Italia Chianello - Poesie

Un giorno di pace, alla festa di maggio

Quel mattino di luglio, al primo chiarore, Tatì e suo marito furono destati dal puntuale squillo della sveglia, programmato per ricevere il cameriere che a breve avrebbe portato la colazione. Dopo essersi vestiti di fretta, lei aveva acceso il cellulare. Tre messaggi, poi annullati, inviatole da sua figlia il giorno prima, a sera inoltrata, le avevano insinuato nell’animo un po’ d’apprensione. La distanza amplifica l’assenza degli affetti, non potersi specchiare sul suo viso rassicurante aveva accresciuto ancor di più la sua inquietudine, ma era alquanto strano che Mia le avesse scritto a quell’ora così inconsueta. In genere corrispondeva con loro prima che calassero le ombre, cosa era mai potuto accadere da spingerla a scriverle su Whats-App così tardi? Giacché aveva ritenuto di cancellarne ogni traccia, certamente aveva valutato che la notizia che stava per darle avrebbe reso insonne la sua notte.
Il rientro a casa aveva sepolto ben presto, sotto una montagna di preoccupazioni, il ricordo dell’alba radiosa, che ogni giorno baciava il loro terrazzino, delle passeggiate liberatorie, sulla candida sabbia della baia, e dei gabbiani in volo che sembrava si portassero via le ansie di quell’anomala vacanza, in cui le loro fragilità erano state rinchiuse in albergo per tutto il tempo. Quella era la loro difesa, per evitare il contagio del malefico virus che, nel nuovo secolo, ponendo in grave pericolo la salute, faceva anche lievitare gli antichi mali di una società crepuscolare.
Dopo il furto subito, durante la loro assenza, mentre setacciava il tiretto del comodino per fare una ricognizione sugli oggetti mancanti, Tatì ritrovava una vecchia foto, con l’immagine in bianco e nero dei suoi lontani compagni di seconda B, immortalati insieme con lei in un ampio spiazzo adiacente al Convento di San Francesco. Enzo, Graziano, Lino, Luigi, Carmela, Giovanna e Silvana, ammantati dei loro sorrisi fiduciosi nel futuro, erano ritratti accanto a lei, seduti sul parapetto sopra l’omonimo fiume, che sembrava irrorare in loro il sentimento di bontà, mentre i monti rassicuranti tutt’intorno facevano da sfondo alla foto. Continuando a frugare, riemergeva dal cassetto un altro ricordo di essi in quarta superiore, cui si erano aggiunti Anna, Ines, Marcello, Nereo, Renato e Rosa. Gli sguardi dei suoi compagni erano ancora più luminosi e la cornice la medesima, la sua espressione, invece, tradiva le inquietudini di quell’età, baciata dal fervore degli anni settanta proteso a costruire un mondo migliore. Era il tempo degli scioperi a scuola, quando il gruppo imbastiva infinite discussioni sull’essenza della vita, sulla ferocia dell’uomo che ingoia, inesorabile, i luminosi sogni delle giovani coscienze. L’acerbo tentativo di ricercare risposte che non arrivavano, li univa in quel luogo, dove la magia della sua storia, le sue leggende sacre e l’incantevole paesaggio inghiottivano d’incanto i tormenti delle loro percezioni, mettendoli tutti d’accordo.
Nello smarrimento della spensieratezza dei suoi verdi anni, Tatì aveva incominciato a porsi tante domande sull’esistenza, rifiutando a priori le verità indiscusse. Per diradare le ombre di avvoltoi rapaci in agguato, ricercava voci dissimili dal linguaggio d’intimazione, che si stava sempre più radicando nella sua comunità. Così, a metà degli anni settanta, aveva assecondato l’impulso del suo cuore e si era trasferita al Nord, dove lei e il suo compagno allestivano il loro nido nella capitale dei motori. Anche se ormai lontana, le arrivava puntuale l’eco della sua culla natia, dove l’allegra cadenza del tempo in cui si cantava parlando era risucchiata da un graduale oscurantismo che, nel nuovo decennio, avrebbe partorito nella sua ridente città natale un periodo buio, scandito da ritorsioni, feroci agguati, delitti e lutti, accompagnati da fiori olezzanti annosi orrori.
Sopra sagre ieri serene la luce si era dissolta, anche se dolce era il ricordo delle antiche nenie, sussurratele dalla sua mamma, quando al dialetto paolano frapponeva strane parole, riecheggianti il linguaggio balcanico. La sua determinazione nel ricordarle che si è sempre tutti migranti, anche se si nasce nel luogo in cui si vive, tradiva le sue origini del “Vaddu”, per ascendenza della nonna materna, che era di Rota Greca, un borgo fiorito in una meravigliosa ambientazione paesaggistica nella valle del fiume Crati, da cinque secoli abitato da albanesi, qui definiti “ghegghi”. Quei racconti d’antichi avvenimenti trasmettevano a Tatì un non so che di magico. Sin da bambina lei aveva associato la dolcezza che intravedeva sul volto di sua madre, mentre le narrava quei brani di storia vissuta dai suoi avi, ai vestiti splendenti che indossavano le donne del suo paese di provenienza. Esse arrivavano a frotte dall’interno della provincia, percorrendo i sentieri a piedi, abbigliate con corpetti di pizzo e lunghe gonne fiammeggianti, per rendere omaggio, nella festa del quattro maggio, a San Francesco, Patrono di Paola e di Calabria.
In quei giorni lontani, quando si accendeva la luna, Tatì era stretta per mano dalle sue sorelle e insieme percorrevano l’aia di laboriosi ritrovi, superando gli intricati rovi dello “zaccano”, l’ammasso di pietre che emergevano generose dalla loro terra e da tutto il circondario, che non a caso era chiamato “Petraro”. Mentre la brezza della notte diffondeva familiare fiducia, si portavano sino alle “Querce”, e con il cuore in trepidazione sbirciavano oltre le balze degradanti, verso l’azzurra distesa del Tirreno, nella speranza d’intravedere le luci della nave che, arrivando dal nord, recava le reliquie del Santo cullandosi sulle acque della città. I festeggiamenti aleggiavano nell’aria già dal primo del mese e il due maggio, a sera, si accendeva la lampada votiva, per celebrare la tutela di San Francesco sulla Calabria tutta. Nel pomeriggio del giorno successivo si faceva scivolare sul mare il Mantello del Santo, per ricordare che egli, pure di modeste origini campagnole, è anche protettore dei marinai.
Ogni anno, nel pomeriggio del quattro maggio, il maggiore dei suoi fratelli afferrava per mano le sue sorelle, collocava Tatì sulle sue spalle robuste, essendo lei troppo piccina per camminare, e le portava al paese, dando loro in premio l’evanescente sapore dello zucchero filato. Mentre piroettava lo sguardo rapito, all’infinito, Tatì aveva la sensazione di suggere della dolce neve, residua del rigore invernale, che si scioglieva tra le sue labbra e colava sul suo bel vestitino a fiori, indossato nelle grandi occasioni, e su quelli dei suoi compaesani che camminavano accanto, anch’essi agghindati a festa. Al suono della banda che ritmava la musica, il busto argenteo del Santo era portato in processione per le vie cittadine, mentre le donne di Rota Greca procedevano strusciando le loro sfavillanti gonne sul selciato e, battendosi il petto, in coro cantavano “quanto è bello, passa il Santo!” Poi la sua immagine si perdeva all’orizzonte, adagiata sul mare placido, lavacro d’ogni patimento di quelle genti trasudanti fatica e onestà.
Il suo ritorno in piazza, al tramontar del sole, segnava il momento culminante della festa che, unendo i riti religiosi di profonda suggestione al folclore della fiera popolare, con le bancarelle ricolme d’invitanti mostaccioli, di torroncini dal profumo antico e di leccalecca colorati, faceva volare il pensiero in alto, ad afferrare i palloncini sfuggiti alle mani dei bimbi distratti dalla giostra, dai giochi e dalle luci fantasmagoriche. I festeggiamenti avevano termine con i fuochi d’artificio, creazione artistica spettacolare che esplodeva nel cielo disegnando nel buio della notte stelle argentate, cascate d’oro, anelli e sfere di fuoco, fontane turchesi e gigantesche chiome color smeraldo, in un intreccio di tinte che ricordava la bellezza della vita e quanto fosse avvolgente il suo calore. Infine, dopo una lunga sequela di botti, conclusi da quello più fragoroso, così tonante quasi a volere scuotere le coscienze, il silenzio che ne seguiva riportava tutti alle proprie dimore.
L’istante smeriglia e disincanta, ma il sogno scalda sino alla fine e, forse, anche dopo, se la fiammella rimane accesa in chi resta. Le stelle potrebbero cambiare, se è diverso il punto da cui si osservano, ma brilleranno nel cuore all’infinito. Quando si vola via, per ricercare la felicità, non ci si può più fermare, ma ci si volta a guardare i compagni che si sono lasciati prima del viaggio, nella speranza che anch’essi abbiano trovato il loro lembo in cui vivere in armonia. Tatì era certa del perpetuo ripetersi della festa, sacra e profana portatrice delle soavi note dei musici paesani, ad allietare gli animi, finchè l’attaccamento alla propria terra avrebbe riportato tutti in piazza, che nel borbottio collettivo allevia le fatiche di ognuno, esorcizzando gli stenti di tutti. Nella lontananza, questo sentimento le era di conforto, anche se desiderava rinascere ogni dì, per risentire la dolcezza della ninnananna che le cantava sua madre, e protendersi ancora fiduciosa dalle spalle del fratello, ad ammirare il mondo, in un giorno di pace alla festa di maggio. Quella socialità costruttiva, intessuta di relazioni così discoste dalle solitudini del nuovo evo, era ricchezza per il suo essere. La custodiva nello scrigno della memoria, lasciando vivere le sue pittoriche suggestioni, per dipingere il proprio affresco e, in uno scenario di planetaria dissolvenza, resistere al tempo che fugge.

 


 

Le stagioni del tempo vissuto

Fiore dischiuso in primavera
ti ho offerto fiduciosa
il nettare da suggere
dalla mia tremula corolla
per dissetare con umori salvifici
la tua riarsa estate.
Avvinti nel cammino
a lungo vagheggiato
ornammo il nostro viaggio
con rigogliose gemme
volte a baciar futuro
generoso di promesse.
Inesauste nel cementare
l’amore che può vincere
ogni patimento della vita
le stagioni del tempo vissuto
hanno diradato nebbie inattese
assaporando alfine giorni di sole.
Accordi struggenti negli anni
hanno composto inconsueta melodia
per il mio dolce autunno
ammantato di morbide foglie
ora caldo giaciglio del tuo inverno
che in me troverà sempre l’alba.

 


 

Meste parole di pace

L’infanzia mi cullava su armonici spazi
e la terra baciava il firmamento radioso,
il mondo sembrava un mosaico di colori
sin quando il rombo di lucenti ali
non squarciava nuvole appese al cielo
o un lampo inatteso vaticinante fragorosi tuoni
riaccendeva nei tuoi occhi
quella stessa scintilla di terrore
che ti faceva correre un tempo al rifugio
per proteggere tua nutrita prole.
Nella fragilità dell’attimo che annulla la ragione
chiedevi ancora il perdono di Cristo
per un male consumato da uomini in guerra
prima che io scorgessi la luce.
Madre, vedendo vacillare tua innata forza
ti offrivo l’unico conforto di fanciulla:
stringevo la tua con la mia piccola mano.
Nuovi striduli suoni di missili in volo
destano pianti sgomenti in Ucraina,
come te vorrei battermi il petto
e segnarmi di Croce sul viso
a scongiurare l’assurdo conflitto
insensibile al vagito di bimbi
privati del sole e rinvenuti senza madri
su manto di neve macchiato di sangue
dall’immonda bestia che uccide il suo simile.
Ma nell’assolutezza del vuoto
rimango poeta
e libero in volo meste parole di pace.

 


 

Canto del vento

Mi manca il mio mare
vestito d’inverno
quando s’adorna di spuma
generosa di effluvi
intrisi di salsedine
sino a togliere il respiro.
Tutto travolge e sommerge
anche il pensiero che si tuffa
nel fragore delle sue onde
e al canto del vento
cerca e trova quiete
nelle antiche memorie
che placano l’ansia d’attesa
d’altro volo già sognato,
proteso a ritrovare il nido
degli anni più verdi.

 


 

Mamma

Le mie rose ognor fidenti
hanno atteso l’ultimo raggio
d’incanto sono sbocciate
per effondere in cielo
l’intenso profumo che tanto amasti.
Rinnovellando nella memoria
la tua provvida nascita
le ho colte in giardino per Te
sempre presente
nei miei pensieri d’oggi
ad addolcire col tuo sorriso
fugaci attimi di sconforto
che come magica alchimia
saranno nubi passeggere
finché un solo frammento
della tua immensa forza
resterà nella mia carne.
L’amore che hai coltivato
con infinita cura
ritempra in ogni tempo
inesauribile eredità
in chi hai generato
o ti ha voluto bene
avvertendo sempre carezzevole
il caldo abbraccio
del tuo sguardo inobliato.

 


 

Atteso tepore

Il freddo annunciato alfine
ha sorpreso il mio verde prato
che sotto un candido manto
resiste alla tormenta
e voglioso di colore e vita
sogna teneri baci d’atteso tepore.
Sul variegato agrifoglio
dall’orlo a festoni pungenti
esplodono bacche carminie
ad annunciar nell’aria
le festività imminenti
dall’antico sapore
di casa e d’affetti
bramato ritrovo d’oggi.
Delicati verzellini
cercano briciole di futuro
e posandosi lievi
intorno al caldo nido
spargono loro impronte
sul giardino già innevato
in questo gelido dicembre.

 


 

Canto d’attesa

Hanno tinto di nero il libro immacolato delle donne
imbrattandolo d’inchiostro colorato di soprusi e violenze
a lungo perpetrati da orchi con fantasie perverse
bramosi di loro prede per umiliarne corpo e mente
o da barbari riti brutali
figli d’arcaica cultura mutilatrice dell’anima
e da chi ha in pugno le chiavi di casa
onde eternare l’orrore tra gelide mura.
Il vomere del tempo
scava impietoso profonde ferite
nella matrice d’ogni vita e coraggio
che giammai sottomessa si ribella a spietata realtà
e se pur fragile forte nel cammino
si aggrappa tenace a un divenire di speranza
che ci veda insieme concordi
a scrivere un nuovo libro bianco
con pagine ricorrenti d’imitabili virtuose azioni
scaturite alfine d’incanto dall’infinita cura
che un uomo nuovo vestito di tenerezza
avrà d’un fiore speciale che vuole solo sbocciare
in un giardino ora sordo al suo canto d’attesa.

 


 

Ricorderò la via

Vivido sogno
d’amorevoli carezze
su riccioli biondi
posa delicata
tua mano generosa.
Fugace sussurro
di riso lontano
risveglia l’incanto
accorda tenace
l’antica nenia.
T’attendo nonna
nelle notti d’oggi
senza certezze
all’alba svanirà il delirio
sicura ricorderò la via.

 


 

Amore incompiuto

Colpo di vento tenta l’anima
soffia sospinge stordisce e atterra
sottrae rapace pensiero e linfa
al tuo innato candore
vagante al di là dalle pareti usate.
Tra foreste di cristallo,
raggelata la speranza
in foglie accartocciate,
l’ululato d’impensata bora
diventa sempre più cupo
cattura il tuo respiro
è ombra delle tue parole
stregate da muti artifici.
Alfine flutti tempestosi
s’infrangono sulla tua esistenza
mio tenero germoglio
schiumando residui d’amore incompiuto
che il cuore non aduso
sedimenta sopra deserta riva
aggrappandosi per non svanire
ai solidi fianchi rimasti immutati
dai giorni dell’infanzia.

 


 

Bisogno di libertà

Ti ricordo ieri piccina
sfilare la tua mano minuta
dal mio caldo appiglio,
pian piano
perché non mi avvedessi,
ansiosa di rincorrere anatre gioiose
che si tuffavano nel placido lago
e su riposante riva
scrollavano poi loro candide piume.
Agili spiccavano il volo palpiti d’ali
verso nuove mete che seguivi rapita
mentre ti carezzavo commossa
sussurrando di madide manine,
forse per stagionale calura
o vibrante ansia di libertà.
Tu assaporavi felice
la complicità materna
e rincuorata ti sottraevi correndo
ad abbracciare la vita,
a respirar odori d’erba fresca
smarrendo fin d’allora
la coscienza del tempo
verso un’eterna estate
colma di sole.

 


 

Tiepida brezza

Nella corsia d’ospedale
dove si respira mestizia
scende lenta la sera.
Una tiepida brezza
s’insinua furtiva
recando effluvi di foglie dorate
danzanti nel prato sulle note
d’una sublime musica d’amore
che vince l’abbandono
e il timore di perderti per sempre.
Il mio cuore sempre fidente
seguita a cantar promesse
accanto al coltrice di spine
che profuma di fiori
sbocciati su metallico stelo
a deviare tua esistenza
da ineluttabile declino.
E tra un letto e l’altro
mute parole e complici sguardi
s’avviano a ritrovar la vita.

 


 

L’umana solidarietà

Sembrava non udissi
il canto delle stagioni
né avvertivi l’autunno
spalancare le porte all’inverno
al gelo diffuso
che da quel lunedì ottobrino
inesorabile aveva avviluppato
le radici del tuo cuore.
Ma risalisti l’abisso
con istintivo coraggio
tempra e intima forza
nel sopportare il peso
d’inusitati patimenti,
da fato avverso
o disumana insipienza.
Quando il dramma
s’è riversato d’improvviso
quasi vitale ispirazione
l’hai accolto quale occasione
utile a trovare tesoro
d’umana solidarietà a te d’intorno.
Da quel momento così duro
hai forse maturato convinzione
d’aver vicino tanti e tutti insieme
ad affrontare flutti perigliosi
verso non mai cercati nuovi approdi
nel misterioso mare della vita.

 


 

Coltivare l’amore

Vedo tuo passo incerto
e penso ”Dio, quanto ti amo”
di sentimento verace
che rinasce ogni giorno intrepido
e premuroso tende
il suo stelo prospero
al tuo cuore ripiegato
da crudele insulto.
Nel vivaio longevo
che mano impietosa
indarno ha inteso disseccare
fidente di tuo nuovo rigoglio
coltivo ancora più tenace
inesauribile amore
e resto in paziente attesa
certa che se animo desueto
a tanta difficoltà di vita
smette di coltivare il bene
merita in pena serrate corolle
che hanno negato al sole
prodigio di primavera.


 

Il volo foto dell'autrice

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Prodigio foto dell'autrice

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Divenire foto dell'autrice