37 Anni
Scritto, ogni anno un poco, “con un dito sulla testa ed una mano dentro il cuore” .
37 anni di pirouettes.
Ho vagabondato per boschi, monti, città e pianure cantando e divertendomi un mondo.
Ho zigzagato saltellando in punta di piedi su mosaici di vetro e pietre colorate per 37 lunghi anni e mi sono impegnata a rimanere in piedi ed in equilibrio sebbene fossero tasselli galleggianti.
Quando avevo cinque anni mio padre mi ha insegnato a fare il cemento e da piccola volevo fare la maestra muratore.
Ho corso come un treno, dritta su un binario lungo, forse troppo spesso, forse un binario troppo dritto, un treno troppo veloce ma sempre silente, avrebbe dovuto andare più piano e fare più rumore .
Parlo sempre a voce troppo bassa, ma canto sempre e pure un pochino forte come mia mamma mi ha insegnato.
Quando ero piccola le mie sorelle mi portavano nei prati dentro ad una carriola.
Ho un gilet con un cipollotto veronese nel taschino e temo sempre di arrivare in ritardo.
Ho imparato a scrivere in bella calligrafia in corsivo, ma poi non metto mai i puntini sulle i e nemmeno le punteggiature; dovrei imparare a non sorvolare sopra certe cose importanti.
I miei pensieri creano mille nodi e grovigli nei miei capelli e faccio fatica a sciogliersi anche perché temo mi possano scivolare le idee in terra.
Mi sento molto a mio agio vestita da uomo. Sogno spesso di parlare con Woody Allen.
Colleziono macina caffè.
Ho costruito, con complicatissime attrezzature, un raffinato dispositivo di protezione, molto evoluto e resistente all acqua salata e agli sguardi che mi incidono sempre come lame…soffro spesso.
Quando devo parlare in pubblico mi sfilo sempre gli occhiali, perché vedere ovattato mi tranquillizza e mi fa sentire protetta.
Non chiudo mai le porte a chiave, quando apro la finestra dietro al mio letto e respiro profondo con il naso nel cielo mi sento pienamente felice, così come quando entro al cinema o quando infilo le dita nell argilla fresca.
Continuerò certamente ad arrampicarmi su stupefacenti e complicatissimi progetti architettonici immersi nel verde o in mare e a guardare in giù, sotto, cercando il coraggio di lanciarmi, ma poi ridiscenderò sempre aggrappandomi e controllando bene dove mettere i piedi. Ho paura dei salti. Una paura fottuta di farmi male. Sempre.
Se ho paura mi nascondo e non mi trovi più .
Quando sono molto stanca piango.
Sotto la doccia, se sono triste, sogno che il mio corpo si sciolga a partire dalle lacrime e goccia dopo goccia finisca nel mare scivolando nello scarico, per poi rinascere.
Continuerò a camminare su ponti sperduti tibetani traballanti, nella realtà come nei miei sogni, con i miei piccoli e con il loro coraggio che diventa la mia grandissima spinta a proseguire sempre.
Una mattina ho bevuto il caffè, mi sono inginocchiata e con uno scalpello ho tolto della vernice grigia da una piastrella colorata, facevo fatica ma ho scrostato tutto il pavimento, una piastrella al giorno.
Mi piace dipingere, ma non ne sono capace.
In trentasette anni due notti stupende, disperate di vita rimarranno impresse nella testa e sulla pelle delle mie guance e delle mia braccia per ricordarmi che se si vuole si può creare ogni cosa e delle volte nascono cose meravigliose dal dolore.
I miei figli hanno I colori dell’autunno.
Ho camminato sul filo del funambolo, sembrava non avere mai fine, con la braccia aperte, la testa dritta, ho ignorato il vuoto che c’era al di sotto, sono riuscita ad arrivare alla fine, ho disfatto il nodo e ho lanciato la corda lontana per non ritornare mai più indietro. Quando è mattino o sera e c’è poca luce, se indosso la mia maglietta a righe e cammino sopra una strada ciottolata subito immagino di essere altrove e mi sento libera.
Ho cominciato a scrivere le pagine di mille diari, ma non ne ho mai finito uno perché tutto è nella mia memoria.
Salgo e scendo mille scalini di giorno e mentre dormo, hanno misure diverse, di marmo, bianchi, scale infinite arrotolate su se stesse e lisce; ho scoperto che se i miei piedi sono nudi e se li appoggio di traverso non cado.
Una notte con della vernice bianca sul muro ho scritto in grande “io lotto per la felicità” , io continuo a vedere quella scritta, ogni mattina quando qui si aprono le finestre ed ogni sera quando le richiudiamo.
Per regalo voglio una cassetta degli attrezzi per continuare a riparare e costruire ogni cosa e voglio un martello pneumatico per fare un buco sul soffitto, costruire una scala a pioli di legno e dei muri nuovi e bianchi tutti da riscrivere.
Scritto, ogni anno un poco “con un dito sulla testa ed una mano dentro il cuore”
Vortice
Sono io? ci sono io là, mi riconosco. Ho i piedi nudi. C’è una stanza, è grandissima, è bianca, sento tanto freddo, tanto. Non vedo finestre, eppure non è buio, c’è molta luce. Se alzo la testa mi accieca. Dicevo…quella laggiù in mezzo, sono io, sono seduta per terra, sono accovacciata, ho la testa appoggiata alle mie ginocchia; non piango. No no, non piango. Ho gli occhi chiusi stretti, ho tappato benissimo le orecchie con le mani per non sentire tutto questo rumore che mi dà fastidio, ho le labbra chiuse e respiro piano, non voglio più parlare. Faccio silenzio perché vorrei riuscire a riportare la quiete qui dentro.
Intorno a me c’è vento, un vento fortissimo, parlo sempre di vento, un vortice incredibilmente veloce, così definito, così secco, ha sollevato tanta aria intorno a me, ma io rimango stabile perché mi sono chiusa, io non ho paura.
Intorno a me ruotano velocemente aria e tanti fogli. Sono infiniti fogli bianchi, forse aumentano con l’aumentare del vento, alcuni mi colpiscono in faccia e sulle spalle, ma non mi fanno male. Forse il vento è la tua voce, le tue mille parole. Sei tu che parlando alimenti tutta questa aria, tutto questo frastuono, è la tua voce che mi sussurra eppure è così potente, così violenta, mi rende così spoglia. I fogli sono tutti scritti, con una scrittura finissima, rapida, incisa, nera, mi pare sia china, mi pare sia la mia scrittura, ma non riesco a leggere, troppa luce, troppo vento, troppo rumore.
Io tranquilla avevo cercato di afferrarli, alcuni li avevo anche presi, avevo iniziato a raccoglierli per conservarli qui davanti a me, sul pavimento, avrei voluto riuscire a leggerli, intravederne il numero delle pagine e riordinarli, per tornare a capire qualcosa e costruirci una storia con un senso.
Il vento è alimentato dalla tua voce, le tue mille parole confuse. Sei tu che pur parlando piano alimenti tutta questa aria, tutto questo frastuono, è la tua voce che mi sussurra eppure è così potente, così violenta, mi rende così spoglia. Io non riesco a leggere, troppa luce, troppo vento, troppo rumore, troppo freddo.
Non posso fare altro che rimanere qui, ferma, chiusa, in silenzio ed aspettare che questo vento finisca, solo quando non sentirò più questo rumore potrò riaprire di nuovo i miei occhi limpidi, alzarmi e riordinare questa stanza.
Memorie
Si riubriacava ogni volta di ricordi, così come era, sempre immersa nelle sue memorie dolci e amare.
Ne era talmente avvolta che il loro livello le arrivava alla gola e le era impossibile abbassare la testa e lo sguardo senza ri-riempirsi di esse bevendole,
senza che queste si riappropriassero di lei così facilmente scivolandole in bocca dalle labbra.
Lei sapeva che se ne avesse bevuta una sola goccia non avrebbe più potuto né voluto smettere di berne fino all’ultima.
Tutti si chiedevano perché camminasse sulle punte dei piedi, perché sorvolasse su tante cose, perché da quel giorno non volesse abbassare mai più il capo.
Cercando di districare infiniti nodi
Cercando di districare infiniti e stretti nodi nei miei finissimi capelli bagnati mi convinco che le radici di questi non siano così brevi.
Passano dalla mia testa congiungendosi ai miei pensieri, alle mie memorie, ai miei voleri e
finiscono dritti al mio cuore. Fanno tanti giri intorno ad esso a volte lo preservano
proteggendolo, a volte si contorcono e lo stringono con una tensione insopportabile.
Forse sono fili.
A volte lo scaldano e lo avvolgono, altre lo soffocano impedendogli di battere ritmicamente.
Non terminano qui il loro camminare, continuano invece fino ad arrivare al mio stomaco.
Finissimi, possono riuscire a tagliarmi. Più mi ostino a liberarmi e più mi stringono.
Sciogliendo, con le dita, pazientemente un nodo alla volta, sfilerò ogni filo fuori di me.
Tra me e te una porta, il cuore in mezzo.
Non è stata la tua mano, bellissima, ma il viaggio e la sua insaziabile voglia, instancabile.
Io fuori sempre, tu dentro sempre.
Entrambi soli, ogni notte.
Respira sempre la fessura io sento il suo respiro, ma non posso vederne la luce.
Rimasto lì, intrappolato, schiacciato, imprigionato, martoriato, il mio cuore.
Temo, ma desidero un ultimo soffio di vento, fortissimo, potente, ostinato quanto me.
Pazientemente sdraiata sulla sabbia di una clessidra,
mi sono s-tesa sull’arco di una vita intera.
Senza lenzuolo
Ho finto il sonno, ho finto anche l’amore chiudendo gli occhi.
I sensi affinati, tutti, per sentire la distanza farsi più vicina.
Ho aperto con coraggio le mie braccia, erano stracolme,
avevo paura.
Ti ho dato le mie vene gonfie, la mia pelle calda e dolorante per farti avvicinare.
Riunisco tutto questo mio dolore in un unico punto, più intensamente controllabile.
Imparo a cercare granelli luminosi tra litri e litri di magma incandescente.
Temo ma desidero
un ultimo soffio di vento, fortissimo, potente,
ostinato quanto me.
Vita
Intensa, dolce, bellissima,
chiassosa, forsennata, ammaliatrice,
piena di poesia danzi sorridendomi nelle piazze ciottolate,
mi ubriachi
e poi spietata, senza scrupolo, maledetta,
rude, con mani pesanti mi togli la terra sotto ai piedi.
Io e ti amo e tu, come tutti i miei amanti, mi innamori
e poi crudele mi ferisci, mi colpisci.
Avevo ragione da piccola a temerti, ti temo come temo l’amore
amandovi.
Grandi tormenti
La donna era seduta al tavolo tranquilla tranquilla perché aspettava che un uomo finalmente le servisse un caffè. Poi chiuse gli occhi per un secondo… Quando li riapri’ seduta di fronte a lei vide un’altra donna. Quella donna era se stessa. La se stessa le disse: “e ‘sti pesci li prendi o ti addormenti???
A volte si sentiva completamente ripiena di tormenti o come aggrovigliata in una rete dalla quale non riusciva ad uscire.
Questi pesci lei non voleva prenderli perché sapeva bene come fosse sentirsi stretti da una rete, non voleva ne prendere pesci, ne coltivare tormenti. Voleva solo rilassarsi infatti, bere tranquillamente quel caffè, poi avrebbe voluto riposare un pochino, chiudere gli occhi, respirare piano e sdraiata fingere di galleggiare immersa in acque senza tormenti.Lo urlò forte, arrabbiata, si alzò di scatto dalla poltrona, corse alle finestre, le aprii completamente e da queste entrò acqua, verde, limpida, tanta, sgorgava tantissima acqua, tutta insieme. La stanza si riempi’ molto velocemente, ogni cosa iniziò a galleggiare, la rosa che uscì dal lungo vaso, Il tartufo, lei stessa, infiniti pesciolini piccolissimi, bianchi, nuotavano in branchi intorno a lei. A lei piacevano molto, in cuor suo avrebbe anche voluto sfiorarli e ci penso’ per un attimo, ma non provo’ a toccarli con le mani… un po’ forse temeva di rovinarne l’incanto, un po’ forse a lei bastava guardarli con gli occhi per conoscerne la vera bellezza. Però non volle resistere ad una tentazione, una tentazione che riguardava solo lei e nessun altro: quando era al mare adorava galleggiare sdraiata sulla schiena e mentre galleggiava adorava guardare il cielo e la forma delle nuvole…Allora si lasciò andare, prese un respiro, si tappo’ il naso con due dita, si buttò all’indietro, aprii le braccia e le gambe, la schiena e la testa lievemente inarcate e si rilasso’ fino a che non sentii l’acqua arrivarle dentro le orecchie. Quando l’acqua arrivò a coprirle le orecchie e i suoi capelli fluttuavano lunghissimi e leggeri sul livello dell’acqua, chiuse gli occhi, si inumidì le labbra, iniziò a respirare con la bocca socchiusa e si concentro’ sul rumore che l’acqua creava dentro la sua testa. Un rumore ovattato, continuo, fluttuante danzava ora con i suoi pensieri, come un canto lontano, un eco di montagna, un segreto sussurrato.
Passo’ del tempo così immersa in quell’acqua, poi sentì freddo forse e si risvegliò come da un sonno. Apri’ gli occhi, era nel suo bagno, la testa appoggiata all’estremità della vasca. Le ginocchia erano l’unica parte del suo corpo a non essere immersa, uscivano oltre il livello dell’acqua, creavano in questa delle ondulazioni concentriche e la luce della lampada gialla, posta dietro di lei, creava delle ombre che le fecero ricordare i due promontori che davanti all’isola di Milos uscivano dal mare tra le luci della sera. Spinse di nuovo la testa all’indietro, sotto la schiuma per buttare all’indietro tutti capelli, si aiuto’ con le dita delle mani. Spense l’acqua, girò il rubinetto a manovella verso sinistra. Immersa, così come era, nella sua vasca le era sembrato di sognare. Solo una cosa era vera, di quello che aveva visto e sentito, il rumore dell’acqua nelle orecchie aveva veramente prodotto dei canti in lei, delle voci che sentiva fin dentro lo sterno. Un po’ delusa si spinse sulle punte dei piedi, spostando il sedere all’indietro sul piano della vasca e si sedette con la schiena dritta, le spalle fuori dall’acqua e il seno appena coperto della schiuma bianca. Stette lì un pochino a pensare guardando fuori dalla finestra, il giorno stava terminando, era arrivata la sera e benché non avesse l’orologio al polso sentiva di essere in ritardo. Si sciacquo’ via il sapone dal corpo ed uscì, aveva sempre freddo quando usciva dalla vasca e non vedeva il momento di accendere il fon per asciugarsi tutta, non solo i capelli. Si guardò allo specchio, per riconoscersi meglio si avvicinò ad esso e tolse il vapore con la mano destra, si guardò in quell’unico piccolo spazio nitido e si guardò dritto negli occhi. Si guardò un po’ così, con la sguardo Severo e la testa abbassata, le sopracciglia inarcate. “Ok” si disse, basto’ un’occhiata veloce e capi’ subito che quella sera era una delle sere in cui si piaceva… Iniziò a sistemarsi i capelli, che non pettinava mai perché convinta che senza nodi le potessero scivolare le idee in terra. Dio no, si stava riperdendo nei suoi vaneggiamenti mentali, poteva perdersi per ore in essi e lo sapeva bene, allora scrollo’ la testa come per svegliarla, per scuoterla e riportarla al mondo reale. Quella sera non avrebbe vinto il suo pensare sullo scorrere del tempo, non poteva fare tardi. Quella sera le sembrava già primavera e stava aspettando qualcuno.
Io, il mare e la mia compagna
Mi ritorna in mente con innamorata insistenza quel campeggio a Molfetta.
L’acqua era limpida, verde, i sassolini bianchi; per scendere alla spiaggia delle scalette di sasso, tutto intorno dei sacchi di iuta pieni di riso o delle barche come sdrai.
Il silenzio, quel silenzio era terapeutico e mi urlava nelle orecchie finalmente parole nuove che prima non riuscivo ad ascoltare. Io le coglievo come farfalle tra l’aria della sera.
Aspettavo la notte , quando tutti si ritiravano, io uscivo in silenzio.
Forse fuggivo…
I miei occhi pensavano di sognare tanta era la bellezza che mi circondava.
Sentivo finalmente di meritarla.
C’ erano i lumini ovunque fino al chiosco. Bevevo la mia acqua tonica con limone e scendevo al mare, lungo gli scogli, nel nero più tenebroso, non faceva paura perché l acqua era calda, piacevolmente avvolgente.
Io giocavo a sfiorare l’acqua con i palmi delle mani aperte. Notavo con tranquillo entusiasmo come tutto il mio corpo dentro lì, da solo, diventasse sicuro.
Sentivo i miei piedi ancorati ai sassi scivolosi, mi sorreggevano finalmente coraggiosi e io non sentivo più tutto quel male nel petto.
Stavo lì, sola, in quel gioco, per ore.
Lavavo via ogni cosa, la mia muta, alla ricerca della mia vera pelle. Non mi asciugavo, pensando magicamente di conservare tutta quella forza anche lontano da lì, di giorno.
Durante la risalita respiravo piano, il ritmo del mio respiro mi faceva coraggio, sulle spalle sempre lei.
Mi sentivo un guerriero che corre verso la fine e con eroicità nasconde la sua rassegnazione…
Durante il percorso del ritorno, ogni sera io sapevo che sarebbe tornata da me, mentre camminavo, lei tornava.
Mi guardava da dietro il fogliame, sentivo le sue fuse e già immaginavo i suoi occhi taglienti su di me, poi si avvicinava e saliva con un salto sulle mie spalle, si sedeva sempre accovacciata, come un grosso animale selvaggio ormai addomesticato.
La paura
Non mi combatteva più però schiacciandomi a terra con il suo peso ringhiando feroce, con i suoi artigli non mi graffiava più, mi teneva ormai compagnia, sentivo il calore del suo fiato, sul mio collo.
A volte mi piaceva la sua presenza, mi lasciavo coccolare dall’umido del suo naso e la sua lunga coda mentre camminavo mi accarezzava la fine della schiena.
Insieme seguivamo i lumini che lungo il sentiero portavano ad una capanna marocchina, in mezzo al prato.
Arrivate in quel prato, davanti alla capanna, guardavamo il cielo, sentivo il fresco della notte sulle guance e mi sentivo ancora così viva.
La capanna era deserta, dentro legno e tappeti rossi, viola, gialli, comodi cuscini sui quali leggere.
Lì la mia compagna si addormentava accanto a me, scendeva sinuosa sulle mie ginocchia, appoggiavo la testa al cuscino, chiudevo gli occhi e le mie gambe diventavano pesanti, così come i miei pensieri che rotolavano a terra posandosi in tregua per un istante.
Non c’ era musica, ma tutto era così perfetto e io stavo così bene che la sentivo comunque.
Il mio cuore, grazie ai miei occhi e alla mia pelle produceva felicità, felicità e forza.
Imparavo a cercare granelli luminosi tra litri e litri di lava incandescente.
Poi uscivo, uno sguardo al mare, Il vento mi asciugava l’acqua dai capelli e le lacrime dagli occhi e io piano piano imparavo a vedere anche senza la loro lente.
Era tornato il giorno.
Avrei smesso di essere sola.
e lei, a volte, durante il giorno, se non ero sola, voleva ritornare ad essere feroce.
I miei figli hanno i colori dell’autunno
A Jacopo. La Mia più grande e meravigliosa e giustissima e coraggiosissima Scelta. Jacopo quindici anni di stupore. Quindici anni fa nascevi tu. E oggi, non a caso, il sole condivide il cielo con un temporale. Perché tu sei così: ragazzo poliedrico. Mi hai dato una finestra aperta sulla strada, perché tu sei innovazione, sei cose nuove, sei scoperta, sei curiosità, sei creazioni che non finiscono, sei un circolatore di pensieri e idee che non si fermano mai, sei il relativismo, ribaltatore di teorie, giocoliere di parole sulle note, studioso costruttore ribelle, sognatore. Sei stata la mia più grande e meravigliosa e giustissima e coraggiosissima Scelta. I violini te li suonerei io, Jacopo, se solo fossi capace, come te, di creare musica da ogni cosa che tocchi. Mago.
Ad Enea, mio progettista, filosofo, ballerino, urlatore. “Mamma ma se dopo la morte c’ è un’altra vita, anche quell’altra vita avrà una morte che porterà ad altra vita. E noi così potremmo vivere tantissime volte ed incontrarci ogni volta.” Enea. Sette anni di grandissimi, meravigliosi, fluttuanti, colorati ed interminabili palazzi costruiti con i libri. Sette anni di lunghe chiacchierate e ragionamenti complicati prima di dormire. Sette anni di follie urlate dalla finestra che si apre sul Monte Rosa, messaggi “importantissimi” per ” gli uomini di tutto il mondo e per la Terra e il Cielo e la Luna”. Sette anni e sogni editoriali con ” le 12 fatiche di Ercole” e ” i 12 sogni di Enea”. Sette anni di tanti animaletti cercati, salvati, curati e poi liberati con un pochino di felicità, tanta soddisfazione e un pochino di malinconia. Sette anni di pozioni magiche, profumate di erbe e fiori, cimeli delle fiabe custodite in ampolle, ampolline di vetro. Sette anni di corse veloci su e giù fino al bosco in estate, in inverno, in primavera, con la neve, sempre. Sette anni di meravigliose nuotate al lago. Numeri scritti sulla sabbia, un kimono bianco da indossare rigorosamente senza canottiera, il coraggio di staccare da solo dentini da latte. Sette anni di sguardi che mi sfidano molto arrabbiati, di abbracci che mi scaldano, ma soprattutto sette anni di grandissimo romanticismo, poesie e bellissime parole di amore. E tanta tanta bontà.
Senza scalinate
Una lunga strada bianca di sasso, antica! rialzata come sopra ad una terrazza, un susseguirsi infinito di fili per il bucato, una distesa di panni colorati (per di più erano vestiti piccolini per bambini e lenzuola) svolazzanti al vento fresco e al sole, profumo di sapone Marsiglia…sotto, i nostri nasi meravigliati. Anche il naso si può meravigliare con il profumo di bucato. Ci sono musiche e nenie di paese, ma non alte, sono in sottofondo E così si sono meravigliate anche le nostre orecchie. Arriviamo poi in una piazza, sempre rialzata, dei bambini giocano a palla e degli anziani sono ai tavolini e giocano a carte. Enea, appoggiato ad una ringhiera di marmo bianca che circonda tutta la piazza, rialzato sulle punte dei piedini, allunga il braccio e con il dito mi mostra il mare rosa (non so se fosse il tramonto o l’alba non ho mai saputo distinguerli), ricordo perfettamente la sua espressione mentre si volta. Poi Jacopo alza un dito al cielo e mi mostra tante mongolfiere colorate e leggere, rimaniamo così a guardare il cielo per tanto tempo, in silenzio. Forse sono le loro dita che fanno apparire le cose o forse è solo da lì che io riesco a vederle.
I miei figli avevano dei sorrisi meravigliosi, anche gli occhi sorridevano stupiti, io provavo come una specie di soddisfazione per quello che ero riuscita ad offrir loro.
Eravamo a Napoli, mi sono svegliata presto e sono riuscita a catturare il sogno.
Finalmente un sogno senza scalinate.
La domenica delle palme
La domenica delle palme ero sempre felice. Già dal mattino presto c’era una luce nuova. Le finestre aperte, la musica in bagno mentre ci preparavamo, cantavamo sempre. Indossavo il mio vestito preferito primaverile e mentre mia mamma mi intrecciava i capelli la mia immagine, riflessa nello specchio, mi sembrava bella quasi quanto la sua; mentre camminavo la sensazione delle gambe nude, dopo tutto l’inverno, la ricordo ancora… sentivo l’estate vicina. Con le mie amiche chiacchieravo e ridevo sventolando gli ulivi. A me sembravano palme, mi ricordavo del mare e mi sembrava enorme la loro ombra. ero io a essere piccina.
TEMA: “Quando il sindaco toglie l’acqua dopo i pasti”
Quando il sindaco toglie l’acqua dopo i pasti io sono molto molto molto felice e lo vorrei abbracciare forte, perché posso non lavare i piatti senza avere il senso di colpa.
E vado a letto beata a vedermi un film e mi sento a posto con la coscienza.
Allora io vorrei proporre questa cosa almeno una volta al mese.
Perché ogni sera, quando rassegnata mi alzo dalla tavola e mi avvicino al lavandino per aprire il rubinetto, io in cuor mio sogno di potermela svignare, io ci spero sempre, spero sempre che non esca nemmeno una goccia.
Invece non capita mai.
Solo una volta.
La volta più bella della mia vita ed il super-io taceva, “muto amor mio, silenzio”.
Contorni
Circondata da nessuno, solo avvolta in una tristezza che opacizza ogni cosa intorno,
opacizza anche me.
Quando è notte, io mi fermo a guardare il cielo e solo quando mi siedo ed aspetto lo riconosco, solo là dove c’è la luna io vedo di nuovo nitido e riconosco ogni suo contorno…
Da lì, da quello spazio di cielo, che circonda la luna, così nitido e definito esce la sua voce che diventa il mio pensiero, parla e mi ricorda sempre le stesse parole…
Ed io sento il suo suono che diventa il mio respiro e ritorna tranquillo ed anche il mio specchio mi ritrae di nuovo limpida e finalmente torno a riconoscere i miei contorni.