Gregorio Febbo - Poesie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione su “CHIARA D’ASSISI. ELOGIO DELLA DISOBBEDIENZA”.

A cura di Gregorio Febbo.

Oggi, dopo tanta indecisione, ho deciso di proporre, cercando di invitare alla lettura quanti più possibile, un altro capolavoro (questa volta della letteratura contemporanea).
Il capolavoro di cui vorrei parlare è “Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza” che ha come cuore autorale la pena di una grande della letteratura moderna: Dacia Mariani. Prima di provare ad affrontare il tema del romanzo sopra citato, dedicherò qualche rigo anche alla sua autrice. Dacia Maraini è una scrittrice, poetessa, drammaturga (qui, molte le Sue opere) e sceneggiatrice italiana (anche qui, molte le Sue opere rappresentate). L’opera scritturale della Maraini abbraccia appieno lo sperimentalismo (oltre a Dacia, tra i suoi autori possiamo citare Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Dino Buzzati, Umberto Eco e molti altri ancora), nato, quest’ultimo, con lo sfiorire del neorealismo. Dacia Maraini esordisce nella letteratura con il romanzo “La vacanza” che, edito nel 1962, sarà il primo di una lunga serie di opere plasmate sulle onde emozionali della stessa Maraini. La nostra autrice, nello scrivere, ci mette di fronte ad una consapevolezza umana che non va mai oltre, ma rimane esempio di versatilità e, a volte, contraddizioni.
Bene, a scrittura di ciò, cercherò (scegliendo le parole “giuste” con le pinze) di entrare in “Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza”.
Con questa opera scritturale, la Maraini, ci offre un romanzo, dapprima epistolare, poi, in forma di diario, che cerca di scavare in verità anguste di una vita che, della sofferenza (la sua sofferenza), ne ha fatto modello di verità, di obbedienza, di disobbedienza, di vita: Chiara, la santa di Assisi.
In “Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza”, Dacia ci offre una ragazza diversa dallo standard medievale (periodo storico che abbraccia circa mille anni di vissuto. Il medioevo trova il suo avvio con la morte dell’imperatore romano Teodosio avvenuta del 395 e si conclude con la scoperta dell’America da parte di Cristofono Colombo nel 1492) in quanto ribelle alle convenzioni dell’epoca. La Chiara offertaci dalla Maraini è una donna storica che fa della disobbedienza ai genitori, l’elogio all’obbedienza (e qui, la penna scrittrice, ci dà uno spunto non indifferente su cui poter riflettere. Già perché, attraverso lo disobbedienza che diventa obbedienza, ci pone dinanzi alla “facoltà di scegliere senza ledere”). La Chiara storica, disobbedisce ai genitori quando decide di entrare in convento (scelta, quest’ultima, dettata dall’ammirazione verso un stile povero, libero, del quale Francesco ne era a capo contro tutti) per la contemplazione a Dio, quindi all’obbedienza.
“Chiara di Assisi. Elogio alla disobbedienza” ci regala l’obbedienza come la carnefice di sé stessi. Difatti, Chiara, pur di obbedire all’Amato (condizione dettata dalla volontà propria), si rende autrice di atti estremi (quali il digiuno, la reclusione volontaria, il coprirsi solo con della pelle di porco) verso se stessa: disobbedienza (intesa come il logoramento dei propri corpo e anima).
La Maraini, con questo romanzo (scritto dopo l’interazione con una giovane siciliana: da qui la scelta dell’autrice di partire sotto forma di epistola), ci dà la realizzazione concreta che non sempre bisogna sottostare (obbedire, disobbedendo a se stessi) per realizzare desideri non propri. In conclusione, in “Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza”, ritroveremo una Chiara storica divenuta, poi, Santa grazie all’elogio alla disobbedienza verso regole non conformi al suo modo d’intendere l’amore (amore quest’ultimo che le chiede troppo, tutto. Le chiede la rinuncia a stessa).
E ora, con la contraddizione tra obbedienza e disobbedienza che possono dare vita ad un circolo vizioso, inviterei quanti più possibile all’ aprire i propri orizzonti ed abbracciare uno scritto che, più che opera, è capolavoro. Buona lettura.

 

 

 

Recensione su “LA SFIDA DEL VIAGGIO”

A cura di Gregorio Febbo.

Oggi, dopo aver letto questo libro, come sono solito fare, voglio argomentare, quanto più possibile, quelle che sono state le mie emozioni nella lettura (le mie emozioni, quindi questa non è una recensione, che lascio fare ai critici letterari, ma semplice esplicazione emotiva: la mia (molto soggettiva).
Parto con il fare una nota di apprezzamento e gratitudine all’autrice (Emanuela Da Ros) di “La sfida del viaggio”, perché, senza troppi arzigogolamenti lessicali, è riuscita a porre i lettori dinanzi a uno scenario emotivo che non si accontenta mai, anzi va oltre il confine di ogni stato d’immaginazione e porta i primi (i lettori) dentro un turbine di voli pindarici, a tratti psichedelici, che scavano dentro e trovano dimora nell’intimo razionale, che per immaginazione diventa irrazionale, di ogni cuore che sogna immaginando e concretizza viaggiando, e fisicamente, e con la mente: nomadi mai vagabondi, stabili mai troppo ancorati. Inoltre la “nostra” Autrice non solo ci regala un viaggio d’immaginazione diretta, ma ci offre un filo diretto con le paure, le certezze, le speranze, la voglia di fare, la forza di ricominciare, il “meglio” della sofferza, la ribellione, la lotta interiore, la tenacia di una grande, la più grande per ora, viaggiatrice di tutti i tempi: Freya Stark.
Devo ammettere che fino a poco tempo fa, di Freya Stark, ne conoscevo l’esistenza, ma non mi ero mai incuriosito molto a lei (la consideravo la solita viaggiatrice agiata che, per un X motivo, era riuscita a farsi strada nei cuori della gente; mi sbagliavo, peccavo di presunzione e poco sapere) fino a quando non ho letto “La sfida del viaggio”. Testo, quest’ultimo, che ci dà la possibilità, scavando nel deserto che abbaiano dentro, di innamorarci di Freya prima come donna, poi, come essere umano. Abbiamo la possibilità di innamorarcene come donna quindi come essere umano, perché Freya diceva che il fine ultimo del viaggio è “l’incontro della natura umana”; ecco, da queste parole esce tutta la magnificenza del suo essere donna/essere umano. Già, perché Lei è andata oltre i cromosomi, oltre il dolore che le cicatrizzò in testa (motivo per il quale portava sempre una cuffietta in testa) quand’era poco meno che una ragazzina, oltre l’astio con la madre, oltre le buone maniere (buone solo per chi è convinto di voler sposare dei prototipi ugualistici, ma dannatamente ipocriti: usi e costumi fatti a misura per non permettere ai più carismatici di vivere, e vivere sereni). Freya è andata, pur di vivere vivendo davvero la sua esistenza terrena, anche a scontrarsi con il dilemma sesso VS amore, quando a 56 anni decide di sposare un uomo di otto anni più giovane di lei, e lo sposa anche se gay semplicemente perché la sua dimensione d’amore era già andata oltre tutto: era innamorata dell’amore, non della carne (questa sua prospettiva l’ha resa grande nei suoi cento anni di vita, la rende immensa nella memoria sempre viva di tutti coloro che preferisco graffiare la terra di tutti con i propri piedi, piuttosto che alimentare Crociate che adottano bandiere scandite dai colori di pochi). Nota che la rende perfetta sposa dell’umiltà umana è la sua perfetta docilità che esce fuori quando, costretta a letto per la sciatica e i vari acciacchi dovuti alla sua età centenaria, dice che, pur avendo viaggiato una vita intera, la parte più piacevole del suo viaggio fosse proprio il punto di arrivo e che per nessuna cosa al mondo avrebbe voluto perdere quella coincidenza.
Freya Stark nasce a Parigi il 31 gennaio 1883 e muore ad Asolo (il suo posto del cuore dove trascorre gran parte della sua vita e dov’è seppellita) il 9 maggio 1993.
A me piace ricordarla con queste Sue parole:
rifarei gli stessi viaggi, perché non si dirà mai il caso che nella vita qualcuno possa rivedere lo stesso panorama due volte. E sono sicura che se mi dovessi svegliare una seconda volta in mezzo al deserto afgano, osservando l’alba, escalmerei ancora “il mondo respira”.
Con questo auguro a tutti coloro che avranno voglia di farlo una buona lettura.

 

 

 

Recensione su “NARCISO E BOCCADORO”

A cura di Gregorio Febbo.

Oggi, dopo tanto riflettere se postare o meno una mia recensione su questo capolavoro, ho deciso che, almeno per me, vale la pena sensibilizzare alla sua lettura, quanti più possibile. “Narciso e Boccadoro” va, almeno una volta nella vita, letto.
Fatta questa premessa, cercherò di addentrarmi con delicatezza in questo scritto di Hermann Hesse (premio Nobel per la letteratura nel 1946).
Per chi conosce Hesse, non sarà, di certo, difficile proiettarsi verso uno stile di narrazione molto descrittivo che richiama, a volte, da uno scritto all’altro, le stesse immagini, gli stessi campi narrativi, le stesse onde emozionali: è il suo stile, inconfondibile.
In “Narciso e Boccadoro”, possiamo, sin dai primi capitoli, notare come l’Autore si sia divertito a creare un gioco di ruoli tra i due protagonisti. È lampante, per una lettura attenta, la catarticità che Hesse affida ad ambedue i suoi personaggi principali. Difatti, entrambi, nel loro ruolo sembrano essere in una continua e costante ricerca della perfezione: da una prima immagine, si notano un Narciso preso dalla vita consacrata e un Boccadoro frastornato da tutta quella perfezione conventuale (qui abbiamo il primo atteggiamento catartico per entrambi). La vera svolta narrativa, arriva quando Hesse aggiunge, come riflessione primaria, il senso della vita (qui si crea una dicotomia che va a spaccare la narrazione in due filoni che resteranno distinti fino alla fine) che per Narciso non cambierà, mentre per Boccadoro muterà da consacrazione ad arte. Rivelazione, quest’ultima che porterà il giovane artista a lasciare il convento e girare in lungo in largo per, poi, ritornare, una volta solo, di nuovo al convento dove Narciso lo ha sempre aspettato.
Da non sottovalutare è un importante fattore riflessivo che l’Autore ci offre su di un piatto d’argento: la solitudine. Sì, perché entrambi i protagonisti, presi dal loro ego di perfezione, si ritroveranno, alla fine, dannatamente soli.
In conclusione, aggiungo che Hesse, in “Narciso e Boccadoro” ci offre sì il piacere della lettura, ma anche e soprattutto la bellezza di poter sovrapporre due mondi (arte e religione) che da sempre vanno a braccetto, ma che da sempre creano quella spaccatura che induce, se la si vive in modo troppo catartico, alla solitudine. Buona lettura.

 

 

 

Così speciale

Un pensiero, un’allegria, una malinconia,
una fontana piena di fortuna giocata a carte,
una guerra che non sai se finirà, un soldo blu.
Un buco in cielo, un buco sulla pelle,
un buco che arriva all’amore,
un buco che spacca un burrone aperto.
Un freddo cane che fa paura anche al fuoco,
un generale donna più forte d’un carro armato,
una fatica che lascia andare via dove si canta,
dove a trent’anni sei disperato e non ti arrendi.
È un artista che si spegne.
Una nota di rugiada che trema di stanchezza,
una palla rossa, una palla nera.
Un berretto capovolto
una nuca che parla in falsetto,
una ballerina matura che gira alla seconda.
Una fine che non ti aspetti, ma non ti sorprende
Un arcobaleno strappato, sputtanato
un sogno abbandonato dove piangi, poi, ridi.
Un errore che fa filotto di continuo,
ma di continuo sogna nella stesso istante.
Una collana d’oro rubata ad un’amazzone,
una camerata di soldati che tornano a casa.
È un artista che si spegne.
Un teatro pieno di poltrone e vuoto di persone,
un cinema pieno di attori e mille avversità.
Un brivido che sale senza sale sulla schiena,
uno zucchero che si fa amaro poi, dolce.
Una danza strana che si fa solo per strada,
una tisana intrisa alle ali di farfalla.
Luci opache, un inventario vecchio,
un giorno che si dimette da se stesso,
che si dimette dal tempo perché si vergogna.
Un buio che si colora di riscatto e va a morire,
un cuore tormentato che perdona ancora.
È un artista che si spegne
prima ancora di potersi ritrovare.
È un artista che va giù di testa,
un ragazzo che non viene mai ascoltato,
ma deriso come il niente;
è un ragazzo troppo buono che si ammazza,
ma neanche un santo l’ha mai capito.
È un artista che si spegne
così speciale …

 

 

 

“Per poter essere fiore”

Vorrei essere cielo
per poter essere vento.
Vorrei essere uomo
per poter essere vero.
Vorrei essere freddo
per poter essere acceso.
Vorrei essere acciaio
per poter essere scelto.
Vorrei essere storia
per poter essere libro.
Vorrei essere nebbia
per poter essere rabbia.
Vorrei essere figlio
per poter essere libero.
Vorrei essere amico
per poter essere sorriso.
Vorrei essere madre
per poter essere padre.
Vorrei essere incanto
per poter essere perdono.
Vorrei essere corpo
per poter essere pelle.
Vorrei essere stelle
per poter essere sudore.
Vorrei essere umile
per poter essere pudore.
Vorrei essere sete
per poter essere gola.
Vorrei essere cuore
per poter essere segreto.
Vorrei essere sole
per poter essere ombra.
Vorrei essere letto
per poter essere perfetto.
Vorrei essere lamento
per poter essere vita.
Vorrei essere luce
per poter essere alba.
Vorrei essere ragione
per poter essere scelta.
Vorrei essere stelo
per poter essere fiore.

 

 

 

“Notte viola”

La luce è ombra:
nota d’un ambra
sempre più sua,
sempre più scura,
sempre più cura
di gocce riflesse,
spesso invadenti
tra i veri viventi.
Ma cosa resterà?
Ma cosa, poi, sarà?
Rispondere non so,
ma tutto ciò che so
è il fruscio caldo
di un pugno d’ossa
che solo da solo
riesco a tenere a casa;
e la notte vola.

E la notte è viola.

 

 

 

“Due uomini”

Mi sognerai di giorno
quando sarai distante,
alla notte mi racconterai
quando un pianoforte
scioglierà le sue note.
E tra un attimo,
non avrai paura
di addormentarti davvero
perso in un sogno
schiarito dal riflesso
d’una perla rosa.
Non darai retta
all’eco di un vociferare
che incontrovertibilmente feroce
si poggia sulle ali,
dilaniate dal passato,
di due anime
che amano sì,
ma solo come due uomini
sanno fare.

 

 

 

“Sentirsi amati e meno solitari”

Monologo tratto da una mia sceneggiatura.

Ci sono cuori che cercano l’amore e nell’amore trovano un sorriso, il loro sorriso, quello eterno, quello che ama senza chiedere il perché.
Ci sono cuori che corrono da soli e nella solitudine trovano la loro amica migliore, quella che non li tradirà mai, quella che li raccoglie da terra e, la notte, gli piega le spalle senza smuovere alcun dolore.
Ci sono cuori che vanno avanti per inerzia.
Ci sono cuori che viaggiano con il dolore, quello che pochi capiranno, quello del primo vero grande amore, quello dei Natali guadagnati a perdersi negli occhi.
Ci sono cuori che a capirsi non sono bravi, ma provano a sognare senza mai arrivare a reagire.
Ci sono cuori che vorrebbero non arrendersi mai, ma gli angeli sembrano averli dimenticati.
Ci sono cuori che, la mattina, ti preparano il caffè e ti aspettano, piegati in due, solo perché sanno che tu li ascolterai.
Ci sono cuori che amano solo in senso lato.
Ci sono cuori che stanno bene solo a guardare fuori dai finestrini di un qualsiasi aereo che vada in un qualsiasi posto, purché li porti lontano dalle solite direzioni.
Ci sono cuori che l’amore l’hanno visto arrivare, poi fermarsi, poi arrendersi, poi partire e mai più tornare.
Ci sono cuori che, goccia dopo goccia, regalano il sangue perché sono convinti di doversi annientare.
Ed infine, ci sono cuori che accolgono chiunque nella sola speranza di sentirsi, almeno una volta nella vita, amati e meno solitari.

 

 

“Punti d’incontro”

C’è un bene che va oltre noi stessi, oltre le domeniche che non capirai, oltre il silenzio che si fa strada, in modo anche prepotente, in un dentro già corroso dalla gente: parole e castigo di attimi di vita amante dei diamanti, ma piccola come un giorno che non ricorderai mai. C’è un bene che va oltre il mare, oltre un paio d’occhi che non potrai far a meno di amare, oltre la pelle e le stelle: galassie ininterrotte in questo puntino di mondo che, purtroppo, rimane ancorato a prototipi di vita (spesso demolizione, quest’ultima, di gioielli incompresi, ma mai arresi). C’è un bene che va oltre il gusto che rimane tra le lenzuola, oltre le nuvole, oltre ogni malattia, oltre ogni attimo che corre veloce, ma si ferma prima di arrivare a casa: cuori silenziosi, a tratti solitari, che lottano con forza per potersi amare, almeno un’ora. C’è un bene che va oltre la sessualità, oltre il sonno che arriva in pieno giorno, oltre i colori: alchimie di sorrisi che, malgrado tutto, ci danno la possibilità di arrivare in posti che non conosce, neanche, il nostro ieri. C’è un bene che va oltre i graffi che si cicatrizzano nell’acqua, oltre la luna e l’alta marea, oltre le colpe: frammenti costanti in ogni esistenza capace di scheggiarsi sì, ma, al tempo stesso, di restare in piedi chiedendo scusa. C’è un bene va che oltre la guerra, oltre l’essere padre o madre, oltre l’essere figli, oltre un bacio a labbra serrate: paura costante di scoprire nuovi porti, dove ancorare il proprio amore, il proprio odore mescolato al sudore di un battito vero. C’è un bene che va oltre le navi da guerra o da crociera, oltre ogni trincea, oltre ogni miniera, oltre ogni cielo incazzato a morte, oltre le funi da funambolo, oltre ogni canzone: sentimenti immortalati in angoli di note che, senza forzatura, ci acchiappano alla gola e ci dimostrano che le arroganze rimangono nelle fogne delle tenebre. C’è un bene che va oltre i racconti, oltre i tramonti, oltre le sere d’arresa, oltre ogni chiesa, oltre ogni mistico, oltre ogni direzione o destinazione: punti d’incontro.