Ilaria Mallozzi - Poesie

Sono una ragazza seria, timida e romantica. Cerco un ragazzo della provincia di Avellino o di Potenza serio, che non cerchi avventure e che abbia al massimo 30 anni.

 

Gli ultimi bagliori del sole imporporano le variopinte facciate delle case di Calitri. Il cielo si tinge di turchino. Improvvisamente i colori lasciano il posto ad un’ombra sempre più cupa, che rende indistinguibile ogni cosa. Le lampade delle strade si accendono contemporaneamente, rendendo, con il loro chiarore, il cielo sempre più nero. Le insegne dei negozi tremolano, si muovono, lampeggiano, scintillano. Di volta in volta le finestre s’illuminano, testimoni di una giornata come tante che volge al suo termine. Non per Vittoria. Un bagliore ancor più intenso emana la sua finestra, che dà su piazza della Repubblica. Seduta alla scrivania, fa scorrere le dita sulla tastiera del suo portatile come se stesse eseguendo il Trepak di Čajkovskij. «Sono una ragazza seria, timida e romantica. Cerco un ragazzo della provincia di Avellino o di Potenza serio, che non cerchi avventure e che abbia al massimo 30 anni». Senza alcun ripensamento invia queste due righe alla redazione di una nota rivista online. Poi, involontariamente il suo sguardo si posa su un malconcio peluche, ricordo di un amore deluso. «Te sei tenera come ’sto pupazzo», le aveva sussurrato Marco, nativo dei Castelli Romani. Perché si era spinto fino a Salerno? Perché proprio lei? Come una preda incurante dei pericoli, Vittoria si era lasciata catturare dalle lusinghe di quell’esperto cacciatore. Tutto era iniziato davanti ad una tazza di caffè macchiato, sorseggiato al bar dell’università. Era diventato quasi un rito o semplicemente un pretesto per isolarsi dal resto del mondo. Cosa avevano in comune quei due? Capelli lunghi e aggrovigliati alla Bob Marley, orecchino vistoso sul lobo destro, felpe informi, pantaloni larghi e scarponi pesanti lui. Lunghi capelli nocciola, labbra sensuali, occhi profondi, eleganza nel vestire e modi raffinati lei. Alle sigarette Vittoria preferiva i libri, al vino le caramelle gommose alla fragola. Insomma due ragazzi – ventiquattro anni lui e ventisei anni lei – completamente diversi, ma accomunati dalla passione per l’archeologia. Al di là dell’aspetto poco rassicurante e dell’atteggiamento spavaldo, Marco sembrava un bravo ragazzo. Sguardi intensi, imbarazzanti silenzi e sorrisi inebetiti tra una lezione ed un’altra. Vittoria era solita prestare attenzione e appuntare ogni singola parola con la precisione di uno scienziato. Ma in quel tiepido pomeriggio di primavera sorrideva alla bianca lavagna, come rapita da una dolce melodia.    

«Che stai a pensa’?», le aveva bisbigliato Marco.

«A nulla. Sono felice», con voce tremante.     

«Dillo a me!!! Sto uscendo pazzo ad averti vicino», le aveva risposto su un piccolo pezzo di carta.

Vittoria, arsa in viso, faticava a proferire parola e a rivolgergli uno sguardo, sfregando di continuo la collana di perle. All’improvviso le loro mani si erano intrecciate e strette, quasi a non volersi lasciare più. Si avvicinava il momento in cui avrebbero dovuto salutarsi. Prima di abbandonare l’aula, Marco le aveva dato appuntamento per il giorno seguente: dopo la lezione di linguistica avrebbero studiato insieme. Stavano invece passeggiando sul lungomare Trieste, a pochi chilometri di distanza dall’università. Di colpo Marco le si era piazzato dinanzi.

«Te mi piaci, Vittoria. Non è infatuazione la mia», le aveva dichiarato tutto d’un fiato. Poi il bacio. Non uno qualsiasi. Il fragore delle onde proveniva ovattato. Vittoria aveva preso le sembianze di una farfalla, svolazzante tra soffici petali. Appena aveva varcato la soglia del suo appartamento, un suono d’arpa aveva distolto Vittoria dall’estasi amorosa. Era la ragione della sua improvvisa felicità. Sul display le parole di una canzone dal titolo ossimòrico: «Le mani, tutto incomincia sempre con le mani e ancora non le hai detto che la ami, anche se lei lo sa. E poi, sai respirare solo se c’è lei, diventi tutto quello che non sei, diventi come ti vorrebbe lei, ma non ti basta mai, mai». Sotto una dedica: «Le cose più belle nascono all’improvviso. È inutile dannarsi o programmarsi gli amori. Le cose più belle ti colpiscono quando meno te lo aspetti». Marco cercava di contenere, almeno nello scritto, quell’irrefrenabile accento romanesco. Aveva iniziato a stare attento agli abbinamenti dei vestiti e si era persino iscritto in palestra. Profumo, dopobarba, capelli corti, guardaroba alla moda. Insomma, non voleva che una donna dai modi così gentili si vergognasse di lui. Vittoria però adorava quel ragazzo, che l’aveva mandata in apnea al loro primo incontro. Adorava la sua semplicità, il suo modo di fare poesia, il suo pensiero, il suo sguardo fisso negli occhi e, cosa sorprendente, l’odore delle sue sigarette. La madre aveva emesso la sua condanna: non era il ragazzo giusto, anzi era uno sbaglio di cui si sarebbe pentita. Ma Vittoria era disposta a lottare contro tutti, ad amarlo incondizionatamente e a soffrire fino alla disperazione. Mai si sarebbe pentita. E di cosa, poi? Della sua felicità? Per la prima volta Vittoria aveva trovato la propria iniziale completezza. Avrebbe voluto mostrare a sua madre la foto, scattata a mare, che ritraeva la luminosità dei suoi occhi e il suo sorriso radioso al solo pensiero di lui.

Quanto si dilettava Marco a contemplare lo sguardo rivolto verso il basso e le guance rosse di Vittoria. Con lei il suo cuore aveva preso a tamburellare per la prima volta. Non si era mai sentito così vivo come con Vittoria. Eppure si perdeva il conto delle precedenti relazioni.

Una volta si erano persi per le strade di Roma, immersi com’erano in conversazioni e risa. Erano soliti trascorrere intere giornate nella capitale per via di un esame di arte. Vittoria conserva nella memoria, come pietre preziose, ogni singola parola e ogni singolo gesto di quel penultimo giorno di aprile. Prima di accedere al palazzo Doria Pamphilj, ogni studente aveva ricevuto un biglietto d’ingresso, su cui era stampata un’opera d’arte in miniatura. Gli studenti erano stati invitati a non cestinare il biglietto, poiché, una volta tornati a casa, avrebbero dovuto compilare una scheda. A Vittoria era capitato Il riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio, mentre a Marco il Paesaggio con la Fuga in Egitto di Annibale Carracci. Pura coincidenza? Oppure frutto di una imperscrutabile volontà divina?

In una limpida giornata di fine maggio si erano ritrovati adagiati su un morbido tappeto. Non si trattava di un rigoglioso prato o della riva del mare. Sulle candide poltrone di Palazzo Barberini contemplavano con occhi bambini la grande volta affrescata, raffigurante il Trionfo della Divina Provvidenza. Le figure e gli elementi naturali sembravano fluttuare fuori dal tempo e dallo spazio. Anche Vittoria avrebbe voluto partecipare a quel valzer dai ritmi lenti. Di quel giorno le restano il biglietto del treno e lo scontrino del Burger King di via Nazionale.    

Marco desiderava condividere la sua esistenza con Vittoria tra nottate e pannolini. Precipitosa la sua proposta? Vittoria lo avrebbe sposato senza esitazioni.

In quell’anno, l’estate si affrettava a sostituire con prepotenza la primavera. Mancava una settimana al termine delle lezioni. Una nera nube offuscava la luce del volto di Vittoria. Inutili le promesse di Marco. Nessun messaggio, nessun incontro, nessuna traccia di sé. Sparito. Vittoria viveva nella vana speranza di un suo ritorno. Trascorreva in solitudine gran parte delle sue giornate in quell’angolo di paradiso, testimone del loro primo patto d’amore. Il pensiero di Marco le faceva ancora tremare il corpo. Nonostante tutto non si era stancata di aspettare.

L’aveva rivisto all’università. Marco aveva il dovere di spiegarle il motivo della sua improvvisa scomparsa. Per lui era stata una semplice pomiciata. Stranamente Vittoria era ignara del significato di quel termine. Vi ravvisava un non so che di sozzura. Se Marco l’avesse voluta, si sarebbe spinto fin sotto casa sua. Un fiume in piena stava inondando il volto di Vittoria. Una volta a casa, le dure parole di Marco avevano iniziato a martellare sul suo capo.

«Scambiarsi effusioni amorose in modo fisico». Questo il significato. Possibile che a pronunciare simili parole fosse stato lo stesso ragazzo per il quale si sarebbe inimicata anche sua madre?

In realtà Marco voleva riappropriarsi della propria libertà. Vittoria, invece, aveva intrapreso un lungo percorso, fatto di psicoterapeuti e di terapie farmacologiche. Il ricordo di quei giorni non l’aveva abbandonata nei tre lunghi anni, che erano seguiti.


 

 

Solo un ricordo?

 

Inesorabile troneggia l’oscurità, padrona puntuale del giorno morente. Immediatamente si accendono edifici monumentali, boutique e sale concerti, colorando le strade ammantate di bianco. Una fiumana di vetture e di persone dilaga per le vie del centro. Ingorghi, sorpassi, clacson, smog. Gremite sono le metropolitane come vulcani in procinto di emettere lava. Orde di bambini scendono in campo per sfidarsi in uno dei più celebri combattimenti: la battaglia di palle di neve. Uomini in giacca e cravatta si affrettano a rincasare. Forse ad attenderli ci sono una famiglia, un pasto caldo e tante chiacchiere. Cibo precotto, silenzio, interrotto di tanto in tanto dalle grida dei vicini o da qualche trasmissione televisiva, e solitudine per i più. La carriera prima di tutto. D’altronde anche Ginevra l’aveva pensato fino a qualche minuto prima di imbattersi in quelle foto. Quel nome, volutamente cercato sul noto social network, non aveva mai smesso di occupare i suoi pensieri. Un sussulto. I battiti del cuore sempre più accelerati e poi un’esplosione di ricordi.

«Certi amori non finiscono fanno dei giri immensi e poi ritornano. Amori indivisibili, indissolubili, inseparabili». Sulle note di questa canzone, Ginevra e Andrea si erano promessi amore eterno. Nella sua mente ancora il ricordo di quella sera.

«Con questo anello non ti sto chiedendo solo di trascorrere il resto della tua vita al mio fianco, ma anche di amarmi per sempre. Vuoi affidarmi la tua vita come io la mia?», le aveva proposto Andrea in ginocchio.

Complici una sala, allestita tutta per loro, e il Cristal, se Ginevra non era riuscita a tenere a freno l’euforia.

«Sì, voglio amarti e onorarti finché morte non ci separi!», quasi urlando e gettandosi tra le sue braccia.

Tanti i preparativi da portare a termine, ma i due innamorati avevano ancora un anno a disposizione. Finché, a due mesi dal matrimonio, una missiva dalla New York University aveva stravolto con la forza di un uragano i progetti di Ginevra. Tra le sue mani il sogno di una vita: insegnare in quella prestigiosa università americana. Cosa fare? In realtà, in cuor suo, aveva già preso la sua decisione. Come rivelargliela? Andrea sarebbe stato disposto a lasciare il suo studio di architettura e a volare oltreoceano con lei? Una busta con dentro una lettera e l’anello l’aveva affrancata dal gravoso compito.  

Da due anni Ginevra vive a Williamsburg, in un modesto monolocale dalle ampie vetrate con vista sull’East River, Manhattan e New York. Sola con il suo sogno. Lei sola l’artefice del suo destino. Con gli occhi ancora inumiditi, digita sulla tastiera del suo portatile un messaggio di augurio, indirizzato al suo primo e unico amore.

La risposta non si fa attendere. Col cuore in gola, Ginevra legge attentamente il messaggio di Andrea.

 

Cara Ginny,                                                                                                                                                                                             

sono sorpreso ma, allo stesso tempo, mi ha fatto molto piacere sentirti. Seppur con qualche perplessità, ho deciso di risponderti. Spero che tu stia bene nonostante il nostro trascorso. Ti immagino seduta alla tua scrivania, mentre cerchi di illustrare la differenza tra «peto» e «quaero». Mi auguro di risentirti presto, così potrò raccontarti le mie giornate tra lavoro e nipoti. Sì, quelli in foto sono i figli di mia sorella Rosa. Adesso una doccia calda e poi al lavoro. Ti auguro una dolce notte. Un abbraccio e a presto.                                                                                                               

Andrea  

 

Nessun rancore. Sul volto di Ginevra si disegna un incantevole sorriso, che spazza via la nube di sgomento. Per la prima volta va a dormire serena. Sarà così anche per Andrea?


 

Felicità è

 

Volgere lo sguardo

sull’interminabile

linea di confine

tra mare e cielo.

Godere del soave

sciabordio

delle onde

contro le auree

sponde.

Correre incurante

su distese

in fiore.

Assaporare

la compagnia

di persone,

di cui solo un antico

ricordo resterà.

Questa è la possibile

felicità.



Vita

 

Per una matita

ed un piccolo pezzo

di carta ingiallita,

tre razioni

di putrido pane.

Per placare

anelanti creature

di una stilla d’acqua

imploranti,

il dolente trapasso

di un pover’uomo

vetusto e stanco.

Per la pietosa mano

ad un amico tesa,

inoppugnabile

la sentenza:

“Giustiziato”.

Per un trattamento

di favore,

migliaia di innocenti

anime

dallo zyklon

annientate.

A nulla giovano

odio e rancore,

se da quella geenna

solo della vita

amore.


 

Per sempre

 

La tua eterna

viva presenza

di floreale essenza

irrora

l’antica dimora,

nostro nido

di carezzevoli

istanti.

La purpurea sveglia,

inseparabile

tua compagna

di quotidiane avventure,

il manualetto di orazioni,

di una dorata

copertina rivestito,

la collezione

di petali essiccati

di rose,

tra i fiori

i tuoi preferiti,

gli occhiali,

ancora lucenti,

giacciono tutti

dove un tempo

li adagiasti

per l’ultima volta.



Come una farfalla

 

Un gelido pomeriggio

di inizio novembre,

sulla tua pietra

una farfalla

dalle delicate ali

trovai.

Un dì

nella nostra stanza

piangendo

il tuo nome,

nonna,

gridai.

Per incanto

con carezzevole brusìo

accanto al volto mio

svolazzò leggera

una farfalla

come a volermi sussurrare:

«Non temere, figliola.

Ci sono io,

con te».



Un volto amico

 

Vanesia

ovunque

rifletti

il tuo volto

lucente.

Riservata

custodisci

secrete confessioni.

Luminosa

conduci

per i campi

e per le calle

peregrini passi.

Tacita

testimoni

l’alba

di rinnovati amori.



Grazie, Madre Natura!

 

La tiepida aria

di primavera

ricopre

di bianche gemme

i rami

finalmente rinverditi.

Disseminate

su immense distese

verdeggianti

infinite varietà

di fiori,

variamente dipinti.

Come rubini

crescono scintillanti

le ciliegie

dal sole dell’estate

scaldate.

Dal vento d’autunno

sono gli alberi

di foglie spogliati.

Volteggianti

sulla nuda terra

un tappeto

dalle innumerevoli sfumature

realizzano.

Tra le viuzze

dei borghi in festa,

profumi

di funghi e caldarroste.

Con ricami di gelo

il lungo inverno

riveste

la natura assonnata.



Un regalo (in)atteso

 

Folgorata

appena vidi

te,

piccola palla

di miele

rivestita.

Con materna

tenerezza,

tra le mie palme

ti accolsi.

Inappetente

vagasti

per giorni

in cerca

di chi

la vita

ti donò.

Lentamente

l’animo tuo,

dapprima

scettico,

si aggrappò

alla premurosa

àncora

dell’umana madre.



Bestie kappaò

 

Quando

a terra

mi spintoni,

di calci e pugni

mi ricopri.

Quando

con brutale ferocia

mi percuoti,

dalla spoglia martoriata

un fiume scarlatto

a fiotti

vien fuori.

Quando

dinanzi agli occhi

amici

mi deridi,

l’animo mio

uccidi.

Ricorda che

tra te e me

nessuna differenza

c’è.

Della stessa materia

siam fatti,

della stessa aria

ci nutriamo,

sotto lo stesso cielo

conviviamo,

dentro la stessa terra

torniamo.