Letizia Giannini - Poesie

Conchiglia

 

Una conchiglia si innamorò del mare. Era fondamentale per lei!
Nelle notti stellate, si scostava dalle altre per contemplare lo spettacolo più bello che avesse mai visto. L’amato, finemente vestito di un abito ricamato della luce degli astri, migliori in beltà, era solito cantare una melodia che neanche le Sirene stesse avrebbero potuto eguagliare.
In questo modo, assorta nella notte chiara, attendeva l’alba.
Che splendore quella distesa placida, come le ore ancora immerse nel sonno, striata di tutte le sfumature dell’arancio e del rosa.
Poi, quando il Sole stava alto nel cielo, per non lasciare nell’ombra i segreti della Mondo, essa lo chiamava per farsi illuminare meglio di tutte le altre cose. In quel modo il mare si sarebbe accorto di lei? L’avrebbe, forse, scambiata per il più lucente dei diamanti?
I giorni passarono e tutti quei tentativi si mostrarono vani.
La conchiglia smise, così, di lottare, decidendo di morire dove era nata e vissuta, tra le braccia di chi tanto aveva voluto suo, ma non si era mai accorto di lei.

Quell’amore, dapprima sepolto negli abissi, risorse e lo scheletro bellissimo della piccola chiocciola riaffiorò, posandosi dove le acque fecondano la terra.
Nuovamente si fece buio e si accesero le stelle.
Durante il consueto concerto, alla voce marina se ne unì un’altra, creando un coro capace di far commuovere perfino il Sole, intento a far splendere l’emisfero opposto.
Quel suono, denso di tenerezza, usciva da quel piccolo guscio vuoto, ancora terribilmente pieno di amore.

Ecco perché dalle conchiglie possiamo sentire ancora il rumore del mare.



I passanti

 

Guardo i passanti con la stessa distrazione del loro andirivieni, poi mettendoli meglio a fuoco, come se i miei occhi fossero una macchina fotografica, mi ritrovo ad osservarli proprio, non come fa il ciaccione, ma con il rispetto delicato che anche l’artista usa per catturare dagli altri una creatività che firma con il proprio nome.
Da questo giocoso studio antropologico capisco quanto siamo diversi e, pur non conoscendo le storie che quei passanti si portano dentro, mi sembra di poterle quasi vedere.
I sentimenti di ognuno iniziano a prendere forma, tutti quanti, e questo mi confonde.
Sembrano un uragano, così forti, così diversi, così amalgamati che, d’un tratto, mi appare un gran caos che, come nei miti della Creazione, si ricompone pian, piano per riportare ordine nel disordine della vita stessa.
Quanto sono diversi questi passanti! Quanto hanno amato, odiato, sperato!
Quanto amano, odiano, sperano ancora!
Quanto ameranno, odieranno, spereranno ancora!
Nei lineamenti delle loro così diverse fisionomie non mi riconosco, quasi provenissi da un altro pianeta!
Quanti sono questi passanti!
Quante analogie!
Quante diversità!
Quanta unicità!
Non vi conosco, passanti, come voi non conoscete me, ma più vi osservo e più mi sento sempre meno aliena, sempre più come voi, una passante!


Il castello di sabbia

 

Vorrei distruggere quel castello di sabbia, ormai le sue stanze odorano di stantìo, ormai ad abitarlo solo l’ombra vuota di ciò che siamo stati.
C’era il sole ed eravamo bambini o, forse, lo sembravamo soltanto, quando il nostro entusiasmo lo creò dal nulla.
In tanti anni niente lo ha buttato giù ed ora, quasi ripiegato su se stesso, come i nostri sogni antichi, mi sta implorando di distruggerlo!
Neanche lui si riconosce più, ormai, neanche lui sopporta il silenzio spettrale che lo invade, neanche lui si ricorda di chi era, di chi eravamo!
Le nubi corrono veloci sopra minuti che si sono trasformati in epoche e sopra ciò che rimane dei suoi merli. Dalle feritoie nessuno spia più nessuno e gli amanti non scrutano più il momento giusto per segregare il loro amore tra le braccia della notte. Ormai, sono scivolati via per sempre quei remoti momenti in cui l’esistenza pulsava, stretta tra la paura ed il coraggio!
Allora, con un soffio, spazzo via ciò che non serve più, pure te castello di sabbia e i tuoi fantasmi che, disinibiti, volano via, con la tua polvere, verso la libertà!


L’acchiappasogni

 

C’era una volta un ometto, piccolo come un seme, che decise di partire per dimostrare la teoria che aveva studiato per gran parte della sua vita, deriso da tutti. Voleva provare a ogni costo, osservando e sperimentando, ciò che alla scienza era sempre sfuggito: “ll fallimento dell’impossibilità”.
Viaggiò in lungo e in largo, con le sue gambine corte, percorrendo con cento passi, quanto un uomo normale avrebbe fatto con tre.
Una notte, colpito dalla bellezza di una volta celeste affollata di stelle, chiese aiuto alla Luna. Forse tutti gli altri avevano ragione? Forse era matto?
Questo pensò “il piccolo pazzo”, come lo chiamavano nel piccolo paese in cui era nato, minuto nelle fattezze, quanto grande nelle ambizioni che, a giudizio degli altri, rimanevano impossibili!
Assorto in constatazioni confuse ed improbabili, dopo quella supplica, udì una vocina incitarlo a spiccare un salto.
Ce l’avrebbe fatta con quelle gambine ad arrivare tanto in alto?
Ma quanto in alto?
Non aveva più niente da perdere, ormai, visto che i suoi sogni erano già stati dati per spacciati. Così si protese, per quanto poté, verso quel cielo, così bello, così impossibile, come le sue speranze e, poiché la tenacia ottiene sempre una ricompensa, si ritrovò, quell’omino piccino, picciò, a pizzicare le stelle che, da quel contatto, sprigionarono una pioggia luminosa. Erano desideri -i suoi e quelli di chi non gli aveva mai creduto- che scendevano come fanno le stelle cadenti nelle notti d’estate.
Lui li raccolse e li portò a casa, dove i compaesani lo attendevano per un solenne processo.
Svuotato il sacco distribuì agli ingrati ciò che avevano rinnegato, ciò che si era, sorprendentemente, avverato.
Il silenzio squarciò l’incredulità, cedendo il posto alla gratitudine, che era stata anch’essa per troppo impossibile, come la sua missione.
Da allora sono cambiate molte cose, pure il suo soprannome. “L’acchiappasogni” è ancora là e si adopera anche per noi, da quando è riuscito a dimostrare che niente è irrealizzabile!


Il guardiano della notte

 

Mi hai attraversato la strada, guardiano della notte, in una mattina qualunque.
Mi hai guardata per un istante, interrogando, con i tuoi occhi profondi, come le ore che seguono il crepuscolo, le mie possibili reazioni. In un secondo ho scorto, in quell’ espressione, la supplica a lasciar andare dalla mia mente, come fa l’albero nel salutare le sue venerande foglie in autunno, gli antichi retaggi medievali.
Ed io ho titubato, lo ammetto, e a te questo non è sfuggito.
“Cosa mi porterai animaletto antico? Cosa accadrà poi?”

Allora ti sei dissolto, come fa la notte giunta alle porte del giorno, e mi hai lasciata lì, pensosa, immobile ed avvolta in un dubbio traformatosi magicamente nella segreta rivelazione della tua saggezza cosmogonica.
A quel punto la superstizione si è mutata nella contemplazione estatica dell’armonia del tuo passo felpato, pronto ad apparire e a scomparire, fagogitato, infine, dal buio di cui solo tu conosci i segreti luminosi.
E sei andato chissà dove, nell’attesa di un’altra notte da proteggere, con tutti i suoi misteri, con tutti i suoi sogni.


Orme

 

Tracciano un percorso che insegue una meta e si orientano usando come bussola una brezza irrequieta.
Appaiono, poi svaniscono corrose dal tempo, suprema forza esogena, anche più del vento.
Ci parlano, in modo loquace, di chi le ha lasciate dietro alle proprie spalle, quasi come dimenticate.
Amanti della compagnia, viaggiano in coppia, lasciando sul terreno una sagoma doppia.
Impresse nella tavolozza di una distesa di sabbia, prima o poi, si liberano da quella gabbia.
Volano nell’etere dove, passo dopo passo, restano indelebili come scolpite nel sasso.
Il loro dileguarsi è, dunque, solo un miraggio; poiché esse scannerizzano la memoria di ogni  singolo passaggio.


Sdraiata sui tuoi occhi

 

Sdraiata in una trapunta di fiori,

mi sollazzo tra suoni e rumori.

Chiudo gli occhi,

tra le carezze del sole voglioso,

giaccio  immobile, con impeto smanioso.

E’ sempre sul limitar della boscaglia,

in quel campo di fiordalisi e di paglia;

è lì che non ti attendo invano,

serro gli occhi e avverto la tua mano.

Sento la forza di Efesto,

non più storpio, ma Adone lesto.

Mi prende tra bicipiti affamati,

mi rigira tra cespugli agguantati.

Tutt’uno con la ginestra e col pruno,

niente punge quei  due, già, fatti uno.

Senti quanto appagamento?

Scendo giù con la bocca, sotto il mento.

Desiosa passione di carezze,

che sa scendere e salire, nel piacer delle incertezze.

Esse son, davvero, tali?

No, guarda meglio: son certezze reali!

Stanno lì, in quel campo, insieme a me

ricettacolo delle fusa che ho in serbo per te.

Sentila tua pelle vestita dei miei capelli?

Odi i gemiti dei pensieri, miei,  più belli?

Sono là, mentre si alternano il sole e la luna,

due amanti accesi, nel tempo che mai abbruna.


Lacrima

 

Scivola lentamente la goccia

dall’occhio traboccante di ricordi.

Piccolo diadema di rugiada salmastra,

dentro ai suoi vitrei confini c’è una percezione sconfinata.

Scrivo per lasciarne la scia,

scrivo per tatuare nella carta quella stilla, quasi, evaporata.

Essa mi ha rigato il viso,

fondendosi col rimmel all’improvviso,

ma senza sporcarsi davvero,

senza macchiare la pelle,

dolore  incolore al lume soffuso delle stelle.

Un rigagnolo morente,

di affanno consistente.

Paure,

incomprensioni,

rabbia

ed imposizioni.

Scivola la goccia lentamente,

dal cuore traboccante del caos della mente;

nell’alcova dell’anima che rifugge il niente.

Dita puntate,

sensi errati,

colpe scagliate

da esseri frustrati.

Scivola la goccia e lubrifica la vita,

ne sento il sale,

impregnarmi le dita.

Bacio con le labbra questo mio tormento,

tra rime e non rime,

nel suo scivolo lento.

Cammina e cade nel pozzo delle emozioni,

già sorgente e poi foce di pensieri e sensazioni.

Fluisce e mi ci perdo dentro,

lei mi sente, mentre nel patema mi sventro.

Unica compagna negli sfoghi del cammino,

mi accarezza scendendo pian, pianino.

“Son sempre io, ogni volta diversa,

sono io la tua compagna fida e tersa.

Sento le tue parole mute di strazio,

sento il tuo pagar il presente,  eterno dazio!

Tutti sono amici, parenti o amanti,

sempre gli stessi, sempre diversi, in mutevoli istanti.

Fuochi fatui o meteore,

io invece sono il Sole con le sue infuocate aureole.

Sembro pioggia caduta dal mare,

ma evaporo, trasformandomi nel tuo sorriso più speciale!

Non sentirti sola, amica cara,

la vita è generosa e non sempre o, solo, avara.

Ogni volta che vorrai pescare nell’abisso del sentire,

aspettami e dai tuoi occhi sarò onda in divenire!”