione e il dispetto di non arrivare mai: svagati, fatti una paglia o siediti e lui spunterà abbagliando con i faretti miopi e ballando come al carnevale di Rio, accelerando e ripartendo senza pietà se indugi a salire. Piano piano i piccoli si alzavano dalla tavola lasciando più spazio per i grandi che chiacchieravano e raccoglievano con i polpastrelli le molliche del pane, era un rituale inconscio, una legge non scritta che andava fatta: onoravamo la cuoca non sprecando nulla di quello che ci eravamo ingurgitati fino a poco prima. Leggermente più distante dal tavolo dondolavo sulle gambe posteriori della sedia mentre ascoltavo gli ultimi fatti della giornata: si parlava di ritorni, di restare e degli appostamenti tattici delle persone fino a poco prima della cena. Il telefono prese a squillare. Urlava, sembrava un rantolo, non era lo squillo di sempre, ringhiava rabbioso ed in quel preciso istante capimmo che la felicità durava davvero quanto un morso ad un panino. Un boccone di pace che si rinfacciava e tentava di venire fuori. Calò il famoso silenzio sbiadito poco prima, aspettava da uno spiraglio non se n’era mai andato in realtà. Quel silenzio strozzino che viene a tirarti il nodo della cravatta e ti fa trasalire mentre gli occhi escono fuori; che ti stringe la cinta dei pantaloni con uno strattone. Eravamo tutti e quattro nella stessa lacrima. Quella stilla di rottura dei bei momenti aveva un nome e cognome e aveva deciso di porre fine alle trasmissioni della sera presentandosi a quell’ora. Con noi, qualcuno si affacciava dal cielo a braccia conserte picchiettando il piede nervosamente facendo tuonare il firmamento e aprendo le danze con uno scroscio assordante di grandine. “Piove” dissi, “è lei” rispose lui, “falla salire”, “no! scendo io” tuonai creando uno scompiglio inimmaginabile negli altri. Una nuova forma di silenzio venne e si materializzò in quel momento! Come un mestolo di polenta denso che calava dal soffitto bianco, una strana calma tinse le pareti chiare del soggiorno insozzando il pavimento che divenne fango. I passi erano pesanti e lenti intervallati dal cicalino elettrico del citofono che ne scandiva le movenze goffe, sembrava il ballo scoordinato dei bambini alla festa di fine anno d’asilo. Raggiunsi la maniglia con molta fatica, non volevano lasciarmi andare per nessun motivo ma, non ascoltando nessuno, scesi con la foga della liberazione, impulsi violenti che mi battevano in petto e nelle tempie. In casa avvisarono le guardie di ciò che stava accadendo, era il momento di risolvere tutto: di sciogliere nodi e imparare l’arte del maniscalco che spacca il ferro e le catene. Facevo i gradini saltellando baldanzoso, scoperto, senza uscite d’emergenza illuminate: per una volta e per loro usavo il pronome “io”. Nonostante l’umidità che mi toglieva il fiato per quella improvvisa pioggia ero asciutto e profumato di casa. Il primo piano, appoggiai la mano al corrimano e svoltai saltando, portando le ginocchia al petto, sette gradini e il portone, i piedi sullo zerbino d’uscita, il pulsante illuminato dell’ingresso principale, “clack” la porta aperta, il silenzio, la pioggia e nessuno che suonava, un rumore sordo simile ad un botto di fuochi d’artificio. Caldo al collo improvviso e marmellata che colava sulla maglietta; mi voltai di scatto, durò un secondo e le corde vocali vibrarono cercando il respiro; lei mi guardò e capì di aver sbagliato bersaglio: non ero io quello che cercava. Un secondo colpo la fece inginocchiare al suolo tossendo ed urlando, mi appoggiai al muro e ricordo solo le urla dei miei famigliari. Luci, sirene, colpi di anfibi a terra che correvano, ambulanze, singhiozzi, grida. “Non doveva scendere perché? Perché?”. Mi portarono via d’urgenza e accesero pure le sirene per l’occasione, le ammaliatrici che si facevano strada ai semafori rossi. Per tentato omicidio una pazza, quella notte fu imprigionata e scontò le pene che da anni infliggeva ad un ragazzo; una coppia di genitori che litigava fece l’amore, un bimbo piccolo si coprì con il lenzuolo e due fratelli pregarono. Senza nomi, senza chiamarci, senza sfiorarci, ognuno dietro gli occhiali scuri e le braccia conserte esprimeva l’amore, senza che nessuno degli estranei potesse capirci qualcosa, con solo mezza parola sospirata e flebile e sorrisi di conforto. Ero salvo, ancora una volta scampato a chi mai capirà l’amore. Mi godevo i disegni di “guarisci presto” che ricevevo giornalmente. Una vita risolta in meno di un piano di scale, la libertà invocata giunta inaspettatamente. Solo la mia ombra ad attendermi all’orizzonte, col sole alle spalle divento la lama di un coltello che sbanda a destra e a sinistra; affondando i piedi nudi sulla riva del tramonto che chiude gli occhi su questa giornata di quiete assurda. Eppure, di tutto quel bordello e di quella notte ricordo solo il sapore di pane e panelle in mio onore.


Linfa per un’anima interrotta

 

“Mi fai sbattere il cuore come un frangipane al vento”. Come petali freddi che scivolano sulla pelle, la notte cola lenta ogni volta ed anche stanotte mi avvinghierà con i suoi tentacoli tirandomi sempre più dentro fin sotto al materasso. La pioggia batteva sui miei pensieri neonati e restavo sveglio ad osservarla con il capo appoggiato ai due cuscini sgualciti, con le gambe rannicchiate al petto strette fra le braccia. Le nuvole e la loro fugace insania scorrevano indisturbate nel cielo nero che appariva sull’armadio: “troppo tormento, troppo male che galleggiava sopra la mia testa”. Le grida dei miei demoni come rumori di fondo: uno dei tanti fragori che accompagnavano il tempo che passava troppo lento sull’orologio del telefonino; osservavo il loro trasformarsi in qualcos’altro cercando di buttare fuori tutte le lacrime che avevo nel cuore per evitare che si depositassero e creassero incrostazioni permanenti. “Io me ne devo andare” mi ripetevo in ogni momento, in ogni sonno: avrei viaggiato e sarei partito solo per la forte malinconia, cercando di comprendere gli indefinibili percorsi della felicità. Era tutto in viaggio lo avvertivo, lo volevo! Mi sarei dato ancora ed ancora, senza difesa né remore, cambiando la pelle, per diventare ancora più sconfinato, valicando ogni limite. Avevo riempito pagine di quaderni con un sacco solo per rivedermi da un’altra prospettiva, volevo sapermi e comprendermi. Stavo riposando un po’ in realtà, per poi ricominciare ed andare avanti più di prima; ero sceso da cavallo solo per abbeverarmi e raccogliere nuove margherite e rose. Troppo stanco per dormire, troppo sveglio per spegnermi; cenavo sempre al tavolo dell’uomo disperso imbandito per le occasioni della memoria, apparecchiando sempre per due con il mare davanti. In nome di un limite, siamo capaci di originare la morte di noi stessi e della vita, e lo stesso sogno diviene tormento quando non puoi realizzarlo. Pensavo che più di ogni cosa mi mancava il posto più sicuro in cui rifugiarmi quando avevo paura. Ondeggiavo impercettibilmente stando rannicchiato; muovendo le dita dei piedi come per togliermi la sabbia rimasta impressa durante le mie passeggiate nella bruma notturna. Quando stava per giungere il torpore e lentamente il corpo reclamava pace schiodandosi dai supporti, staccandosi lentamente dalla materia di carne divenendo pacatezza onirica: avvertivo uno scricchiolio intorno a me o un alito di vento che entrava dallo spiraglio della finestra accostata; quei rumori che il buio nuvoloso dilata come una roccia che cade in una grotta silente. E mi ricordavo dove mi trovavo, in che momento del giorno ero arrivato, mi destavano dispettosi quando gli occhi di piombo iniziavano a chiudersi sfiniti. Commemoravo un sacco di cose non fatte poco prima: non aver fumato prima di andare a dormire, non aver tenuto vicino gli auricolari, non aver preso la bottiglia dell’acqua per bere, non aver comprato un accendino nuovo. La notte era una macchinazione dei miei pensieri che correva in lungo ed in largo nel mio teschio. Idee che non mi volevano addormentato fino a quando la luce del sole non fosse entrata dalle fessure della tapparella che sigillava la mia persuasione; ed era già il giorno dopo. Ogni notte, il sole mi teneva compagnia disegnando eclissi di vita ed albe tramortite che si allontanavano correndo e sfottendomi: giravano l’angolo e si fermavano ad abbagliarmi con il riverbero della loro presenza. Sapevo che mi attendevano calmi e sereni sfogliando le pagine delle loro fiabe: una dolce angoscia che mi lasciava con la mente a tremila. Viaggiavo a velocità vietate ed altezze siderali, via da lì via da qui, da queste parole e da queste ore. Si fece mattina: la campanella delle 07.30 sbiascicava echeggiando nelle vie del quartiere svuotato; qualche macchina con i finestrini abbassati passava pompando una canzoncina ed i primi anziani si fermavano a chiacchierare intrepidi proprio sotto la mia finestra, ed io sfatto, partecipavo curioso ai discorsi rugosi di anni che passavano; era come un sentito dire che arrivava al mio essere orizzontale. Gli uccellini si incazzavano per rubarsi le nespole che erano spuntate sull’albero del giardino, si davano tutti appuntamento nelle mie orecchie e, non appena muovevo una falange tutto svaniva, si zittivano quasi disturbati dai movimenti millimetrici del mio risveglio, “stai a vedere che sono io che infastidisco loro!”, ed un risolino mi carezzava sul grugno imbambolato e gli occhi stropicciati. “Ho voglia di piadina, quasi quasi mi alzo e me ne preparo un paio”: i dialoghi col me stesso eretto che mi invitava con l’indice a seguirlo in cucina. Mi sembrava di avere mille piedi da spostare e poggiare sul pavimento fresco; uno dopo l’altro li traslocavo svogliatamente cercando le mattonelle, mille schiene da sgranchire e tosse del mattino post nicotinico: e mi alzai. Molto lentamente. Il guscio di conchiglia che si trasformava nuovamente in uomo dopo la metamorfosi del non-sonno. Con la stessa fiacca aprii le finestre e le tapparelle facendo entrare il fresco della pioggia caduta la sera prima. Mezzo sguardo al cielo si rifletteva nelle pozze d’acqua. Il mondo sottosopra, l’azzurro nel cemento. Così come mi trovavo saltai i cinque gradini della porta finestra che dava nel giardino e mi tuffai, sprofondando in quella pozzanghera, rimanendo senza fiato per l’acqua gelida che mi ricoprì interamente.


Finché sabbia non ci separi

 

La sabbia che si appiccica alla pelle bagnata, quella che per levarla la devi grattare ferendoti. Quella stessa sabbia color oro e beige che ti lascia graffi scarlatti sulla pelle e resta sempre addosso, dentro, scavando fino all’anima. Non c’è vento né acqua che possa tirarla via. Lascia buchini rossi sui palmi e sulle cosce. La senti nelle scarpe e nelle calze: onnipresente. Mentre cammini, la perfezione del corpo la fa avvertire tra le dita dei piedi. Quando Sali in macchina, dopo una giornata di mare e poggi l’asciugamano sul sedile la vedi ovunque e sai ti accompagnerà lungo tutto il viaggio fino alla fine della stagione. Lavi l’auto e, nonostante gli aspiratori, un granello fuggiasco rimane lì ad osservare tutte le intimità dell’abitacolo. Durante i cambi dell’armadio, sbatti gli abiti per spolverarli e riporli intonsi, scuoti i contenitori e la vedi nascosta agli angoli delle scatole, pensando di averla debellata ed invece torna. Si ripresenta ributtandoti nella spirale di un ricordo. Non c’è vento che possa davvero allontanarla, si accanisce verso gli occhi e sul ghiacciolo, si infila nel caffè e sul prosciutto nel panino: mangi pane e sabbia e la senti in bocca come fosse sale insapore un macigno per il cervello. Quei chicchi di una giornata di sole te li porterai dietro per un bel po’. Non si vede ma esiste, esisteranno comunque. “La ringrazio e mi scuso per l’attesa” diceva l’operatore al telefono, la scimmietta centralinista ripeteva la frase intermedia per calmare il cliente dall’altra parte del ricevitore. Frase di apertura, corpo e chiusura; esprimere disponibilità sciorinando il miglior sorriso telefonico per chiudere il buio della conversazione; la scrivania imbandita di ogni frammento personale e lo sguardo rivolto alla sua destra verso il cielo e le nubi che cambiavano forma. Faceva ancora il gioco di assegnargli un volto, un’identità definita ad ogni singola nuvola che vedeva, passava da un pallone mangiato sul lato destro, alla crocifissione osservata da cani che giocavano a ruba bandiera. Sorrideva già di suo quando il “bip” in cuffia preannunciava un ennesimo problema da risolvere, un altro disperato che immaginava con la canottiera sporca di sugo seduto sul divano con davanti un ventilatore dei cinesi acceso alla potenza massima. “Come posso aiutarla?” diceva e cercava di preannunciare la complicazione nascosta sotto la schermata cliente che appariva svelando le generalità del consumatore. Nessuno risponde mai ai saluti, pensava, e tutti esordivano con un “ho un problema”; recitava un mantra silenzioso “sapessi io”, mentre rispondeva cercando empaticamente di sedersi su quel divano e muoversi lui per l’altro. A colpi di mouse, abbassando il volume meccanicamente, si faceva i fatti del cliente mentre questo minacciava azioni legali e stragi di stato. Distrattamente annuiva per evitare di lasciarlo solo, aveva anche questo compito nella sua vita: accompagnarli tutti a fare altrove nel modo meno intenso possibile. Un risolutore di difficoltà e preoccupazioni senza volto: di lui si conosceva solo la voce ed il nome. Impossibile identificarlo, nessuno doveva saperlo: lui era il rappresentante del servizio clienti che ingollava miele e beveva acqua. Lavorava senza scarpe, poggiando le estremità alla moquette bisunta stravaccandosi sul tavolo. Riusciva a staccarsi dalle ingiurie che riceveva e ringraziava giustificando quelle anomalie insuperabili che rovinavano la vita di qualcun altro. Disegnava continuamente sui fogli, implorava pietà guardando in su verso il soffitto foderato di grigio e picchierellando con le dita per porre fine ai vaneggi. Conosceva ogni singola chiamata e tutto ciò che si poteva risolvere e decifrare: bastava ascoltare battendo sui tasti della tastiera emozionale. Qualche piano più giù le macchine procedevano tranquillamente rispettando gli stop, qualche piano più su l’interlocutore cercava scorciatoie alla paranoia. Un telefonista è qualcuno che conosce ed intende i tuoi dolori e nonostante questo deve pure fare in modo di farsela andare bene e dirsi che gli piaci. A problema risolto fuoriusciva un gratificante “finalmente e ci voleva tanto” e lui ripeteva la farsa del “posso esserle utile in qualcos’altro?”, perché fino a quel punto non gli erano bastate tutte gli insulti ricevuti, doveva forzarsi e permettere a qualcun altro di pugnalarlo verbalmente. Pazienza ed arrendevolezza: un dato di fatto. Risolto l’incredibile problema di vita, solitamente smetteva di ascoltare e si annullava l’attesa telefonica e la rabbia del giorno. Sicuramente quello zerbino, in precedenza, era stato zerbino della sua vita e su qualcuno doveva pulirsi i piedi, il prescelto era proprio e sempre lui. Viveva dissociato dalle ottiche di squadra e dalle persone del lavoro, ignorava le mail coi dati; giungeva prima apriva i sistemi e scompariva sino all’inizio del turno fumando e bevendo caffè: 35 centesimi ben spesi; si sedeva a terra, inforcava gli auricolari respirandoli e pompava l’impossibile permettendo alla musica di stuprargli la mente ed infilarsi in ogni sua possibile quintessenza. Il telefonino sempre in mano, lo custodiva come il tesoro più caro del mondo: era l’unico tramite tra il mondo finto del lavoro e quello vero, quello oltre le ringhiere della balconata che lo rinchiudeva lì dentro per otto ore e mezzo. Non mangiava in quel periodo, fumava solamente e pensava a che avrebbe fatto quel giorno se non si fosse trovato in quel loculo di “buongiorno, buonasera e grazie per averci contattato”. Prediligeva sempre il turno serale, rinunciava ad ogni mattina ed orario intermedio per godersi il silenzio uscendo alle 22.30, alle volte si fermava ad oltranza e restava tra le paratie delle postazioni orfane delle dita nevrotiche che battevano sulle tastiere; raccoglieva le sue cose gonfiando lo zaino. Lasciava una bottiglia accanto al monitor ed un blocchetto di fogli immacolati, i precedenti pasticci finivano nella differenziata dopo essere stati ritagliati delle cose buone uscite durante il viaggio. Infilava i ritagli della sua mente e del suo cuore nella tasca inferiore della sacca, le chiavi della macchina nella tasca dietro dei della tuta slavata, sigaretta tra le labbra accendino in mano. Un ultimo sguardo per essere sicuro di aver preso tutto e volava fuori da lì. Lentamente, assaporando la fine del turno. Salutava solo con la mano senza donare più nulla a nessuno. Non voleva, fili spinati e cocci di vetro per chi superava lo spazio vitale. Sbatteva continuamente contro i mobili dell’azienda posti al limite del settore, picchiava su lividi e sorrideva per cascarci ogni volta. Girato l’angolo incontrava le sei porte che lo avrebbero portato al parcheggio sotterraneo, si apriva sempre quella più distante ed accelerando il passo ci entrava soddisfatto rimanendo abbagliato da quella luce artificiale. L’unico rito che ammetteva era contemplare la sua immagine allo specchio dell’ascensore: passava qualche secondo prima di pigiare il tasto per scendere; scompariva tra i pollini dei ricordi. La voce registrata dell’ascensore lo riportava in vita nella penombra del parcheggio, saliva sulla sua auto ed usciva salutando le guardie che attaccavano il turno in quel momento. Faceva tutto nel medesimo modo, a memoria quasi, guardava tutto ciò che poteva uscendo seguendo i contorni della realtà che incontrava. Gli occhi stanchi ed arrossati e la radio accesa al minimo per non dimenticare chi fosse: si diceva mentalmente che non ci si poteva fidare di chi guidava senza musica; così si avviava verso le strade che conosceva, impostando il pilota automatico e fuggendo verso altri posti. Alzava il volume ai pezzi che spaccavano e andava avanti veloce per trovare le frasi che più gli piacevano. Per un tratto costeggiava i binari della ferrovia e cadeva in un silenzio catatonico fin dopo averli superati, avvistava il tabaccaio e la pizzeria e gli veniva fame. Se ne fregava di chi abbagliava o suonava, se ne stava nella sua corsia con la mini macchina procedendo lento, prendendo tutti i semafori rossi. Non se la prendeva con nessuno, era passato quel tempo, ora si diceva solo “vuoi passare e passa, vuoi tagliare la strada? E tagliala”. A quell’andatura arrivava a casa anche un’ora dopo. Se la godeva la strada, l’assaporava sotto le ruote e la percorreva attraverso le marce. Una volta parcheggiato si sedeva davanti la chiesa, quella di sempre, a fumare; toglieva lo zaino e osservava le comitive al parchetto. Gettata la sigaretta attraversava sbadatamente la strada ed apriva il cancello che accostava senza chiuderlo: “non si sa mai” diceva ad alta voce. Si chiudeva la porta di casa alle spalle ed iniziava la nottata. Dopo essersi spogliato e aver gettato tutto a terra, sciacquava il viso e le mani con l’acqua ghiacciata, era il suo contatto con la realtà, detergendo e sfregando vigorosamente il volto fino a lasciarsi segni rossi sulla pelle. Passeggiava distrattamente per le stanze vuote, lanciando sguardi svogliati ai vani che passava “troppo grande questa casa per uno soltanto”. Dal bagno inondato di luce passava lungo il corridoio guardando a destra e sinistra le stanze. Afferrava la bottiglia d’acqua e si dirigeva verso il letto ad una piazza. A quarant’anni tornava in una vita monoporzione di tanti anni prima. Toglieva tutto e posava il telefono accanto la foto della nonna, la salutava scrutandola e godendosi il sorriso che sperava di vedere e chiudeva gli occhi fino all’indomani senza più guardia, senza occhiali né altro: disteso sul letto inabissato nell’assenza di rumori. Il giorno dopo ripeteva tutto al contrario dopo aver spalancato la porta finestra della stanza, sedeva sui soliti gradini fumando a pieni polmoni. Rientrava e pensava al caffè, prediligeva una tazzina coi cuori, “solo amore grazie” e si accendeva un’altra paglia poggiando i piedi al pianale vicino la finestra. Lo accoglieva una corrente leggera mentre era poggiato con la schiena alla parete con le mattonelle anni ’70 dei suoi. Una tazza dopo l’altra svuotava la caffettiera senza pronunciare lemma, leggeva oroscopi e riponeva tutto nel cuore e nel lavandino, “poi li lavo”. Tutto pronto per la giornata che correva un po’ troppo. Quel giorno a lavoro erano successe diverse situazioni anomale: una serie di rotture dopo l’altra tutte annotate nel diario di bordo; sistemi non funzionanti, mancate interfacce e circostanze irrisolte ed ovviamente affidate a giorni migliori ed uffici preposti a risolverle e a deliberare. Sgomento dall’impreparazione e dalla mancanza di risoluzioni, sperava solo nella fine del turno. Che tragitto superfluo quella sera: ovunque impedimenti ed il cielo fosco, le luci che pesavano come mai, raffiche di vento forte ad ingarbugliare l’immaginazione; una goccia, una dopo l’altra scivolavano sul parabrezza: aveva cominciato a piovigginare oltretutto su tutto. Pioveva su tutti in strada, la gente correva per andare nei locali quel venerdì sera e lui non correva per tornare a casa: bizzarrie dell’universo. Voleva solo distendersi, anche in terra eventualmente, ma comunque orizzontale rispetto alla vita di quel giorno trascorso senza autonomia, senza lasciare segni. Voleva solo arrivare e fumare al solito posto, avvolto dall’odore di asfalto bagnato. Osservava le fronde degli alberi che si piegavano accanto l’ingresso, con eleganza si prostravano al suo momento di pace; la sigaretta la fumò il vento! Senza cappellino, sdraiato sui gradini di marmo. Raccolse le sue cose si chiuse nelle spalle ed attraversò sulle strisce bianche lucide per la pioggia che scendeva. Trovò entrambi i cancelli aperti, dando la colpa al vento passava tra il blu elettrico dei citofoni e la luce gialla ospedale delle caselle. A passo rapido, si rifugiò sotto la tettoia cercando le chiavi di casa. Partì da quella superiore, quella più lunga e facile da trovare. La sfilava dal mazzo, centrò la toppa girò verso destra ma non ci fu nessuno scatto metallico: era stato così stordito da non chiudere con le mandate la parte superiore; procedette ad inserire quella più piccola ed al posto di tre giri ne diede uno solo: a conferma della sbadataggine di poche ore prima. Iniziò a parlare ad alta voce ridendo per la distrazione, le parole riecheggiavano nelle scale sbattendo sulla porta di casa. Entrando accese la luce dell’ingresso e lanciò subito via scarpe e le calze. Cominciò a spogliarsi senza regole, si incamminò verso la porta del bagno ad occhi chiusi, con la testa verso l’alto emettendo vagiti e suoni di stanchezza e soddisfazione. Spenta la prima luce cercava l’interruttore dello specchio, gli piaceva di più: conferiva alla casa una intimità diversa, come una fiaccola in una grotta. Decise, senza pensare, che era giunto il momento per una doccia, sedendosi e facendosi massaggiare dall’acqua; tolse i boxer verdi ed azionò la leva dell’acqua, chiuse le antine di vetro smerigliato e si ricordò di una candela blu da accendere. Uscendo nella penombra udì soltanto “ciao amore” e salì dieci, cento, mille piani più in su. Giunse quel venerdì, inaspettata ed innamorata. Lo trovò quel venerdì, inaspettato ed incantato. Senza una parola fecero l’amore piangendo promettendosi di non lasciarsi mai più, fecero l’amore per tutta la settimana e quando non erano insieme lei lo andava a prendere e lui la aspettava già fuori. Le disse che non aveva smesso un secondo di amarla e le promise eterna vita dopo averle posato il cuore in mano. Piansero e fecero ancora l’amore sposandosi come un tatuaggio. Quel giorno che cambia la vita, quella pioggia che benedice il viso e sveglia il cuore. Era tornata per rimanere e lui era rimasto per vivere con lei, di lei ed in lei. Come quella sabbia: non era mai andata via, non era mai andato via.


La galera affranta

 

Disperato, il vascello sdrucciolava sulle onde che si infrangevano senza compassione sulle vele ammainate delle loro anime. Quell’ammasso di legna, un tempo orgoglio del comandante, veniva sballottato verso tutti i punti cardinali dello scibile solcabile. Concludeva giri completi su sé stesso sfidando ogni legge possibile, ammarava di lato imbarcando acqua e tonni fuggiti dai loro rifugi. I pesci sbattevano contro i disperati che tentavano di tenersi il più stretti possibile a quello che rimaneva in piedi dopo ogni attacco dell’oceano: facevano a botte con le pinne caudali dei pesci che cercavano rifugio sulla chiatta ferma. Era un mare nero, blu-nero, che cercava incessantemente da giorni di levarsi di mezzo quel mucchietto di frasche e rami. Gli ammutinati rispondevano al capitano che sbraitava verso le loro madri che li aveva partoriti così smidollati, “cose inutili remate!” tuonava. I disobbedienti eseguivano alla meno peggio legandosi con i resti delle corde lise e delle lenze da pesca alle panche consunte della fu una volta nave ribattezzata ora galera senza scampo. Cercavano in tutti i modi di mantenere una parvenza di mascolinità mentre piangevano invocando tutto il firmamento. Si trovavano al largo della costa e non riuscivano a disincagliarsi da quella tormenta giunta all’improvviso: il fondale troppo basso li perforava con spuntoni di roccia viva ed acuminata, aguzzi come denti di mostri marini. Privi di fama, sbraitavano depredandosi delle corde vocali e dei polmoni; si pisciavano addosso nell’intimo dalla paura: gli uomini veri erano tornati bimbi in fasce. La riva era a pochi passi miracolosi da loro. La cittadina intera li guardava dalla spiaggia strappandosi i capelli e pregando, segnandosi ripetutamente, le mani al cielo a sbrindellare la pelle stringendo i pugni e chiedendo la grazia della salvezza, invocando protezione e chiedendo che il carico di viveri arrivasse più sano e salvo dell’equipaggio. La nave mercantile trasportava viveri e provviste per l’inverno che stava giungendo troppo rapido quell’anno, aveva osato passare lo stretto nonostante le raccomandazioni dei saggi del mare e i suggerimenti di nuove rotte improvvisate. “Maledetti, mendicanti, cani di bancata, creperete dopo”, il rosario era sgranellato a colpi di sputi e colpi di flutti insolenti. Scalzi nel profondo, con le piante dei piedi spaccate facevano leva sulle panche e le schiene dei compagni per tenersi in equilibrio e non sbattere rovinosamente contro la sponda del barcone, rischiando di trovarsi con la gola tagliata da parte a parte. Stavano crepando uno dopo l’altro senza nemmeno dirsi addio, senza avere la possibilità di salvarsi, si diradavano i vivi e comparivano i volti dei morti crollati sul fondale a saziare i pesci. La bandiera nera ringhiava in cima al veliero come ad indicare il riscatto che il cielo chiedeva per i loro peccati: equipaggio di bari, avidi, infami e fanghi appestati; malconci che infestavano la vita, riscopertisi cacciatori di coralli e tesori delle profondità. Esplodevano colpi sordi di botti, ed il mare amaro si tingeva di uva rossa per il vino. Quei mal arnesi amputati della loro dignità, dalle sentenze, ora erano diventati eroi da salvare e per cui pregare: quei luridi omini, ricchi di uncini e piercing splendevano nel buio del cielo che iniziava a vomitare tuoni e sguardi allucinati. Quegli specchi d’acqua che li avevano visti complici nei tuffi e nella pesca, ora reclamava la loro anima indocile; chi cantava stette in silenzio ripensando alle linee del vento caldo e del libeccio. Una vetrata si infranse nei loro occhi infilandosi nelle pupille che presero a sanguinare senza fine, mollando le mani furono risucchiati come scarafaggi da un’aspirapolvere e chi sognava una nuova rinascita rimase deluso; chi pensava a terre lontane fu stipato nell’aldilà. La folla si stringeva forte piangendo la sciagura che si dipingeva di ogni tinta possibile al largo, con le mani in tasca intirizziti dal freddo correndo da ogni parte e sbracciandosi, seguendo con le dita il dondolio ipnotico e disperato dello scafo, urlando preci indistinte. Capirono che erano definitivamente spacciati quando un paio di preti giunsero a riva alzando le gonnelle nere ed entrando fino all’ombelico in acqua, disegnando con le mani delle enormi croci per benedire i brandelli delle loro speranze. Calò il gelo più totale. Nostromo, capitano ed equipaggio si fermarono in un unico respiro infinito e tremendo; fu il panico: quello del batticuore, quello dell’angoscia. I più intrepidi saltavano tra le rocce sfracellandosi prima di toccare l’acqua, i corpi dei risucchiati dal turbine erano diventate lance di salvezza, gli altri spiravano attaccandosi ai piedi dei compagni che li avevano preceduti scusandosi dei mali e delle brutte parole dette in vita e subito dopo, il mare velenoso li decapitava con una forza inimmaginabile donandogli la possibilità di scagionarsi definitivamente. Il capitano, condottiero di quella bara natante non osava muoversi, sarebbe rimasto lì finché morte non lo avesse colto: nato in mare e morto in mare, con l’unica certezza di esserci stato fino alla fine. Si infilò sotto una sporgenza, uno dei tanti bernoccoli spuntati sull’imbarcazione e cominciò a ripensare a cos’avesse fatto fino a quel momento per essere ricordato forse nella preghiera di qualcuno. Aveva fatto un sacco di cose inenarrabili: aveva rubato e vissuto ai limiti della legalità, si era azzuffato più volte solo per degli sguardi non piacevoli ai suoi occhi, aveva ucciso per difesa, si era difeso dagli amici, appoggiato i nemici e complottato alle spalle dei fratelli. Aveva trafficato di contrabbando e non si era lavato i denti; ad un istante dalla fine gli venivano in mente solo cose brutte, “qualcosa di buono avrò pur fatto” recitava mentre piagnucolava; più si sforzava, più si ricordava solo le piccolezze di una vita agli sgoccioli. Aveva amato! questo sì lo aveva fatto. Si illuminò, aveva amato ed ancora amava. Aveva percorso in lungo ed in largo il globo tornando tutte le volte perché, comunque i marinai tornano sempre, almeno lui. Non aveva avuto altro oltre lei, da nessuna parte. Fumava troppo ed anche ora tentava con i fiammiferi rimasti di accendere una sigaretta fatta d’acqua, quell’ultimo desiderio prima della forca che lo chiamava a gran voce con fare sensuale. “Se potessi tornare indietro” come una canzone nella mente, “sicuramente non mi sarei più imbarcato”, la macchina del tempo era solo un dolce ricordo di tutte le parole non dette o dette nel momento sbagliato. Ancora ci credeva quando l’acqua gli arrivò alla gola: un solo pensiero, una sola vita, un solo sangue, il suo respiro nelle labbra di lei. Che poteva farci se lo scafo si inondava sempre più e si sgretolava sotto le sue scarpe? A chi chiedere aiuto ora? Guardava le sue mani rugose piene di tagli e disegni, gli anelli volati via per sempre, restavano solo le vene ben visibili. Non era possibile che tutto sarebbe finito in quel momento, eppure, si avviava con le gambe che galleggiavano davanti verso il buco comparso a prua all’improvviso. Si ricordava di quando faceva il morto a galla ascoltando il suo respiro sempre più in fondo, quando chiudeva gli occhi abbagliati dal sole e li riapriva guardando le nuvole bianche. Ora avrebbe fatto il morto tra i resti della sua ciurma. Si preparò tenendo nella tasca i resti della sigaretta, indossò il cappello e chiuse gli occhi su quel mondo marcio ed infame che se lo riprendeva. Allargò le braccia e si lasciò scivolare pensando ai palloncini che scappavano dalle dita dei bambini. Strinse i denti ed urlò il suo nome, il più bello che avesse mai pronunciato; latrò con tutto ciò che aveva dentro aggiungendo “ti amo”, piangendo “non ho smesso un solo attimo di pensarti”, gridava, gemeva, si disperava. Un sapore di fiori gli saliva da dentro, rose; rose di quelle rosse con un retrogusto di nicotina e caffè. Una caramella forse di quand’era piccolo. I capelli sul suo volto che lo solleticavano e lo facevano sorridere sicuro; aprì gli occhi e la sua donna si sdraiava su di lui. E lui l’abbracciò.


Ritorno a casa mia

 

L’unica frase che mi girava dentro era “ci devo andare”, non porto più nessuno, non devo portarci più nessuno! Il viaggio vero ha inizio ora, qualunque genere di viaggio esso sia, in qualsiasi landa desolata o meno io possa approdare, armato di zaino e buoni propositi, sfoggiando il sorriso che per troppo tempo si era celato dietro le nubi abbarbicate sul mio volto: troppo bello per non mostrarlo, troppo denso per non fare la barba e splendere più di prima. Perché aver paura della fine, della solitudine, della morte? Quando ci sarà la morte non ci saremo più noi, quando ci sarà solitudine ci sarà la libertà, quando ci sarà paura faremo esperienza osando: tutto sotto controllo quindi, bastava solo volerlo, prendere la macchina e partire. Partii martedì in mattinata. Dopo aver preso una felpa col cappuccio, lo spazzolino e poche altre cose mi misi in auto stipando tutto sul sedile passeggero vuoto: sigarette, accendino, auricolari, acqua e patatine. Impostai il navigatore col cuore che faceva su e giù come uno yo-yo. Aria appena tiepida sul vetro davanti, la giacca nera appoggiata dietro, la moneta per i caselli nella vaschetta vicino la leva del cambio. Il cielo plumbeo presagiva un viaggio più lento del solito. Pensavo sonoramente al fatto che non mi interessava arrivare presto o tardi. Il telefono muto: solo io e la strada. Diventare parte della strada e parte del silenzio o riconoscere cosa non ne faceva parte per accrescerlo, dargli nutrimento e sostentamento facendolo fiorire dandogli spazio e la libertà di movimento. Lo vivevo ogni giorno il placido inferno, nella quotidianità, nell’ accennato proporsi automatico di ogni gesto; come se collezionassi sabbia. Quella che raccoglievo viaggiando per il mio mondo, di tutti i colori, che conservavo in barattoli di vetro con l’etichetta adesiva per ricordarmi il posto preciso in cui giunse tra le mie mani. L’intero mucchietto di granelli andava stipato e circoscritto per riuscire a definirlo, rubavo alla distesa infinita parte della sua identità per ritrovare la mia. Sabbia di mare, fiumi, luna, ruscelli, torrenti, sabbia di polistirolo per la neve del presepe: tutte qualità diverse ma tutte infinitamente granulose; miliardi di chicchi multiformi chiusi in un’ampolletta di profumo vuoto, riciclato. Pur non riuscendo a dare un numero né un volto alle briciole di rena, riuscivo a riconoscerle tutte; la sabbia mi ha sempre suscitato protezione, quando la vedevo la salutavo levandomi le scarpe e le calze, affondavo le dita costrette dentro gli scarponi e mi godevo il solletico che mi facevano gli acini disordinati. Avrei tolto nuovamente le scarpe pur essendo la fine di novembre, ed avrei assaggiato la disobbedienza taciturna che si apriva sotto i miei piedi. Le mie impronte sarebbero tornate. Mi accorsi, in tutto quel tempo passato, che stavo sparendo lentamente senza fare rumore, senza un gemito, senza ombra! Accesi la macchina e me ne andai. Tre quarti d’ora dopo ero al casello dell’autostrada, fermo a ritirare il biglietto d’ingresso. Nessuna maschera che mi accompagnava alla mia poltrona con la lucetta, nessun posto assegnato: solo la prima fila ed una visione privata, l’intero cinema al mio servizio. Presi il biglietto insultando la voce metallica altisonante della signorina grazie arrivederci e lo misi nella fessura del parasole; tardai un attimo a ripartire ero emozionato a morte; la sbarra si alzò e lo starter sparò il colpo del via. Avevo intenzione di prenderla molto più che comoda e mi misi in seconda corsia guardando il panorama che diventava sempre più limpido man mano che avanzavo verso il punto di fuga marino. I guardrail correvano lateralmente su entrambi i lati e mi invogliavano a vedere cosa ci fosse oltre, nel punto di incontro improbabile in cui non si sarebbero mai trovati; avrei sconfitto il teorema e sarei giunto fino a quel restringimento improponibile e inconfutabile. Non tenevo più la faccia in ombra, guardavo inconsciamente da sopra gli occhiali tutti quelli che mi capitavano a tiro e che avevano il privilegio di incontrarmi. Non uccisi mai nessuno, meditavo, né infransi i comandamenti più forti, ed allora cosa dovevo scontare? Persi forse troppo tempo appresso alle inezie di chi si credeva idolo e si proclamò entità divina scesa in terra dimenticandosi che sotto i monili: siamo tutti pelle e sangue. Scorrevano i chilometri e la condizione di presunta solitudine in cui avrei dovuto svegliarmi si allontanava sempre più, la mia forza non era quanto lontano potessi andare per estraniarmi bensì quanto poco mi ci voleva per staccarmi da tutto e tutti; un privilegio per me, una dote che avevo: anche senza meta non perdevo mai di vista niente. Non avvertivo nessun modo colpevole di vivere un abbandono, il non esserci avrebbe dovuto rendermi inoffensivo forse, ed in realtà nel pieno dei miei viaggi cambiai nome alla solitudine in “libertà”, in quel frangente di colpa in cui fui relegato combattei contro demoni e bestie fameliche ed il bello era proprio l’intimità della lotta. Solo io sapevo il peso e la fatica che avevo affrontato fino all’ingresso in quel casello autostradale. Sentivo, mentre scalavo in terza per un restringimento di carreggiata, che il presente grondava dalle mie mani, non parlavo più al passato, pensavo unicamente al tesoro che avevo accantonato foriero dell’intero regno che avrei trovato. Era la prima volta in quarant’anni che percorrevo quelle strade. Giravo non troppo pratico della guida in una corsia di autostrada, prediligevo sempre le strade interne solo per vedere dove sarei sbucato. Il viaggio diretto lo avevo sempre snobbato in favore dei nodi di strade da sciogliere arrancando in seconda. Vinsi l’impressione di vastità che le quattro corsie offrivano quel giorno: “i confini” esclamai roboticamente, “sono quelli che definiamo tali, ed io non ne ho”. Nominai ad alta voce i ricordi, riuscendo a dargli un volto ed uno spessore ed in quel preciso istante, scomparvero. In fondo, la spirale grigia rotta dalle strisce bianche del cammino si faceva sempre più stretta e chiara ed iniziarono le gallerie. Ogni volta che entravo in una di quelle montagne o promontori forati mi trovavo in mezzo ad un dialogo bicolore, i chilometri come sogni che scorrevano. Le vere menzogne non sono nelle parole ma nelle situazioni, i veri padroni di un discorso sono le orecchie tappate di molti ascoltatori: le mie parole non avevano mai ucciso nessuno, volevano soltanto aiutare e presagire il futuro prossimo. Viaggiando notavo sempre più innocentemente che tutte le differenze tra il “dove ero” e il “dove sto andando” si stavano dileguando: tutto somigliava a tutto, ed il mittente divenne il destinatario e viceversa. Ero su un proiettile appena sparato e mi piaceva l’aria gelida che mi sferzava il viso: aprii il finestrino per fumare, una boccata a me ed una al vento che smuoveva e detergeva l’abitacolo. Era troppo tempo che assistevo ad una fiction, era giunto il momento di cambiare canale ed accelerai approfittando di un rettilineo. Passai a guardare una poesia e a viverci dentro assaporandone le sfumature: “quante cose mi ero perso sorvolando”. Il peso di vivere, pensai mentre deceleravo per andare a farmi un caffè in un autogrill, sta nelle costrizioni: tutte le scelte fatte e le situazioni vissute o che mi cucirono addosso avevano il proprio peso specifico che cominciava ad allontanarsi da me, ed io dimagrivo a vista d’occhio diventando più attraente e leggero. Mi stavo scrollando di dosso tutta la polvere che le parole avevano portato, stavo per scrivere un nuovo racconto e non volevo nessuno a disturbarmi. I segni che cercavo nella vita intorno a me erano presenti ma non erano i miei, non avevo forse mai lasciato nulla di tangibile eccetto qualche scarabocchio, ed anche questi servivano a giudicarmi e non a comprendermi; la conoscenza degli altri, “un caffè grazie”, passa senza frenare dalla comprensione di me stesso; tutto quel coacervo di fatti ed eventi che transitano, alla fine formano la nostra vita; non si appoggiano a delle leggi scritte, si tratta piuttosto di una strana architettura. Le impalcature si ergono nel vuoto, poggiandosi su basi non solide; l’intera costruzione è precaria in partenza, instabile e, nonostante questo inizio sbagliato alla fine la costruzione regge ad ogni sfida ed incomprensione: la potenza della convinzione è più resistente di un muro di cemento armato con lamine di ferro integrate. Da ammirare queste eccentriche singolarità e chi riesce a restare imperturbabile nello sbaglio, io non sarei in grado di ghettizzarmi dietro un vetro sapendo di aver sbagliato nel giudizio o nei pensieri: sarei invisibile. “Un bicchier d’acqua per favore”. Ero assetato. Comprai cioccolato, taralli e formaggio. Mi fermai a fumare avidamente fuori dall’autogrill, aveva cominciato a piovigginare e non si stava male; l’aria diversa rendeva il tabacco più vellutato e la mia bocca meno ricettiva. Aspiravo guardando il cielo che tentava di partecipare al dialogo interiore che intrapresi partendo da casa. Conversavamo pacificamente ed ascoltavo con interesse le ragioni del suo precipitarsi in terra senza forza; mi raccontava la sua giornata definendosi innamorato della linea di separazione tra lui ed il mare. Me lo indicò. Non lo avevo ancora visto nonostante fossi lì per lui. Mi suggerì di proseguire dritto per un paio di altre gallerie e girarmi verso sinistra e da lì a pochi chilometri avrei visto il suo amore in tutto il suo fascino eterno; “la sua condanna”, piagnucolava “è essere considerato un fenomeno vivente come animali in uno zoo”; ascoltavo attonito e con una faccia da scemo. Non ci avevo mai realmente pensato a come potessero sentirsi gli oceani. Piansi, ne accesi un’altra, la gettai, mi rimisi in macchina e partii più risoluto di prima, permettendo al tempo di ingannarmi ancora. La felicità non costa niente ecco perché un sorriso è vitale ed unico; qualunque sia il motivo della sua nascita, non dura molto, giusto il tempo di uscire allo scoperto sul volto. Tutto ciò che muore in realtà non sparisce per sempre, diventa strato e sedimento, putrefacendosi diviene concime per far attecchire cose nuove: un incontro di vite che segretamente si connettono; i sorrisi andati divengono terra smossa per accogliere i nuovi semi che giungeranno. Arrivavo all’indicazione che il cielo mi diede poco prima, il sollievo azzurro spuntava alla mia sinistra e mi accoglieva sorprendendomi. Ero su un cammino che mi avrebbe portato altrove; un cammino che mi conduceva lontano mentre il mare respirava tumultuoso a ridosso di una spiaggia chiusa per l’inverno. Ero rapito, estasiato da quello scorcio interrotto dal ritmo dei pali della luce. Puntavo i piedi sui pedali per farmi leva e guardare meglio. Passavo in corsia di soprasso solo per essergli più vicino, approfittai di un tratto di strada vuota per rallentare e godermi quell’assalto al cuore. In realtà amavo anche il rischio di andare piano su una corsia non dedicata: sovversivo amante di quella guerra, di quel contesto. La vita forse è troppo complicata per non desiderare un conflitto e far pulizia rinnovando tutto, dando una nuova identità, sbarazzandosi delle cose vecchie come a capodanno. Ritrovare il vero senso, cercando dentro, più a fondo chiedendosi solo a che serviva rischiare la stessa vita, quando ancora di essa non ne conosciamo il gusto, non ne vediamo il colore e la forma. Pensavo solo alle mancanze ed ai rischi corsi solo per sentirmi più vivo; appena rividi la linea del mare mi accorsi che se volevo davvero guardare bene una cosa avrei dovuto tenermi alla debita distanza. “Basta!” urlai svegliando i pensieri passeggeri seduti dietro. Compresi il valore della lontananza e del colore della mia anima: il nero che mi vestiva erano solo gli strati di tessuto che indossavo e, in realtà ero una piuma bianca e candida. Per tutti i sorrisi che donavo a chi nemmeno era degno di sapere della mia esistenza. Il coraggio dei vinti che si gettano disordinati all’attacco mi dava un senso di invincibilità. Se mi avessero sparato o tamponato buttandomi fuori strada ne sarei uscito illeso con tutta la macchina; questo era il senso del viaggio, questa era la reale motivazione per cui mi staccai dal marciapiede e mi librai scivolando su quella strada: il ritorno alla mia immortalità. Ripensavo, macinando uscite ed indicazioni, a tutte le parole e frasi appassionate che cercavo per sfiorare le persone, quando avrei dovuto chiedermi chi realmente mi aspettava arrivando a casa la sera. Avrei voluto sentire l’intimità anche da vestito, col viso sgualcito e gli occhi assopiti, puzzolente di sudore, far caso ai dettagli e a chi donarli al posto di offrirli a tutti; se avessi aperto gli occhi prima me ne sarei accorto di chi guardava ed accarezzava i miei punti deboli per il solo piacere di sbattermeli in faccia tradendomi in ogni situazione, puntando il mirino al posto giusto solo per il puro piacere di credersi vincitore. Chi ama vuole la felicità e non offre dolore. Il male andrebbe sempre combattuto, il dolore è negativo non per i lividi sulla pelle bensì per l’anima. “Ecco l’uscita giusta!”, scalai e misi la freccia a destra. Rallentavo in curva mentre guardavo un paesino dalle case colorate per essere riconosciute dai proprietari quando erano in mare, che bella soluzione avevano trovato: dipingere i muri per identificare dove tornare. Raggiunsi la sbarra del casello ed aprii il finestrino per sapere quanto pagare. Tutto automatizzato, non avevo incontrato anima viva dalla sera prima, pagai ed aspettai che qualcuno annunciasse mio arrivo. C’ero infine, sciolsi la cera dalle mie ali sgranchendomi al bordo della careggiata. Non sapevo dove guardare prima. Aria diversa, pulita e meno grigia. Dei nuvoloni arroganti mi aspettavano solo per piovermi addosso, ed anche questa volta il punto di vista era diverso: l’acqua che sarebbe scesa era per battezzarmi e santificare il mio arrivo, era un benvenuto nella loro terra. Avrei rispettato i loro modi ed usanze senza portare scompiglio con la musica alta. Abbassai il volume e l’anima nera si illuminò della luce di una piccola candela: quelle scalda bevande. Lo spettro era illuminato. Era giunto il momento di ritirare fuori le biglie colorate e giocare sulla sabbia. Non avvertivo la voglia di fumare ma quella di cucinare e mangiare fino l’indomani. Non ricordo neanche più da quanto non mi sedevo ad una vera tavola apparecchiata. Mi sembravano passati secoli da quando osservavo i disegni di una tovaglia, da quando chiedevo il bis sfregando le posate. Non bevevo in un bicchiere di vetro da troppo tempo. Si stava risvegliando tutto ad una velocità incredibile, restavo scioccato dalle visioni dei pranzi e cene; mi sfioravano il naso i ricordi del profumo del sugo e del pesce arrostito. Toast, che non mangiavo da mesi, pasta al forno della quale non sapevo nemmeno più la consistenza. Era ufficiale: stavo bene e mi sarei mangiato via pezzo dopo pezzo se non avessi trovato nulla. La prima tappa fu un supermercato per svaligiare di tutto e di più, una fame atavica si faceva strada dentro di me, sembrava venire da punti indefiniti: la assecondai e comprai buste di cibi. Dopo aver riposto tutto nel portapacchi mi appoggiai alla sbarra della casupola che teneva i carrelli per la spesa, la mia tuta bianca si inumidì senza infastidirmi. Nel parcheggio del centro commerciale annusavo il piacevole tanfo di fascine ed arbusti che venivano bruciati in un campo nei paraggi, qualche agricolo stava preparando la cenere da spargere sulle piante per proteggerle dal freddo che stava arrivando. Non mi infastidiva quell’atmosfera da villaggio piccolo e con le anime che si conoscevano per nome. Ero uno di loro per il solo fatto che mi muovevo con le loro movenze, sembravano tutti in vacanza anche se vestiti da riunione coi colleghi o pausa pranzo coi superiori. Sorrisi ad un nonno con una bambina che si guardava in giro, vestito alla meno peggio con la barba trascurata, ricambiò e si accese una sigaretta presa da un pacchetto morbido e mezzo scassato, insicuro sulle gambe curve di troppe stagioni passate. Ogni posto diverso da quello in cui stavo abitualmente era più alla mano e migliore. I volti più amichevoli e le persone più aperte e disponibili, forse era questo il motivo per cui avevo persone distanti? La lontananza non era spazio di sicurezza quindi ma una convinzione di trovare di meglio lontano da me. Le risposte si aprivano nel mio cuore e morivano sulle mie labbra. Ridevo! Non lo facevo da troppo tempo. Mostravo i denti per una cosa positiva e non serravo le mandibole, le mani lungo i fianchi e non in tasca, mi fermavo e non camminavo di fretta. Vedevo con i miei occhi che inconsciamente perdevo tempo, mi stavo riprendendo il mio spazio ed il mio tempo. Decisi di rallentare ulteriormente e togliere gli occhiali scuri che indossavo praticamente sempre e tutto apparve come realmente era: colorato e smagliante. Svanì la paura di vivere e vivermi. Il complotto era solo mentale: tirai lo sciacquone dopo averle usate, più si inabissavano e più mi sentivo libero. Tornavo a galla sempre più e la morsa che mi bloccava la gola si trasformò nella mia collana preferita: la libertà. Raggiunsi la casetta di cui avevo tanto sentito parlare circa mezz’ora dopo, restai colpito dalle strade larghe della cittadina. Passai su un ponte levatoio sospeso tra diverse regioni per giungere in un minuscolo castello a misura di autentiche emozioni. “Dipingere l’infinito? No dargli solo un nome”. La porta si apriva in maniera non convenzionale: la maniglia girata verso il basso per chiudere. Dopo il “clack” della chiave ancora inserita nella toppa, si portava in posizione orizzontale; per richiuderla il processo era inverso: ripristinando la posizione verticale la piccola blindata tornava a dormire silenziosa e tornava a far da guardia al minuscolo vaso da fiori che si trovava al pian terreno. Mi colpì immediatamente il quadro all’ingresso, alla sinistra della porta: raffigurava un losco figuro in impermeabile e cappellaccio in testa, il viso in ombra non permetteva di indovinare il motivo dell’andatura aggrottata. La cosa particolare del soggetto dipinto era la posizione in sui si trovava: nel centro preciso del quadro. Poggiava su un terreno non presente, come i disegni dei bimbi che non conoscono confini né regole della prospettiva. Stranamente quel singolo personaggio riempiva interamente la parete chiara. Di fronte al quadro rettangolare, alla destra della porta d’accesso, appoggiate ad una mensola ed infilate secondo criterio in un porta ombrelli c’erano diverse canne da pesca ben conservate in custodie nere, strumenti di svago e contemplazione dell’anima tra i galleggianti. Nessuna fotografia sul mobile ordinato del salottino. In quel buchino profumato c’era tutto l’occorrente per rifugiarsi: un punto di partenza per il futuro. Tanta attenzione per i dettagli ed accenni di memoria nei contenitori presenti nei cassetti, una scatoletta in particolar modo attirò la mia attenzione: una piccola cassetta di caramelle trasformata in porta strumenti del cucito. Ero rapito dalla finestra bassissima dalla quale uscivo non appena mi si presentava il motivo, alle volte nemmeno lo cercavo un motivo, uscivo e rientravo e basta. Subito sotto, tra il calorifero ed una panchetta con dei cuscini, si trovava un lettino comodissimo rivestito da un lenzuolo bianco, ho passato più tempo lì che nel letto matrimoniale. Aveva preso la forma di chi in estate si trovava addormentato per ore dopo il pranzo. In automatico quando salivo accovacciavo le gambe e appoggiavo il mento alle ginocchia. Il portacenere davanti e la schiena alle finestre coperte da tendine bianche. In quel componimento in versi rivedevo una nonna muoversi lesta e calcolata in ogni movimento che preparava il pranzo per i figli seduti al tavolo attaccato al muro. Quella casetta è proprio come un disegno o una pagina scritta, nascosta per essere scoperta: un quadro senza tempo né cornice. Uscii subito camminando lungo i lidi deserti. Avvertivo una vertigine guardando le onde tempestose al di là della sbarra consumata dalla salsedine e cominciai a fare fotografie poggiandomi sulle gambe intorpidite dal vento che si infilava negli spazi dei vestiti. Il rumore dei sassi smossi dai flutti e dalla pazzia del mare che ricopriva la rena umida. Un soffio d’aria mi stropicciò gli occhi e divenni cieco per un attimo, dovetti sedermi per allentare la rigidità della mia anima rapita dal ritmo dei marosi che si inseguivano ammutolendomi. Il buio scendeva pian piano divenendo tenebra, il sudore mi ricordava il disorientamento e la vita persa; sentivo delle voci lontane sussurrarmi di correre più forte che potevo. Non mi accorsi nemmeno che mentre ci pensavo allungavo il passo meravigliandomi di non rispettare la calma che mi imposi giungendo: come se dovessi raggiungere un punto preciso da qualche parte. Le mani strette a pugno attaccate al grembo, correvo in silenzio, piangendo: diedi la colpa al freddo ovviamente, non potevo ammettere a me stesso che mi stavo emozionando. Io, cieco fino a quel pomeriggio. Infermo, legato alla mia sedia scelsi di riprendere le ali appese al chiodo. Avevo improvvisato fino a quel momento! cercavo pace forzandomi di rimanere nei limiti che non avevo mai avuto prima. Senza limiti e libero: così nacqui e così tornavo ad essere, vorticando in quel vento e bruciando le pagine di passato che non mi apparteneva: mi servì solo a capire cosa non volevo. Riuscii a fare il respiro più lungo che conservavo dentro da mesi, svuotai il torace e persi anni di vecchiaia accumulata durante il cammino. Giunsi a casa e, dopo essermi sfregato i piedi sullo zerbino del condominio, non so perché, bussai alla porta. Un rumore rapido di piedi scalzi mi venne incontro ed aprì la porta. Lei se ne stava avvolta in due felpe, una mia rossa ed una sua nera con i pollici scoperti. La sigaretta bianca che pendeva dalle labbra ed un bicchiere nella mano sinistra. Teneva il telefono tra spalla ed il collo. Mi chiese senza voce di aspettare, tolse la sigaretta con le mani sinuose e mi diede un bacio con la testa ancora reclinata. Sorrideva invitandomi ad entrare. “Lo sapevo che c’era!” ridevo e mi sdraiai sul lettino aspettandola. Venne da me subito dopo infilando le mani ghiacciate nelle mie roventi, mi guardava mentre sorrideva a gambe incrociate. “Ciao, ho fame, quanta voglia hai di fare la pasta da uno a dieci?” Ridevo col cuore che usciva dalla bocca in tutta la sua forza: “undici! facciamo la pasta. Tu riposa intanto, ci penso io“.


Rosso

 

Non si parla volentieri della morte. Non facciamo mai foto ad un funerale è sconsiderato voler ricordare un momento tanto malinconico, tendiamo a voler concludere tutto molta fretta, senza guardare il corpo disteso sul pancaccio gelido; eppure io ricordo benissimo di quel momento, è impresso nelle mie sinapsi come se dovessi riviverlo incessantemente. Latravo fino lo sfinimento per farmi udire dagli invitati che accorrevano in fretta per saziare gli occhi e darmi gli estremi onori. Guardavano tutti verso il punto sbagliato: io mi trovavo nella fossa di sinistra e tutti gettavano manciate di terra e fiori in quella di destra. Sono morto bene, senza rumore. Semplicemente quel giorno mi svegliai presto, feci la barba e una lunga doccia bollente al buio, mi tirai a lucido, passai le creme con le mani piccole e lisce, mi immersi nel mio profumo e indossai i soliti stracci di sempre; rivestii le dita con gli anelli e adornai il collo di collane e catene, occhiali scuri e senza chiedere permesso morii, e nessuno seppe più nulla di me. Uscii come fu ogni giorno fino a quel momento della mia vita. Mi fu chiesto quanto alcol avessi in corpo quando decisi di fare quel carpiato dal balcone. Mi fu chiesto quanto tempo stetti fermo a pensare prima di allungare il passo e staccarmi dalla ringhiera; a cosa pensavo, quando cominciai a sentire il cuore cedere per l’infarto scandito dal panico del vuoto e dalla caduta. In molti mi chiesero come caddi. Nessuno mi chiese mai il perché! la favoletta del bisognoso depresso era stata usata per dar colpa al male moderno dell’indifferenza e perdonare tutti i colpevoli che conobbi in vita. Non fui io a gettarmi. Fui ucciso all’età di quarant’anni. Il mio assassino, tutt’ora a piede libero ed incensurato, decise di recidermi la carotide con un coltello sporco di pollo cotto al vapore mettendomi sul parapetto del balcone guardandomi mentre cedevo e mi squagliavo come un moccolo. Era un giorno freddo di marzo, mancavano solo pochi giorni ad aprile e alle giornate che si sarebbero allungate verso la primavera. Attendevo i cieli tersi e le nubi rosa da tutto il cattivo inverno; non pensavo ad altro! nelle mie cellule cerebrali guardavo i fiori che avrei esposto sul davanzale ed annusavo il basilico che avrei raccolto per fare il sugo. Sognavo albe tra calendule e rododendri, moschee tra la sabbia ustionata dei parchi gioco, ed invece, dove mi trovavo fino a qualche giorno fa le case avevano gli occhi che piangevano nelle finestre serrate dalle tapparelle. Il mio male incorporeo che passa in questa cicatrice: lo squarcio dell’autopsia; la porta aperta per entrarmi dentro e capire cosa successe a metà vita. Lo squarcio era ciò che mi lasciava questa vita di tangibile ed il resto: tutto via nei catini colorati suddivisi tra organi riutilizzabili e cibo per cani. Li guardavo mentre cercavano un feeling tra le movenze e gli attrezzi usati per il macello: le braccia coperte da guanti lunghissimi scalpitavano ordinatamente come fronde di betulla al vento ed intagliavano la cassa toracica ripiegando la cotenna all’esterno: come le scatolette dello sgombro. Dal terrazzino guardavo lo scorrere isterico delle auto sulla rampa di lancio della strada e la vita nel palazzo di fronte. Qualcuno stendeva i panni della notte ad un filo attaccato ai parapetti. In strada gli spazzini pulivano i resti del mercato del giovedì e giocavano a pallacanestro con i cavolfiori marci invenduti quando il mio sguardo addormentato cadde sulla banca di fronte. Appoggiato agiatamente ad un muretto imbrattato si trovava un mendicante vestito di rosso, sembrava una fiamma: incappucciato da una felpa che brillava sotto i raggi del sole velato del mattino, faceva ballonzolare un cappellino chiedendo l’elemosina alle persone che passavano. Si spostava ritmicamente da una gamba all’altra per scaldarsi ed osservava con un sorriso ghiacciato i passanti carichi di borse della spesa che tiravano dritto senza guardarlo. Mi vide d’un tratto, non so come ci incontrammo a distanza con lo sguardo e strizzando gli occhi mi accorsi che pronunciava qualcosa tra le labbra gesticolando il suo cestello delle offerte. “Vieni prendiamo un caffè, dammi solo 1 minuto vieni”. Attonito ed incredulo come il cieco che riacquisisce la vista seguivo i segni di ogni singolo evento interpretandolo come precursore di qualcosa. Si alzò il vento improvvisamente, quel vento che si risveglia adirato passando tra i faraglioni di qualche isola lontana prima del temporale, quel vento insolito mi fece quasi sussultare: una raffica ancestrale che trasportava polvere e foglie secche venute da qualche epoca lontana; mi chiusi ancora di più nel plaid arancione che usavo come coperta. Esisteva solo il rumore di quel fiato antico: una mitragliata; non si sentì più nulla improvvisamente, nemmeno il macello dei clacson: dileguati tutti. Era rimasto solo il muretto, lo straccione ed io appeso al palo che delimitava il balcone dal vuoto. “Finisco la sigaretta, mi vesto e mi avvio giù vediamo se ho capito bene, e gli porto una birra: facciamo la buona azione del giorno”. Mi preparai indolente e svogliato usando acqua ghiacciata e vestendomi a strati come una cipolla. Pulizia di memorie e reset. Inforcavo gli occhiali da sole e una scarpa dopo l’altra senza slacciarle. Deodorante, collutorio e pronti per il viaggio in discesa rigorosamente a piedi. Un gradino dopo l’altro, accendendo un’altra sigaretta raggiunsi il piano zero, avevo volato in realtà: stavo ancora infiammando la paglia quando arrivai sulla passatoia appena pulita dal portiere. Uscii in strada: vuota. Attraversai i binari: tram bloccati. Passai i due vialoni: semafori spenti. Salii sul marciapiede: libero. Non ci feci caso subito se non quando mi girai e incontrai un deserto urbano cristallizzato e, non fu bella la sensazione di vacuità che provai: mi sentivo un miserabile reietto che andava a cercare i resti dei carcami. Incerto, pensando solo ai passi che facevo giunsi dal “rosso”. Era ancora nella medesima posizione saltellante, l’unico sopravvissuto a quella calamità taciturna del primo mattino. Sorrideva ancora, e non si vedevano gli occhi: erano in ombra protetti dalla saracinesca del cappuccio. Mi guardava in qualche modo, sentivo lo sguardo che mi setacciava svelandomi a poco a poco. “Ciao” dissi imbarazzato, “ciao sei arrivato, mi hai sentito allora?” ero diventato un punto di domanda vestito di nero e per la prima volta non sapevo cosa rispondere. “Mi conosci? ma ce la fai?” chiesi un po’ ironico. “Ce la faccio da sempre bello, e tu ce la stai facendo? Apri le birre”. Passai da punto di domanda ad una silhouette di un punto esclamativo senza sapere come e quando fosse avvenuto, mi trovai al suo fianco con il mio cappello tra le mani a chiedere la carità mentre ci alcolizzavamo pacatamente. Sentivo la brezza alcolica che intorpidiva la mia lingua appena destata poche ore prima. La testa leggera, la razza storta e, sopra le nostre teste la luna effervescente nel cielo terso della notte. Forse erano passate mille ore dai due minuti prima o forse ero brillo e dondolante, ma era giunta la notte all’improvviso. Non avevo più riferimenti, non avevo più le mani, erano forse cadute per il forte freddo della giornata. Solo il cappello rimase con me, zeppo di centesimi e sigarette, tappi di bottiglia e un biglietto usato. Non so cosa avevo fatto e dove mi trovavo in quel momento, l’unica verità era l’altro disgraziato al mio fianco che ancora si muoveva tarantolato “balla la pizzica” pensai; “e no” tuonò il rosso, “se ballassi sarei felice, ma sto morendo e passo la vita da un piede all’altro; se mi fermo son finito”. Ecco, in quel preciso momento, mi arrivò una sberla in pieno volto. Si vede che ero giunto al posto sbagliato, prendendo la decisione sbagliata, nel momento più sbagliato che potevo. Il mondo era diventato un fantasma. Non mi rimaneva altro da fare che partire! Pensavo. Fui assalito dai ricordi con cui combattevo da giorni: ricordavo quando fra le onde indistruttibili del mare m’incamminavo di mattina, mi avviavo con gli occhi assonnati sulle collinette di conchiglie tagliandomi i piedi scalzi; girovagavo fra le immagini del mattino che facevano capolino tra i pensieri ancora socchiusi. I pensieri si libravano in volo leggeri come i soffioni sbuffati dai bambini al parchetto sotto casa ed io a quei soffioni affidai le note e i miei desideri, le lacrime di un pazzo che cercava le carezze. Non realizzavo nulla! E non capivo cosa dicevo, nenie ininterrotte. Guardai più sotto, l’aria di poco prima mi era tutto intorno, sibilavo e mi inchinavo, fluttuavo tra le pieghe azzurre delle nuvole. Udivo voci distinte e compassionevoli di spiriti arrabbiati. Scortesemente sfruttai il vento sparendo in alto, oltre le rovine dei templi e le caverne di ghiaccio: stavo volando e non avevo freddo, le mie mani erano ali bianche e lunghe ed avevo un piumaggio lucido e unto di grasso naturale: un gabbiano, ecco cos’ero ora. Un derelitto appena sveglio poche ora prima trasformato in un albatro, un grandioso uccello color del latte. Dopo un inverno perenne mi sembrava di aver preso il largo planando dai fondali pantanosi che riflettevano le nubi arancioni dell’alba, le ninfee sbirciavano curiose e le canne avvizzite si spostavano simili a fazzoletti senza forma smosse dal mio transito. “Quassù l’aria è disuguale” dicevo; una coltre di gelido indaco mi riempiva i polmoni ossidati dalle troppe chemio e sigarette, le nuvole esalavano il colore argento e pallido avorio e si riflettevano nei miei bulbi oculari che rimanevano aperti nonostante la velocità del volo. Avevo una sorta di patina oscurante: i miei occhiali da sole. Il gabbiano inopportuno si apprestava a volare via dalla noia dei morti di sonno, fuggendo sulle onde corpose e calde degli oceani. Via dal vuoto livido del sottobosco dove mi poggiai per infiniti mesi i miei vecchi piedi e gli ingranaggi dei miei organi ammorbati. Storpiando la velocità di curvatura e le congetture atomiche, sfuggendo agli ordini dei piedi piantati a terra, scivolando sulle stringhe cosmiche saltavo da un universo ad un altro; assaporando la velocità del mio riflesso proiettata centinaia di metri sotto di me, come una goccia d’acqua deformata mentre mi spingevo al limite delle leggi scritte: ed in un istante tutto scomparve e poi il buio. “Sveglia zio” mi pungolava col becco sporco di granchietti. Il Rosso! Una luna sbiadita presagiva la nuova giornata. “Sto male” ripetevo pulendomi sotto l’ala. Afferravo un mollusco col becco splendente. “Una storta paurosa Rosso, ho pensato di essere diventato un volatile”, una beccata alla zampa coperta di sabbia. “Sei un volante ora, la tua natura è riemersa, e sei diventato ciò che sei”. Svenni. E quando mi svegliai ore dopo mi trovavo su una scogliera. Vegliava su di me come un padre premuroso e cercava di spiegarmi cosa stesse succedendo in quel momento. Fuori si udivano saette inferocite e versi deformi. Comincia a piangere “ma che è successo? Io volevo prendere un caffè; ma che volatile e piumaggio, io avevo le mie scarpe sfondate con cui stavo così bene. Che sono ste unghie adunche, io mangiavo le unghie così di gusto”. “Stai sgattaiolando da questa morte atterrando nell’altrove dei tuoi disegni, devi solo respirare ora ed ascoltarmi”. E Rosso cominciò a parlare muovendosi ritmicamente da una zampa all’altra. Sapevo, immaginavo che al risveglio mi sarei sentito preda di un sentimento irreale, come Alice che attraversa lo specchio. Tempo fa il mare, indignato e sgomento un giorno sul finire di febbraio, senza preavviso se ne andò! si alzò dal suo letto con le sue ali di schiuma e si dileguò per sempre. Tutto smise di pulsare ed il suo respiro assordante smise di esistere. Nell’arco di una notte silenziosamente l’intera superficie, un tempo coperta dalle acque marine tornò visibile; nude e scoperte le isole sommerse fecero capolino con tutta la loro fauna di conchiglie e coralli, le alghe poliedriche e multicolore coprirono i cieli e le città volando come aquiloni. A perdita d’occhio si vedevano i cadaveri dei pesci esamini, straziati dagli uccelli e dai granchi giganti che combattevano tra di loro. Le dorsali marine si erano trasformate in montagne e colline pianeggianti sulle quali i bambini piazzavano le bandiere dei loro fortini di guerra. Gli oceani si rifugiarono sulla faccia in ombra del satellite, affaticati dando l’estremo saluto senza inchini né reverenze alla razza antropica, sicuri che non ne avrebbero mai sentito l’assenza. Era una tomba nauseabonda e sconfinata, la profondità delle Marianne si era trasformata in un strapiombo eterno: la più vasta depressione oceanica si spostò dal Pacifico alla mente sorpresa dei sopravvissuti, una popolazione di non morti sbiaditi vagava con le braccia penzoloni sulla sabbia riemersa. Anche se assenti, gli abissi presero il sopravvento e dettarono legge sulla terra ferma, cominciarono a comandare dapprima con la mancanza e subito dopo con la necessità del ritorno; il mare, tiranno e traditore troneggiava dall’alto dell’ombra della luna e si godeva lo scempio di quegli accampamenti di manchevoli superstiti. Il profumo di elicriso e salsedine nelle mattine di primavera era solo un ricordo, lì in fondo dove l’orizzonte incontrava il cielo si vedevano solo nubi ostili e torve cariche di elettricità.  Versi disumani incombevano con la rabbia sulle metropoli rinsecchite ed invecchiate; le rughe sulle facciate dei palazzi e delle ville germogliavano in poche ore in assenza dell’aria salubre del fu mare: stava invecchiando tutto velocemente cambiando volto incanutendosi. Cominciò tutto così: l’era dei mostri era arrivata ed una bufera incancrenì il mondo. Una cappa di demoralizzante e laconica disperazione si aggirava per le vie sbarrate del centro: posti di blocco e barricate ai vari quartieri spingevano i passanti ad uscire sempre meno e gli avventori della mondanità dovevano rifugiarsi ovunque senza distinzione né spocchia. Nascevano nuove forme di arte avanguardista e difensivista: meravigliosi cavalli di frisia formati dal legno contorto e levigato ritrovato a riva, avvolto dal filo spinato arrugginito e dai coralli taglienti, posizionati davanti ad ogni vetrina sfondata: questi manichini, con la strana bruma notturna prendevano le sembianze di ciclopici vecchi contorti. Il nuovo mondo sarebbe stato colonizzato da una nazione con squame e pinne taglienti come rasoi; gli uomini dovevano difendersi. Le caravelle di Colombo erano leggenda, i pesci volanti erano le vere sentinelle mandate avanti per ispezionare il territorio e tornare a riportare quanto visto. Ovunque si vedevano polpi enormi e crostacei dai carapaci mutati: si erano adattati a vivere sulla nuova terra ferma. Le creature mitologiche un tempo denominati “mostri marini” presero a comparire all’imbrunire e a lanciare i loro lamenti per tutta la notte quasi a voler devastare le ultime cellule intossicate degli umani; avevano un corpo fusiforme simile a quello dei cetacei, sicuramente in acqua sarebbero stati dotati del dono dell’idrodinamicità; gli arti anteriori erano mutati in rami di corallo diafano squamiformi; quelli posteriori erano assenti ed avevano sul dorso cimiteri di ossa aguzze a aculei ispidi come quello dei ricci giganti. Si reggevano in posizione eretta grazie all’equilibrio dato dalla pinna caudale notevolmente ingrossata e ricca di crateri dai quali uscivano piccoli sbuffi di fumo azzurro e denso come nelle macchine a vapore, a pensarci: si potevano trovare dei macchinisti al loro interno dediti ad alimentare le fiamme delle caldaie per il viaggio. C’erano lotte inaudite tra i ribelli umani e i signori marini: correvano scivolando per i colpi che si davano urtandosi, erano atomi impazziti eccitati da qualche cosa chiamata caos: palline di ferro nel flipper. Agitavano le baionette verso il cielo ululando alla morte che gli volteggiava sopra le teste, correvano senza fiato verso le trincee nemiche bestemmiando per la paura, sentendo i tamburi pulsare nel cervello, in molti piangevano rimpiangendo la virilità che li portò ad accorrere ai banchi di arruolamento forzato. Era una cerimonia pubblica: gli uomini attaccavano all’improvviso cercando di limitare le perdite. Osservavo quel delirio da un buchino a misura di uccello in cima ad un dirupo accidentato. Vittime, carnefici, gregari, mandanti che si strappavano la pelle presi dal batticuore e dagli attacchi delle chele giganti. Era il panico quotidiano. “Ma io che c’entro in tutto questo? dovevo essere tra i fuggiaschi non qui al sicuro, sereno e riparato, sai bene che non merito pietà”, e Rosso rispose con la più bella frase sentita in quel giorno “tu meriti, e pure tanto amico mio, devi continuare e provare ancora; senza date di scadenza ma con tanti fatti e poche parole”. “Sarai in salvo per il dopoguerra”. Mi sentivo comunque allo scoperto, eretto sul sentiero della demenza, alienato, osservando i mirini dei mitra sulle ombre infami degli essere deformi. Non avevo parole, non realizzavo il mio destino e la scelta. “Perché proprio io, stavo così bene io”. L’atmosfera stava caricandosi, lo sapevano le nuvole che fluttuavano nel cielo. E carica fu infine! morivano come burattini scagliati nel fuoco, colpi di mortaio che sibilavano tra i denti, nessuna scorciatoia per loro! Sotto il trono si riscoprirono tutte bestie, assassini che sfidavano i sorrisi spenti dei propri simili. Spartani del cielo. Molti non avevano sicuramente mai giocato alla guerra da bambini, non avevano avuto spade di legno né dita a pistola. Lo si vedeva da come si accanivano contro gli animaletti insulsi dalle dimensioni più piccole. Avevo una torre da lassù: la mia Babele; avevo una memoria per ricordare chi, prima di me fu sepolto e pensavo agli errori fatti e a cosa avrei potuto fare. Ed ora io, così disperato guardavo i morti che camminavano laggiù stando in salvo. Nessuno era realmente pronto a quello che stava succedendo! in ginocchio, tutti, sul palco degli impuri. Lo sguardo al cielo infiammato dai bombardamenti, avvelenato dal fumo aspro delle granate; in attesa dei bengala del pronti-partenza-via, infangati dalla terra dei loro loculi-trincee; fradici come pulcini in vendita il sabato mattina in una fattoria; avevano accanto un sacco di volti speranzosi di difendere una terra che neanche sapevano come si chiamava, attori-spettatori. Dopo che la testa dell’ultimo combattente cadde rotolando al suolo, un urlo corale tracimò dalle gole mostruose, ululavano alla libertà sbavando aizzati dalla vittoria schiacciante, avrebbero festeggiato quella notte alla disfatta dell’intero genere inferiore bipede. L’intero regno animale sfilava calpestando i resti delle carcasse, stormi di uccelli volavano in circolo fiondandosi sulle carni da maciullare e dividersi. “Io non sono così” pensavo “e non sono nemmeno degno” dicevo disperandomi. “Non c’entro”. Rosso si alterava e mi ripeteva che se continuavo a quel modo nulla sarebbe finito mai realmente. “Ti ripescai dal parapetto mentre guardavi dietro; e dietro non c’era nessuno” disse, “ti ho portato via donandoti ali di angelo, solo per viaggiare verso un futuro che non dovrai vedere mai”. Non capivo e lui continuava: “cambia prospettiva ed apri il cuore, agisci ti imploro, togliti questi pensieri, allontana gli spiriti negativi: perché qualcuno ti vuole vivo credimi, credici, ti vuole ancora vivo”. Non vale la pena contare i demoni per mettersi al riparo da loro, è giusto chiamarli col proprio nome per prenderne conoscenza e dargli il giusto spessore e posto; affondato nel buio che non è più notte ma frammento di sogno sulle ciglia, la calma ai confini dell’armonia, tutto il silenzio dell’intima disperazione: avvertivo una speranza, un desiderio forte e massiccio, il bisogno urgente di non sentirmi più in quel modo: inutile. Volevo un unico prodigio L’incontro tra noi stava per prendere corpo ed io piangevo senza accorgermene lacrime di sangue silenziose e dense; sporcavo il cuscino e lo bagnavo di tutti i perché e desideri espressi durante il non sonno di ogni non più notte passata a pensare. Non era solo la notte, era ogni giorno, ogni secondo, ogni respiro: il bisogno di sentire di nuovo la vita in me, vederla, abbracciarla e baciarla con ogni corpuscolo di me. Un lieve tepore investiva il mio umore come il muso di un gatto schiacciato contro il vetro del mio cuore; ero sereno mentre leggevo gli oroscopi e speravo in Venere e nelle parole buone che pronunciavano un ritorno a fine mese; diventavo sempre più sensibile, mi accorgevo di quante voci mi si rompevano in gola e non riuscivo a pronunciare. Forti! Lo eravamo sicuramente noi due per resistere a questo massacro e a questo isolamento tra una vita e l’altra; percosse dal sole, alcune lacrime scintillavano come gemme, decisi di fotografarle per non dimenticarle mai: da quel momento sarebbero state solo stille di gioia, di amore, di noi due vecchi all’ombra di una candela curiosi e persi nello sguardo di quel giorno su quella panchina di tanti anni prima. Militavo dalla veglia al sonno con il torpore che faceva scricchiolare le ossa delle ali: ero diventato una metafora! Osservavo le zampe che mi sorreggevano chiedendomi come potessero riuscire due scheletrici rametti arancioni a tenermi in posizione verticale? Livree su livree. Camminavo su degli aculei che non mi sforacchiavano minimamente, erano impiantati al posto giusto ed incredibilmente non stonavano nell’intero contesto. Sotto le enormi pale che si aprivano alle mie estremità, si trovavano ossicini friabili, buone forse da sgranocchiare con la maionese; una pala di tanto spessore e così importante per la mia postura e il mio dinamismo che si appoggiava ad un fascio di nervi della consistenza del formaggio spalmabile. Occhi piccoli completamente neri grandi come coriandoli che offrivano la visione a chilometri di distanza, tutto così precario e minuscolo eppure così essenziale ed imponente e ben riposto. Non sapevo bene che posto occupavo in quella stilla di tempo ed in questo strano mondo, l’unica certezza era il mare ed i miei pensieri. Non vedevo stelle cadenti da mesi eppure esprimevo desideri costanti ad ogni respiro, l’unica stella che mi sovrastava era un astro crescente che mi indicava il cammino e la rotta da seguire senza porte chiuse. Mi sentivo inaspettatamente leggero e non era follia; vigoroso e non era imprudenza. Guardavo e sorvolavo i miei confini senza oltrepassarli, mutai in poche ore da criceto che gira sulla ruota ad essere vivo. “Mi guidava il cuore” realizzai, e tutto si allineava. Chi mi aveva guidato fino a quel momento? I pensieri, la testa e i compartimenti stagni. Non si torna più indietro! Una voglia irrefrenabile di scoperchiare il vaso e sviscerare tutti i mali per guardare la speranza galleggiare sul fondo e non richiuderlo più. Rinascevo in silenzio nella consapevolezza di tutto ciò che divenni nel giro di un week end, la cognizione di ciò che mi circondava e di me stesso. Il giudizio su tutto era solo deleterio, pigolavo: sarei stato libero e avrei cominciato a volare davvero. Ero un gabbiano per quel motivo, una bolla di sapone che non scoppiava ma sfruttava la brezza del vento colorato per spostarsi nella direzione giusta: la mia. Attendevo, ogni tanto indugiando ma subito mi raddrizzavo ed alzavo lo sguardo verso il titano attuando i precetti del cuore. Posto ai primordi della mia stessa esistenza, colmando pagine di limiti che mi avrebbero reso libero dagli sbarramenti, uscendo dal Tartaro guardando il centro della terra e le sue voragini di lava nera e di pece staccarsi dalla mia ombra in volo. Ricoprii infinità di forme, ricordai di quando fui un’alabarda luccicante, una lacrima di pioggia e la più distante delle stelle che si potesse scorgere in una notte tempestosa e coperta. Fui barca e mare, fui spada tra le mani di un passante e scudo in battaglie dei sogni; fui una nuvola che mutava consistenza. Mutevole. La mia muta dalla vecchia pelle, la scorza, la corazza, il carapace irsuto che pian piano lasciavano spazio ad un manto di seta blu: i brividi nel sentirlo muovere sul derma tiepido della notte passata. Eccomi! Sono giunto. La cenere della sigaretta mi bruciò le dita ingiallite. Mi risvegliai quella mattina in cui avvistai il mendicante colorato. Capii, realizzai: mi ero ucciso da solo, nessun assassino da cercare, nessun titolo ai telegiornali. Causa di ogni vicissitudine, soluzione di ogni male! Dimentico di ogni cosa passata concentrato sul presente ansioso del futuro. Il perdono allarga il futuro. L’amore dura per sempre. Sconfitti i mostri, armato di desideri e speranze mai estinte. Tenermi a distanza solo per tenere a distanza sé stessi; il chiodo che scaccia chiodo è solo falsità: il secondo ficca più in profondità il primo. L’occhio che non vede non prepara il cuore a non star male: gli occhi chiusi la notte, nel silenzio di una stanza, che continuano a muoversi convulsamente sotto le palpebre maledicendo i pensieri ed i ricordi; implorando una libertà che non verrà mai: questa è la verità. Nel cuore, sempre in lui, vive tutto in eterno. Struggersi e liquefarsi guardando l’orologio che segna un’altra alba di un nuovo giorno madido: le ore insonni disturbate dal rumore di petali che cadono sul pavimento. I sogni ostacolati, i piedi che non trovano pace se non appoggiati alle labbra. Una curva in un rettilineo che svelerà una prospettiva migliore, un panorama indimenticabile da fotografare; la difficoltà di accompagnare lo sterzo nel tragitto e la mano poggiata sul cambio per scalare. La mano, la sua, poggiata, sulla mia. “Basta” dissi con la voce rinvigorita, “vado a riprendermi le ali”. Resettato l’hard disk del cervello, eliminati milioni di parole che occupavano quasi tutto. Presi un treno all’improvviso e me ne andai. Ci pensiamo e ci materializziamo.


Promessa

 

Dario fluttuando sul lettone, divenne immediatamente serio; si girò verso la sua unica certezza guardandola dal basso all’alto allungando la mano paffutella e scompigliandole i capelli: “dov’è la nonna, mamma? Perché è andata via così senza avvisarmi? Dov’è il nonno? forse non stavano bene qui con noi?”. La mamma con le gambe accavallate, concentrata in una conversazione di whatsapp mollò gli ormeggi! Lo guardò attonita sapendo che non sapeva né poteva rispondere. Fece affidamento a tutte le buone parole, scegliendo tra i toni più dolci che poteva inspirò profondamente, gli poggiò una mano sulla testa accarezzandolo lievemente trattenendo a stento le parolacce che avrebbe voluto urlare al destino troppo veloce ed incoerente. Avrebbe voluto dirgli che quel maledetto male fece appena una comparsa sul corpo della sua eroina imperturbabile e onnipresente, scegliendola tra tante persone e che, come inseparabili, il padre l’avrebbe seguita da lì a poco lasciandoli orfani nell’universo. Sciolse un solo nodo quella mamma, ingoiando un fiotto di acidità della misera cena, lasciò cadere una gamba dal letto, penzoloni cercando il terreno per fermare il giramento della stanza che salì improvviso come ad un ubriaco. Si pettinò la voce condendola di miele e lecca-lecca all’arancia, scartò un ovetto di cioccolato cercando la sorpresa e rispose: “gli angeli avevano bisogno di una donna allegra che li facesse ridere e gli parlasse in siciliano! Voleva una calla bianca accanto a sé; il nonno non ce la faceva ad aspettare il suo ritorno e quindi un giorno andò via senza dir nulla, amore mio.” Il puntino di domanda che comparve sul bimbo Dario la bloccò all’istante. “Mamma perché non hanno portato il cellulare? Potevamo parlare ancora un pochino insieme, lo hanno lasciato qui sul tavolo, io non capisco”; cinque anni di vita che smaliziatamente e candidamente ponevano il quesito più grande dell’universo: scompariamo tutti, invecchiamo è l’unica certezza e ce ne andiamo facendo sorridere qualcuno e gettando nelle tenebre chi resta. “Moriamo tutti mamma? Anche tu?”, trovò solo silenzio: la coltre di presenza e forza della madre si schiacciò sempre più sul cuscino sformato. Avrebbe voluto girarsi ed ululare a tutti il suo dolore, avrebbe svegliato il silenzio del sonno degli altri piangendo come mai prima d’ora, scarnificandosi il cuore per riavere la sua mamma con sé almeno un secondo, per un abbraccio ed un bacio rapido, avrebbe anche accettato i suoi nomignoli che tanto odiava, basta che si fosse presentata in quel momento preciso, nell’inaspettato, in quel dialogo, da uno specchio, sullo schermo della tv, cerebralmente. “Tutti, piccoletto anche io sai”, avrebbe voluto sprofondare in quel momento “ma che sto dicendo?” tuonava dentro sé “no io me ne devo andare” si ripeteva. Dario si mise a sedere a gambe incrociate in quell’attimo di domande e rivelazioni. “Mamma tu non puoi, io sono ancora piccolo come faccio? Sei la mia mamma preferita”, aveva un’ampia scelta di madri! E la mamma si rintanò ancora di più nella rete dei suoi pensieri; sentiva le zampette dei ragni che le solleticavano lo stomaco vuoto e salivano infiammandole le gote e attanagliandole la gola. Una morsa di mani sudate le imperlò la fronte di sudore che colava copioso sugli occhi bui. “Non avverrà presto Dariuzzo mio, ci sarò sempre io con te non ti spaventare”! Dario si era assopito sereno: la mamma non lo avrebbe mai abbandonato, per sempre per quanto dura il mai, per quanto dura il sempre. Spense la tv con un gesto meccanico: dito indice in alto a sinistra e i bagliori smisero di scoprirla: era al riparo ora, sicura di non essere vista da nessuno, nemmeno da sua madre che quella sera guardava la sua ombra allungarsi alla luce dei lampioni di Palermo. Qualcosa dentro aveva mutato pelle, avrebbe difeso il suo sangue coi denti appena riparati, avrebbe speso stipendi di sei ore in un call center solo per un mini sorriso, avrebbe continuato a cucinare l’intero universo per nutrirlo e vederlo tronfio e sazio dei suoi sacrifici. Pianse, perché lei piangeva la notte ricordando di quando stava mano nella mano in mezzo ai suoi genitori a Franca e Toti. Parlava di mancanza e di quanto il tempo passa irrecuperabile infrangendosi sugli scogli delle occasioni perse. Odiava perdere tempo e non si spiegava come non si riuscisse a perdonare un passato a favore della gioia di un solo istante di presente. Singhiozzava sommessamente perché non voleva scuotere il suo bambino al suo fianco: non era una ninna nanna era dolore che usciva e si materializzava in movimenti che nessuno mai avrebbe saputo. Lo guardava illuminandolo col cellulare per vedere se respirava, osservava i rumori delle labbra che si contraevano scappando forse dal lupo cattivo della notte, sorrideva a tratti facendo “sì” con la testa: qualcosa di buono aveva fatto, una delle sue tre migliori realizzazioni era lì vicino, infilando i piedini scalzi sotto le sue gambe. Una mano sul petto ed una fuori dalle coperte che sapientemente e con la morbidezza di un bombolone alla crema ricopriva svelta. Proteggeva il suo futuro, preparava il suo cammino, stringeva il suo uomo. Amava il non rumore di quella casa la notte; poche ore prima aveva litigavo a tavola per il gusto delle acciughe nella pasta; seduta dal suo posto si limitava a guardarli di nascosto ingrassando il suo cuore senza mangiare: era così orgogliosa. Tutto ciò che importava era ai punti cardinali del tavolino della cucina, con i gomiti poggiati e la faccia nel piatto, adorava letteralmente vederli mangiare: non esisteva più niente in quel momento per lei, solo tre stelle impiastricciate di sugo per la pasta e la tovaglia sporca di forchette poggiate maldestramente. Ed anche sua mamma era fiera di lei, suo padre avrebbe letto un libro ingiallito gettando ogni tanto una voce al gruppetto alla sua sinistra. Ci stava riuscendo: era mamma da un po’ e certezza del branco. Aveva modificato le password dei suoi sistemi con i nomi dei suoi figli, la sua vita costellata da buchi curiosi che la accompagnavo in ogni singolo movimento all’interno dei metri quadri della sua casa che agghindava a festa per ogni singola cosa: una visita era una festa, un dolcetto era un tripudio. Mai sola. Quando stendeva i panni respirava avidamente il silenzio in cui si alzava per preparare ogni singola cosa: la caffettiera per il suo uomo e il latte per i cuccioli. Apparecchiava minuziosamente sistemando ogni oggetto sul desco vicino la porta del terrazzino. Faceva tutto con infinita attenzione, maniaca che la giornata iniziasse con ogni cosa al suo posto: voleva il controllo su tutto ciò che apparentemente sembrava trasandato; voleva che tutti fossero pronti ad affrontare i fatti che la vita gli offriva senza sconti appena varcata la soglia di casa loro. Mamma, signora, vita, cuoca, contabile e ragioniere; imbianchina a volte e idraulica improvvisata. Provava con tutte le forze a sistemare l’esistenza degli altri, avrebbe poi molto poi, guardato e sistemato la sua, sempre di notte sempre celata: un due tre stella ti ho visto. Tana per tutti quelli fuori posto ma i suoi figli mai. Ogni singolo giorno, assaporava l’aria che anni prima fu di Franca, appoggiandosi al muro dove apriva lo stendibiancheria perennemente inondato dagli abiti lavati e tirati a nuovo. Uno sguardo alle scarpe in processione, in attesa sempre della mano sulla spalla che non arrivava ancora. Si chiedeva che facessero quelli della casa di fronte e dei piani di sotto. Pensava agli attimi fugaci delle notti di passione ed alle sfortune del fratello. Tutto scritto, solo da leggere in quella tempesta di realtà che in ogni singolo istante la sbatteva a terra e la risollevava con leggiadria. In preda della testa che rimuginava sempre e continuamente senza tregua. “L’amore alla sua età è diverso meno effimero e più presente” si diceva tutte le volte che guardava il suo amore sdraiarsi sul divano. Combatteva le rivolte in casa, le lacrime e qualche parolaccia tra i denti da sistemare con una palettata in pieno volto: la paletta per tagliare gli anelletti al forno era la delizia ed il tormento di quei corpi. “Vi scanno” sibilava ed il tumulto cessava, il mondo proseguiva indiscreto fuori dai vetri come la vita forse. Dario stava a braccia conserte sul divano in un sabato di sole appena cominciato. Vestito a festa con la camicia bianca che sarebbe diventata a chiazze nel giro di una festa di compleanno; aveva passato la serata precedente e parte della notte a ritagliare cuoricini rossi da appiccicare ad un biglietto di auguri. La scrittura incerta ed i bordi non rispettati, tipici della testa e cuore ancora liberi, erano contornati da una scritta sospesa di auguri per un milione di giorni simili a quelli. Al suo fianco il fratello in pigiama sconfiggeva il mostro di fine livello mentre si scambiava foto con un amico del nord. Tutti legati da un filo trasparente. Fili indissolubili, catene impalpabili fatte di ferro, vitamine e desideri. Ci si aggrappava a quegli anelli come acrobati in un circo, sospesi in aria durante i volteggi, la rete di sicurezza molto più sotto a sorreggere gli errori e cullarli dondolando di fronte le urla sgomente degli spettatori. La precisione millimetrica dei funamboli che si guardavano scavandosi dentro, sezionando la paura e affidando la propria vita alle mani del compagno: tutto in bilico poggiato solo sulla fiducia. Iniziava a stancarsi il piccoletto, era pronto dalla mattina e aspettava il momento fatidico per alzarsi in piedi e correre per le scale del palazzo. Non c’era segnale di pioggia in cielo, nessuna nube all’orizzonte, tutto era connesso e perfetto: tutti on line con il destino. Gli abiti stirati e riposti nei cassetti e la lavatrice stesa al sole: profumo di pulito. Il sugo sobbolliva ed ogni cosa era pronta, si avvertiva la sicurezza ed il tepore del nido appena costruito, niente veleni né conservanti solo roba genuina e certificata. Quanto ci teneva a quella festa, non se la sarebbe persa per nulla al mondo. Aveva disegnato la sua principessa con le dimensioni di una roccia accanto ad un granello di sabbia; per intagliare quei segni aveva scelto il supporto più sicuro nel suo mondo: il lettone della notte prima. Facendo attenzione ad evitare le urla della mamma che si raccomandava di non sciupare né sporcare le lenzuola, tracciava con diligenza ed esattezza i contorni tirando fuori inconsciamente la lingua per concentrarsi. Si disegnò molto più piccolo rispetto alla sua amichetta, ma ben vestito: aveva scelto un abito fatto di pennarelli neri con i capelli lucidi e con il gel per tenerli sistemati, scarpe della festa ed ali per volare. Colori vivi e ben accostati dal suo cuoricino. Continuava distrattamente a buttare uno sguardo verso la mamma che perdeva tempo passando e ripassando lo straccio sul pulito. Ogni tanto ansimava sempre compostamente senza mai mostrare stanchezza. Sarebbe stata una giornata di cui parlare per tutta la notte come di solito faceva lui: bisognava prestare attenzione ad ogni dettaglio e rivivere le cose belle passate. Bagnetto, cena e due o tre ore di bla bla incessante da scombinare il cervello di chi si trovava nei paraggi. Prendeva alla larga prima di iniziare: partiva dagli uomini primitivi per finire ai pacchetti dei regali scartati, passando per i faraoni arrivando ai bacini che la bimba innamorata le strappava nascosta sotto lo scivolo; e lui restava ben vestito con le gote infiammate e il petto che ballava. “Chissà perché fa così?” si sarebbe chiesto, “e chissà perché non riesco a farne a meno” si sarebbe risposto. Avrebbe fatto la lista degli sguardi ricevuti e avrebbe passato la mano tra i capelli almeno un paio d’ore in quel giorno, doveva essere perfetto per la sua piccola lei. Si tolse le scarpe, voleva muovere le dita prima di chiuderle nelle calzette bianche con i coniglietti. Dritto e serio accanto al poggiolo evitava di ascoltare lo scavezzacollo di suo fratello che cresceva orizzontalmente sul sofà e lo prendeva in giro. Afferrò il sacchetto bianco con il regalino e con passo deciso si allontanò tentando di afferrare i capelli del fratello che rise convulsamente attirando le occhiatacce della madre che, nascosta dietro la parvenza di assenza, assistette a tutta la sceneggiata trattenendo gli sghignazzi. Scesero in strada con passo lento, avrebbero solo attraversato due vie e sarebbero arrivati all’evento mondano del giorno: Dario a passo spedito giocherellando con la busta e, la madre più indietro con una andatura affettata lo inquadrava con lo schermo del telefono fotografandolo. Assumeva un’aria diversa quel giorno: quel breve tragitto svelava un figlio sicuro nella sua infantile titubanza, eppure, nonostante inciampasse nelle stringhe che si era allacciato in malo modo si atteggiava già come uno sicuro di sé che marcia per le sue strade ed il suo quartiere. Mentalmente contava i passi fino dove riusciva e studiava tutti i particolari che vedeva fino alla sua stessa altezza; alle volte ispezionava il cielo sopra il semaforo ed altre volte si chinava per esaminare più da vicino la carta colorata di una caramella gettata via. Appena giunti, Dario prese ad avvicinarsi alla madre, tutto il coraggio svanì e la lingua divenne di pezza, sudava a meraviglia pur essendo all’ombra; non osava staccarsi da lei che salutava uno dopo l’altro i presenti ed a mente li sfotteva tutti! Squadrava senza interesse visibile tutti quanti e cercava un punto dove sedersi il più distante dal banchetto: la dieta. Una volta entrato nel raggio visivo della sua amichetta, Dario fu attratto da quella colombella bionda che al ritmo di hip hop avanzava caotica ed ammaliata verso di lui: incontro solenne e apparizioni in pubblico, bacini, abbracci, sguardi. Era fatta: Dario conquistato ed ora il mondo insieme. Seduta scomodamente ed interrotta da visite di cortesia degli altri genitori, scrutava diligentemente lo sposino già mezzo spogliato: la camicia non più camicia sgualcita e fuori dai pantaloni, la zip mezza aperta e le orecchie rossissime. ”Che farebbe il cuore ?” si chiedeva, “che dovrei fare veramente?” era forse il caso di sfondarsi la cassa toracica e tirarlo fuori finalmente? Per troppi anni aveva sigillato il muscolo pulsante dentro sé e solo ora sentiva una leggera ansia nel non ricordare dove avesse riposto le chiavi d’ingresso. “Che sia un segno” si diceva a bassa voce, non sapeva più che pensare: le domande della notte precedente l’avevano impressionata ed ora non sapeva più da che parte planare. Di sicuro aveva iniziato a staccarsi da terra come i disegni del figlio ed altrettanto sicuramente non se ne rendeva conto. Non era il caso di aprire proprio nulla, meglio restare scomodamente seduti sul trono delle certezze mentali. Non è ancora il momento, e dietro i sorrisi nascondeva momenti a cui non voleva pensare. Riusciva ad usare la pelle nel modo più intuitivo possibile, e mai sbagliando una virgola. Dario improvvisava un balletto fuori tempo mostrando le piume più soffici e variopinte, lei lo fotografa, la memoria esaurita del telefono e lei conservava quegli attimi dentro sé nell’hard disk emotivo della sua anima; e poi successe! Inaspettatamente se la trovò davanti. Vestita di fiori variopinti con le stesse scarpe nere di quando se ne andò, con le calze velate e l’acconciatura perfetta. Il trucco immutato. Vedeva i movimenti rallentati della sua sagoma che lasciavano auree di luce frammentate mentre avanzava senza sfiorare gli altri; il ritmo lento e delicato dei passi, il rumore di quando trascinava le ciabatte, il profumo di pasta e foglie sulle mani. Inaspettatamente se la trovò davanti. Bella come il mare e profonda come il cielo, una stella con in mano una calla bianca, una calla con in mano una calla, la collana illuminata dal sole, le unghie corte e le mani curate e soffici, bianche profumate di sapone. Si faceva strada sempre più rallentando verso la figlia, non esistevano altre che loro due in quell’istante: tutti spariti, disciolti, nascosti, bloccati. Lei e sua madre, le mamme l’una di fronte l’altra, due onde dello stesso oceano ad infrangere gli scogli ed adornare l’aria di schiuma densa. In quel macello di tarda primavera, la mano che cercava la mattina di ogni singolo giorno le accarezzava finalmente il viso. Teneva gli occhi spalancati per non perdere un momento di quel miracolo. Riannusava dopo troppo tempo la pelle di sua Franca e sentiva il sangue bollire dentro urlando ed ululando di gioia. La bocca spalancata e le mani lungo i fianchi, il bicchiere di acqua fredda completamente versato sui jeans sotto le risa di sua mamma che in silenzio le chiedeva che stesse combinando. La fede di nozze e dell’anniversario che anni prima le aveva spedito dall’estero si trovava ancora al suo posto: l’amore era al suo dito; i giorni passati svaniti. Fece per alzarsi ma due mani da dietro le cingevano le spalle coperte dalla maglietta: odore di libri e di pesce ai ferri la pervasero facendola sbigottire, girò solo gli occhi da parte a parte e vide il colore scuro della coppola e il riflesso degli occhi stanchi non più stanchi dietro le lenti spesse degli occhiali di suo papà Toti. Parlavano pacatamente una lingua che solo loro tre potevano comprendere. Non si muovevano ma fecero il giro dell’universo in pochi istanti.  Non più sola, non più chiusa, non più con la coscienza che penetrava dura nella coscienza di sé. Non aveva avuto abbastanza compassione per sotterrare tutti in un baratro senza fondo, preferì chiudere solo il suo cuore per liberarsi dalla sabbia in cui nuotava. Pianse dopo anni di silenzio, versò il male di quelle clessidre che girava senza fine, rinunciando a ciò che desiderava solo per continuare a desiderarlo e sperare; succube dell’unico punto di vista che tollerava: il suo. Una grattugia a stimolare il tessuto nervoso dei ricordi, una scarica elettrica. Una scarica elettrica: sfregamento di elettrodi, positivo e negativo che provocano tuoni e lampi, una scarica dopo l’altra. “Libera! Torna qua! Libera, la stiamo perdendo, aumenta il voltaggio. Libera”. La linea della vita sobbalzò e lei emise un urlo che stordì l’intero reparto. “Libera. Ora lo sono” e girandosi vide Dario che dilatava gli occhi gridando “mammaaaaaa mammaaaaa hai mantenuto la parola, non saresti morta, me lo avevi promesso, non morirai mai”. Da dietro i vetri Franca e Toti si diedero la mano prima di sparire, e lei sentì il cuore batterle in petto. Libera con il suo bambino tra le braccia ed il cuore che funzionava ancora.