Per sempre
Quando il sole riflette bagliori sul tetto
capisco che è il momento di darsi da fare,
il tempo di un ultimo sbadiglio e lascio il letto.
Uno sguardo all’infinità del mare
e vado a preparare il nostro caffè.
Mi piace pensare di aprire così, per sempre,
il mattino.
E fare colazione con te,
dopo averti osservato mentre riposi vicino.
Ma vorrei lasciarti dormire ancora
e compensare le tue notti senza sogni,
concederti il tempo mai concesso ora
e regalarti spazio nella sequenza dei tuoi bisogni.
Hai vissuto per me ogni singolo abbraccio
e tutti i tuoi pensieri.
Ed io, nel ricambiare,
non so se degnamente lo faccio.
Ma ti amo, e oggi più di ieri.
Per le tue spalle stanche,
per la tua voglia di sorridere anche ai guai,
per le tue tempie quasi bianche
e per tutti i “no” che non dicesti mai.
Per tutto questo e aldilà della mia memoria,
“Grazie Amore” per questa nostra straordinaria storia.
Rosina
Rosina un giorno più non si destò.
Foglie secche di geranio sparse sul terrazzo,
vecchi panni stesi al sole da un bel po’,
la foto di un suo caro da ragazzo
e una sveglietta senza tempo sul comò.
Crepe ai muri e rubinetti gocciolanti
e su una corda calze nere ciondolanti.
Da quanto tempo e per quanto ancora
rimarrai scordata tra queste quattro mura?
Vivesti un lontano giorno da gran signora
ma la felicità più intensa poco dura.
E sola resterai nella squallida dimora.
Ma la curiosità qui seguirà il suo rito
e qualcuno busserà un po’ più che insospettito.
“La strana Rosina è un bel po’ che non si vede!”
A non saperne nulla ognuno in fretta giura.
Dove sarà finita? Ormai ciascun si chiede.
Lei con il suo mistero faceva un po’ paura.
Ma il timore immotivato, il posto all’ansia cede.
Così con partigiana decisione
una spallata butta giù il portone.
E ciò che quel qualcuno vide
non fu certo uno spettacolo allettante.
Il sole luminoso sul volto cereo stride.
E lei sposa in quel ritratto è più raggiante.
Tra nuvole di bambagia adesso lei sorride.
Briciola di cielo biava,
a chi, a suo tempo, volentier la dileggiava.
Chi vola vale
(Viaggio immaginario nel passato attraverso una foto)
Sabato, 19 dicembre 2020 ore 20,28
Un pomeriggio di questi strani giorni, scanditi dalle continue e aggiornate notizie sulla pandemìa che ha colpito il mondo intero, mi sono ritrovata a pensare, stesa sul divano, una foto.
È una foto in bianco e nero che ritrae tre persone: una donna, in piedi, vestita di scuro, e, accanto due bambini, una femmina, più grande, e un maschio, biondo, più piccolo, seduti su un piccolo aereo di ferro. Sul fianco di questo aereo una scritta, fatta con un gessetto bianco: “Chi vola vale”.
La donna in piedi era mia nonna, e i due bambini, mia madre e mio zio Vito, entrambi con la mano destra alzata in alto, come a indicare un saluto dall’immaginario volo.
La foto in sé non ha un particolare messaggio da offrire, se non fosse per questa scritta. Perché allora volare era un vero sogno, qualcosa di irrealizzabile, se non riferito a tutti quei militari che in quel periodo erano impiegati per le missioni belliche in volo.
Mia madre e mio zio Vito, due fratellini che, ad occhio e croce, in quella foto potevano avere l’una otto nove anni e l’altro due o tre anni meno. La nonna appariva nella sua statica posa da foto, un po’ stanca, ma amorevole nell’esserci lì ad accompagnare i suoi due bambini a prendere un po’ d’aria. Sembrava una giornata di primavera, soleggiata, ideale per una passeggiata all’interno della villa comunale.
E come per incanto, mi sono ritrovata a immaginare queste tre figure mentre camminano lungo il passeggio del porto della mia città, ancora spartano, ancora povero di attrattive.
E le immagino, mentre la nonna avanza con passo lento ma costante, e i due bambini, dietro di lei, che ogni tanto si fermano a guardare dalla ringhiera di ferro, il mare. E si perdono in fantasie, col cuore acceso, parlando concitati del loro papà raìs mentre affronta la furia dei tonni sul rosso mare tra le camere della mattanza.
Poi, per guadagnare il passo dalla loro mamma, prendono a sgambettare allegramente, fino a raggiungerla.
Ha un sapore di antico e di polvere, ma sa di mare pulito, incontaminato.
E quella era la mia città, semideserta tra coprifuochi e militari armati.
Gli anni quaranta, di grandi povertà, ma anche di grandi slanci di solidarietà. Perché a nessuno potesse mancare nulla, tutti si adoperavano a barattare ciò che avevano. Se la nonna dava del pesce, il vicino dava farina, o le uova fresche, il latte.
Non era un bel periodo, tutt’altro, evidentemente, ma faceva amorevolmente tendere le mani tra le persone, che si aiutavano senza riserve, riconoscendo il titolo di fratelli del destino. La fratellanza nella crisi di una guerra antisemita battuta col pugno del dittatore, come il martello di un giudice.
La fratellanza della Patria, la fratellanza d’Italia.
Quella foto in bianco e nero, nella mia mente trova colori, ma non vivaci. Colori pastello, tra le vie del piccolo centro, ancora circoscritto dalla lingua di terra sul mare, fino alla Piazza Vittorio Emanuele, dove troneggiava un tempo un grande teatro, poi distrutto dai bombardamenti.
Perché mi viene in mente tutto ciò? Perché la paura della guerra non metteva in ginocchio il coraggio di uscire e camminare. Portare i propri figli a correre e distrarsi.
Magari, correre per scappare, ad un tratto, per andarsi a rifugiare al suono della sirena.
Ma c’era un infinito senso di libertà interiore, quello agognato. La speranza di poter decidere e di non subìre le decisioni.
Eppure, sdraiata sul divano del mio salotto, mi viene da pensare a quanto ci schiavizzi quest’altra guerra. Quella batteriologica. Ma non solo quella, ahimè.
E quelle mani, che un tempo si tendevano per scambiarsi beni e favori, ora si trincerano, si difendono. Devono farlo.
Ecco che mi torna in mente, straordinario e significativo l’inciso “Chi vola vale”, specialmente con la fantasia. Che oggi, ormai, è andata a schiantarsi sotto forma di un piccolo aereo di ferro disperso nella nebbia.
Ho guardato dal basso
Ho guardato dal basso
tutte quelle grandi imprese
che non avrei mai saputo sostenere.
Ho guardato dal basso
le donne che si sono spese,
lottando fino a vincere,
o fino a morire.
Ho guardato dal basso
mia madre,
mentre teneva testa al dolore.
Ho guardato dal basso
tutti i rimproveri e le legnate,
come macigni da alzare,
con la spina dorsale.
Ho guardato dal basso
gli occhi sorridenti e stanchi
del mio amato,
per non sentirmi indegna.
Ed ho guardato dal basso
nascosta, non vista,
una formica che sorregge
il fardello di una provvista.
Ed infine,
ho guardato dal basso,
inesorabilmente,
anche me stessa,
quella del giorno prima,
perché meglio di quella presente.
Ma stasera…
Tra cielo e mare,
un orizzonte
mi invita cortese
a guardare di fronte.
E da lì riparto.
Perché sentirsi piccoli
non salva il mondo,
né lo migliora.
E allora…
Come un gabbiano,
guarderò l’infinito,
che gracile si conterrà,
sul palmo della mia mano,
perduto, smarrito.
Sguardo di rapace
Orizzonti irraggiungibili davanti agli occhi tuoi
che fissano tutto senza mai guardare,
perché niente c’è che aggrada e tu ti annoi,
eppur di cose straordinarie ce n’è un mare.
Sai, ho avuto anch’io i tuoi stessi anni,
ma li ho vissuti zitta e in punta di piedi
per non pesare troppo sul conto degli affanni.
E invece ora aspetto che tu soltanto chiedi.
Perché quello che finora tu hai voluto
si è sempre fatto in modo di concretizzarlo.
Ma forse il sogno più importante tu me l’hai taciuto
e, credimi, è difficile saper d’immaginarlo.
Sei un tesoro chiuso a chiave in uno scrigno
e la chiave sua gettata in fondo al mare.
Di una nidiata saresti il più bel cigno
ma io non so più come poterti aiutare.
Va bene, vivi come puoi la tua irruenza,
che tanto, prima o poi da te se ne va via,
per cedere il suo posto alla prudenza
che regala calma alla tua ribalderia.
Vorrei dirti quelle cose per tacer le tue paure,
che avrei voluto tanto anch’io gridare,
che avrei sfidato il vento con la scure,
ma il vento non si lascia malmenare.
Lo so che ogni parola per te è priva di senso
e non adesso, non ora capiresti.
Lo so perfettamente, ma sento un vuoto immenso
tutte quelle volte che d’arroganza vesti.
E più tu cresci più debole mi sento
e più mi accorgo che i tempi son cambiati.
D’averti avuto di certo non mi pento
ma delle mie fatiche gradirei dei risultati.
Mi guardi come fossi trasparente
e mi trafigge il cuore la tua indifferenza.
Esser genitore non è cosa da niente
e, per evitar discorsi, invoco la pazienza.
Un giorno il volo sarà una mia conquista…
e allora, vedrai caro, vedrai che ti vedrò
perché migliore sarà allora la mia vista.
Nessun dei tuoi percorsi perderò.
Vedrai che a guidarti allor sarò capace
e un po’ ti stupirai se tutto ti riesce.
Avrai lo sguardo deciso d’un rapace,
che guarda il suo successo che sempre di più cresce.
Ma cresci intanto tu e fallo dall’interno,
non è il tuo corpo che deve dimostrarlo
poiché quello un dì s’arrende, non è eterno,
ma l’animo tuo continua, lui può farlo.
E lo ricorderà il resto della gente
se bene condurrai la vita tua terrena.
Senza umiltà un uomo non è niente.
Tienilo presente, figlio mio, e rendimi serena.
Ed è poesia
La poesia è come una gazzella,
che corre saltellando felice
nella mente della gente romantica.
Rende la vita, di certo, assai più bella,
anche quando nulla più ti dice
che è sempre una cosa fantastica.
Ricorda che le poesie più belle
son quelle nate con l’animo in magone,
nei periodi più bui della vita.
Di un cielo oscuro sono nuove stelle,
del nostro animo son la convinzione
che, anche allora, ancor non è finita.
Se quella luce dentro noi è la fantasia,
siamo fortunati ancor di più.
Perché cogliamo la bellezza in un bel dire.
Perché dentro ogni parola c’è una melodia,
due occhi buoni e grandi di un intenso blù
che spiano l’animo senza mai mentire.
E ascolti e guardi con quegli occhi
e rileggi fiero i tuoi stessi versi.
Trasformare in meraviglia la tristezza
a qualcuno sembreran pensieri sciocchi.
Ma son soltanto pareri assai diversi.
E son certa che l’animo gentil li apprezza.
E quando il tempo avrà ingrigito il capo chino
rileggendo i versi scritti, un dì allor lontano,
davanti ad uno specchio arriderai sommesso
nel rivedere il volto ritornar bambino.
L’ispirazione ti porrà la penna in mano
e scoprirai l’animo tuo uguale com’è adesso.
Un prato di mille e mille margherite
Un prato picchiettato di mille e mille margherite,
come un cielo nitido con tante tante stelle,
ed una casa che ci accoglie, tra alberi d’ulivo,
dove ore di sereno scorrono infinite.
E’ un sogno che si oppone al mio animo ribelle,
come fuga da un presente così come lo vivo.
Ci penso spesso, così mi par di respirare
di quella collina la sana aria pura,
tralasciando i vecchi sogni di ragazza,
che amava tanto star vicino al mare.
E non è certo il mare a farmi più paura,
se certe ottusità fan di me un’altra razza.
Gente che ama agitarsi e stridulare
e camminare con passo sì arrogante,
ti guarda male se appari differente.
E contrasta con la mia voglia d’amare,
in modo troppo netto ed irritante,
l’atteggiamento rozzo e irriverente.
Peccato, penso, contemplando il turchese manto,
mi ero ripromessa di viverci gioiosa
e, invece adesso, con la testa sto già altrove.
Eppure un tempo questo posto era il mio vanto.
Anche se esso non ha colpe, mi esaspera ogni cosa.
E, dentro la mia mente, il pensiero di fuggire mi rimuove.
Ed ecco che qui più non ci vivo.
E cresce e urla la voce dentro di me imbelle,
alla ricerca di serenità mute e infinite,
in quella dolce casa tra alberi d’ulivo,
sotto un cielo nitido di tante tante stelle,
che illuminano un prato di mille e mille margherite.
Quella finestra sul cortile
La finestra sul cortile si apre e da lì sbuca
un canto d’uccellino in gabbia accanto al muro.
Belle pupille chiare come acquamarina,
capelli a crocchia dietro la bianca nuca
e un’esile figura dentro un vestito scuro.
Questa era l’immagine di nonna Paolina.
Nonna Paolina non era la mia ava,
ma stava in una casa accanto a quella mia.
La voce sua era un gentil sussurro
e, quando mi vedeva, sempre mi chiamava.
Ed io accettavo la dolce cortesia,
prendendo la sua mano bianca come burro.
Mi conduceva spesso all’interno del suo stare,
dove sentivo odore di lavanda e di bucato,
a riempir le mani di chicca colorata.
Ed io, spoglia dei miei nonni, mi lasciavo coccolare.
E mi cullava quieto quel fare assai garbato
nel cristallino sguardo degli occhi suoi di fata.
La finestra sul cortile si schiuse da lì ancora
ed io aspettavo sempre, affacciata dirimpetto,
l’emettere del canto del biondo canarino
e l’apparir benevolo dell’umile signora,
per presentarmi di fronte al suo cospetto
ed accettare un suo cioccolatino.
E come spesso accade agli eventi più soavi,
il tempo ferma pure le cose come questa.
Ma quando sei bambina a certe cose non ci pensi,
lontani son dal cuore gli avvenimenti gravi.
La melodia del canarino si fece un dì più mesta
e la finestra sul cortile restò chiusa nei silenzi.
Angiulina cantava a squarciagola
E Angiulina cantava a squarciagola,
con la sua aria gioiosa e affaticata.
Quante scale a lavar tutta da sola,
ma il canto le riempiva la giornata.
Eppur la vita con lei non fu gentile,
la schiena a pezzi prona sul gradino,
cantando forte a questo mondo vile,
lavava via da esso gli strazi del destino.
La faccia sua, una maschera sembrava,
un girotondo di rughe attorno a occhiaie
e tra le guance un naso pesto stava,
ma dalla voce le note uscivan gaie.
Io la guardavo, dal basso dei miei anni
e mi sembrava una gran brava donna,
che con amenità lottava i suoi malanni,
mentre l’acqua inzuppava la sua gonna.
Per evitar lo sdrucciolo, scendevo piano piano
e mi accingevo per non far tardi a scuola
ed Angiulina mi resse, un dì, con la sua mano
per poi tornare a cantare a squarciagola.
Quelle pezze di memoria, della mia lontana infanzia,
affiorano alla mente con tutti i lor odori
e dentro l’animo, pian piano poi si stanzia
il ricordo di quei tempi con tutti i suoi valori.
Pur se rudi apparivano i modi sgangherati,
le fatiche di Angiulina le intuivo già da allora.
Quei brani, liberati dal suo canto e a me insegnati,
mi fanno domandare se Angiulina li sa ancora.
Al crepuscolo
La luce del crepuscolo tenue si colorava,
di rosa e un po’ d’arancio, all’orizzonte.
Lo sguardo del vecchio senza meta rovistava,
malfermo in piedi col bastone, sopra un ponte.
La mente torna indietro a frugar dolci ricordi,
perché del più vicino ieri non v’è rimasta traccia,
per evitare il morso di quei dolori sordi
e dipingere un sorriso sulla rugosa faccia.
Il passo era lento, ma per fuggire andava bene,
da dove altri, come lui, non han più età,
dove le giornate non sono più serene,
perché i camici bianchi non hanno mai pietà.
“ Ninetta mia, aspettami sempre lì seduta”
Il volto dell’amata si stagliò a lui sorridente.
Camicia logora e pantaloni in tela iuta,
il passo trasandato in mezzo a tanta gente.
La donna lo guardava, attonita ma zitta.
Avea capito d’esser specchio d’un rimpianto.
Il vecchio toccò il petto per comprimere la fitta
e ad un tratto si piegò, prostrandosi a lei accanto.
La donna lo sorresse fra le braccia cortesi.
“Ninetta mia sei tornata finalmente!”
E l’illusione diede forza ai sensi arresi
per l ‘ultima carezza al viso e poi più niente.
Groviglio di curiosi attorno all’accaduto,
per osservar ‘l destino d’un uomo ormai avvilito.
“E’ solo un vagabondo” disse un tizio lì seduto.
Però era anche un uomo che non fu più capito.
Dal Viale delle Sirene
Ciò che brilla in fondo al mare
da qui, a una certa distanza,
lo potrai osservare
dal balcone di una stanza.
Sono sassi colorati,
sono alghe brune e verdi,
sono come mondi lontani
e con lo sguardo ti ci perdi.
C’è un infinito così azzurro
nel mare calmo e sereno,
tra le pietre che sembrano di burro
dormono le onde del Tirreno.
Silente presenza di un vecchio carrettino,
immagine mesta di un rurale passato,
augurio quotidiano di un dolce mattino,
col suo stare fermo e abbandonato.
Più ad ovest una torre saracena
e un susseguirsi di case in pietra e calce,
fino al punto più ad est che guardi,
fino a formare una maestosa falce.
Il garrire delle rondini è un grido di libertà
che pare dire di questa calda dimora:
“Mi lascerei morire, ma di felicità,
se Dio volesse che io morissi ora!”
Ma non solo lei gode di questo bene,
ognuno penserebbe ciò
passeggiando lungo il Viale delle Sirene.
E forse un giorno
E forse un giorno rivedrò di nuovo la mia culla,
in cui un tempo dormivo per sognare.
Ma di quei sogni non resta ormai più nulla
perché quelli erano più limpidi del mare.
Ma il tempo passa e cambia le persone
che per difesa imparano a dir bugie,
che fan da scudo ad ogni delusione.
E son purtroppo cose che ho fatto pure mie.
E ci dispiace dover mentire quando ci conviene
Ma trasformiamo tutto in un bisogno.
Poiché pensiamo sia per il nostro stesso bene
E per ogni vil bugia svanisce un altro sogno.
E passa il tempo crescendo nell’inganno.
Fin tanto che c’è vita, abbiam sete di vedere
se a spingersi fin lì le cose come vanno.
E s’allontanano da noi le motivazioni vere.
Ma quando decidiamo di aver esagerato
e ci voltiamo dietro per pensare,
il tempo della resa è già arrivato.
Vorremmo risentir le voci care
Quelle stesse che ci guidavan bene.
Oh quante volte non le abbiam sentite!
A risparmiarci di patire mille pene.
La vera forza nasce dall’essere più mite.
E si ritorna con la mente a ricordare
a quando ancor la vita non era così brulla.
A come poteva esser facile sognare
quando si stava dentro quella vecchia culla.
E tu riposa
Di una lunga e insonne notte
passeggiano tediose le ore che contiene.
Le ansie e le paure si inseguono a flotte.
Chissà cos’è che ad alzarmi mi trattiene!
Ascolto immobile il regolare tuo respiro.
Ah come mi gioisce che c’è ancora.
Non rischio di svegliarti, se tu mi senti in giro
e il calore del tuo corpo, vicino, mi ristora.
Ma io vorrei poter placare la tua stanchezza,
perché la tua giornata è sempre faticosa.
Scemare quel dolore alla schiena che ti spezza.
Ma tu non ci badare, caro, e riposa.
Ed io ci penso a quando te ne vai,
a quando mi saluti sorridente
per affrontare il mondo coi suoi guai,
ed è piuttosto allora che vola la mia mente.
Ed attraverso essa rivolgo una preghiera
che tenga te per mano lungo il tuo cammino
perché tu meno stanco ed affannato sia alla sera
e riabbracciarti come fossi il mio bambino.
La luce della luna s’affievolisce piano
e cambia dimensione all’ombra di ogni cosa
e conciliare il sonno è diventato vano.
Ma tu non ci badare, caro, e riposa.
Fissando silenziosa il tetto della stanza
ritorno a ripensare i tempi già trascorsi.
Mi sembra che per te non ho fatto abbastanza
e quel pensiero mi crogiola in rimorsi.
Forse quella volta avrei dovuto più capirti,
o, forse, in quell’altra non dovevo offenderti.
Dovrei addolcire del mio essere i suoi lati irti.
Oh come mi angoscia l’idea di perderti!
Tu riposa ancora un po’, compagno mio di vita
perché lungo è come al solito il tuo giorno.
Per me la notte, invece, è già finita
ma mi rinfrancherò, stasera, all’avanzar del tuo ritorno.
È tutto a posto
E’ tutto a posto,
tra gli indumenti, maglioni e sciarpe,
sarà più freddo l’inverno in quel paesello.
Ma non lo so dove ti porteranno le tue nuove scarpe.
Ti vedrò dentro ad un ritratto ad acquerello,
tra le nebbie fitte delle tue incertezze.
Ma alla ricerca di un’identità e di te stesso.
Portando in te il calore delle mie carezze,
di tutti quei valori che ti ho trasmesso.
I tuoi bagagli sono tanti
per inventare la tua nuova vita,
ma mi terrai dentro le tasche dell’anima tua,
per non rischiare di scivolarti dalle dita,
mentre ti accodi nella nave, dalla prua.
Tra poco espande il sole tra i fiori di campo in maggio,
e lascia dentro me un lieve alito di ghiaccio.
Ma vai verso il futuro armato di coraggio
e non badare mai al malinconico mio abbraccio.
Il pensiero di quel piccolo nostro mondo,
sul tuo cuscino su cui sogna la tua impronta…
la voglia di lasciarla lì, intatta, nel suo fondo.
Ma è tutto a posto…
e a salutarti ora son pronta.
Coraggio amore
Coraggio amore che arriva il tempo buono,
quello del mattino eterno,
quello del sorriso e del perdono.
E lasceremo questo lungo inverno.
Tu che sospiri per l’impotenza che ti dà
il temporale sul mondo.
Vorresti una più unita umanità
che si scruti nel profondo.
Coraggio amore, non rattristarti invano.
Perché il dolore è come fuoco e brucia,
se dentro a una stretta di mano
c’è pronto un pugno alle viscere della fiducia.
Non dimenticarti di me e della forza della nostra unione,
ora che le tue braccia s’arrendono stanche.
Resisteremo a quest’altra stagione
e colorerai di sogni le tue notti bianche.
Voglio vivere con te cent’anni ancora,
e forse tanti, sono pochi.
Il quotidiano vivere il tempo lo divora,
ma lo inganneremo con i suoi stessi giochi.
Quando il mare avvolge
Nel luccicare cristallino,
io mi specchio
e dimentico il ronzìo dei miei pensieri,
quando il mare avvolge il corpo mio.
È una musica,
che fa porgere il mio orecchio
e mi riporta indietro,
a come ero ieri.
È una melodia
che annulla ogni brusìo.
Ed affondare la testa
per scorgere un mondo,
che è fatto di complicità
e mute armonie.
Quando il mare avvolge il corpo mio
io so di aver toccato il più sublime fondo,
che lascia all’aria
ogni sorta di manie.
Ed è lì che avrei dovuto nascere io.
Mi sento libera,
in un volo sommerso
e senza bisogno di ali,
plano leggera,
quando il mare avvolge il corpo mio.
Quando il mare avvolge,
rivedo quel che ho perso
e ritrovo incredula la parte mia più vera
e riscopro solo allora che c’è davvero un dio.
Turiddu* tira il carretto
Turiddu ingobbito tira il carretto,
arriva in fondo alla strada e poi gira.
Vende la frutta fin l’ultimo etto,
l’estremo grido della vecchia lira.
Ha ancora il sapore di antico, di andato,
qualcosa che il tempo immortala perduto.
Io che sto in mezzo, tra presente e passato,
le promesse del potere male le fiuto.
Guardo i miei libri che sanno di Italia,
di scuola, di arte, di buona educazione,
di culla, di canto, di amore da balia,
che allatta bonaria e dà protezione.
Turiddu non parla che il suo dialetto,
ma afferra tutto con sagacia innata.
Riporta indietro ormai vuoto il carretto,
anche per oggi si fa la giornata.
Durerà solo per pochi bagliori,
questo tempo che afferra un passato,
fatto di poco ma di intensi sapori
e avanza veloce su un cammino studiato.
*Turiddu = Salvatore
Pepè, consegne a domicilio
Pepè trascina lento il carrello della spesa,
e si confonde perso tra la gente,
tra strade di quartiere e una vita che gli pesa,
nel cuore un mare di cose e nelle tasche niente.
Pepè minuto di statura
e un’inferma mamma che l’aspetta,
di cui lui solo se ne prende cura
e la stupidità di chi lo beffa gli sta stretta.
Pepè che guarda il mondo andare
così come il suo tempo, che fugge come un ladro.
Pepè che vive dove si tocca il mare
ma lui lo guarda come se fosse un quadro.
E sfiora, pavido, l’idea d’una donna accanto,
come cercare neve bianca nel deserto,
perché d’amore lui ne sente tanto,
nel navigare del suo presente incerto.
“Chissà domani se cambia chissà,
chissà se il mondo si accorge di questa persona.
Intanto porto il carrello di là…
chissà che non arrivi la volta buona.”
Pepè che tace ai bruschi comandi,
con occhi mesti persi fra i banconi
ed obbedisce muto, con l’umiltà dei grandi,
che tipica fiorisce anche nei più buoni.
Pepè ringrazia per ogni tenero sorriso,
per due parole di coraggio spese.
Ranuncolo, in un prato fiorito di narciso,
stilla di purezza di un creato scortese.
Il rifiorir dei denti in labbra speranzose,
per due centesimi di mancia e una pacca sulla spalla,
Pepè non vuol per sè poi tante cose,
se non che l’emozione per un volo di farfalla.
Il saluto del mattino
Dietro i vetri, sulla strada
lo scricchiolìo di sassi.
Ti osservo mentre avanzi.
Sul manto di rugiada,
le orme dei tuoi passi.
Quasi a comando,
come un richiamo,
ti volti e senti
che ti sto guardando.
Sorridi e allarghi il palmo.
“A più tardi”
Ci diciamo.
È un istante, tenero e calmo.
Mi ridai le spalle
e continui il cammino.
Ed è linfa di energia,
il saluto del mattino,
mentre vai via.
La falena e il pipistrello
La falena svolazzava al chiarore della luna.
Quanto lei, pensava impavida, più aggraziata mai nessuna.
Ma il chiarore della luna, tutt’ad un tratto, si adombrò
e la povera falena l’equilibrio perse un po’.
Sopra un ramo, capovolto, sogghignava un pipistrello.
“Come son leggiadro io, anche se non proprio bello!”
La falena indispettita spiccò un volo più lontano,
quando un tronco inosservato la sbattè dentro un pantano.
Con il corpo ormai infangato, non riuscì più a sollevarsi.
Sciorinandosi le ali, per tentare di elevarsi,
suscitò l’ilarità del pipistrello a testa in giù,
che con grande agilità, prese il volo e tornò su.
Con la zampa l’afferrò per l’ala stropicciata
e la povera falena pensò appena “Son spacciata!”
Ma il brutto pipistrello, seppur fosse di lei ghiotto
la depose sopra un fiore liberandola di botto.
La falena, con stupore, che si vide sana e salva,
s’asciugò con la corolla di un rosa fior di malva.
Guardò ancora titubante il pipistrello dondolante.
“Come posso ringraziarti per il tuo gesto galante?”
“Non mi devi ringraziare farfallina della notte,
non le vedi le tue ali come sono ormai ridotte?
Non mi piace mangiar fango, sono troppo raffinato,
aspetto il sole che ti asciuga col tepore del suo fiato.”
La falena a tal risposta ci rimase un poco male.
“Puoi vestirti di spaccone ma tu resti un animale,
che la notte preferisce e di giorno si rintana.
Quando sera poi ritorna e il tramonto s’allontana,
credi ancora di trovarmi dove tu mi hai riposta?”
“Questa è, allora, la tua risposta?
Ti consiglio vivamente con l’audacia vacci adagio
che il durare del tuo vivere è assai simile ad un bacio.”
La falena lo sapeva che di questo avea ragione,
ma di cedergli la presa non ne aveva l’intenzione.
Anzi, a dire il vero, trovò un buon provvedimento…
Sapeva che il malevolo ci vedeva un poco a stento.
E sfruttando il suo potere di celarsi in ogni posto,
lo lasciò con la certezza d’esser stato lui il più tosto.
L’indomani il sole d’oro tinteggiò di luce il prato
risparmiando del suo fascio un pertugio ritrovato,
dove dentro riposava il pipistrello riparato.
“Che bel posto e che fortuna!” disse a sé tutto beato.
Ricordandosi, ad un tratto, dell’audace farfalletta
cercò il modo di attuare la possibile vendetta.
La falena, liberata dalla mota ormai essiccata,
si pulì per ben le ali su una foglia accartocciata.
Prevedendo le intenzioni dell’infido benefattore
si mimetizzò gagliarda fra i petali d’un fiore.
l’orbo sguardo scandagliante non donò soddisfazione
e, stendendo la testina senza gran precauzione,
si trovò a ruzzolare senza aprire un po’ le ali.
La falena, ben nascosta dai costumi naturali,
prese a ridere di gusto senza un poco di rispetto.
Disturbato dalla luce, lo sgraziato vampiretto
stette immobile e incapace di rialzarsi per il volo,
sofferente in piena luce restò a terra tutto solo.
La falena, intenerita nel vederlo a terra arreso,
lo raggiunse stancamente strapiombandogli di peso.
“Bentornata farfalletta!” disse moscio il pipistrello.
“Bentrovato” gli rispose, quasi fosse un ritornello.
Sfiniti ed irradiati da un sole ormai spietato,
si scoprirono compagni d’un destino già segnato.
Il pipistrello aprì le ali, come fosse un largo ombrello
e la falena battè le sue per soffiargli un venticello.
Per amore della vita si aiutarono ostinati
denudando sentimenti, fin qui, tanto mai provati.
Via dismessa l’avversione di cui non si tenne conto,
si sorrisero a lor modo aspettando in due il tramonto.
Quadro astratto
Sembra di vivere in un quadro astratto,
con lo sfondo blù e piccole luci intorno,
che non fanno chiarore,
che non danno calore.
È da tanto che aspettiamo il giorno,
in questo palcoscenico di vita,
senza via d’uscita.
Cercando di dare un senso
a questa opera d’arte oscura,
guardo intorno e mi perdo
dentro una profonda delusione.
Anche il cielo non trova colore,
il sole nascosto, ha paura.
Nulla si muove.
È un fermoimmagine di vita.
E anche oggi piove.
La strada, come calamita,
riceve assetata l’acqua che scende.
E dietro i vetri guardo andare via
il mio uomo che si spende,
senza misure, senza abulìa,
per ritornare ancora,
la sera, a mani vuote.
Malgrado tutto, sorride e mi rincuora.
La forza del coraggio tutto scuote.
A Marì
L’impronta degli affetti delle persone care
è tra le cose belle dalla vita ricevute.
Ma una particolare è più importante di così.
Manine di pupa, che vogliono sfiorare
altre due mani, di poco più minute,
l’esordio della vita, con la presenza della mia Marì .
Marì gioiosa, attorno al mio lettino,
che m’ha insegnato il gioco del sognare,
Marì che m’ha presa, talvolta, pure in giro
ma che mi proteggeva come un cherubino.
Manine nelle mani, per non farmi più tremare
e voci argentine al suono di un unico respiro.
Distanti di fatto, in diverse due contrade,
adesso che la vita, un po’ ci ha separate,
gli stessi sentimenti ci fanno sentire accanto.
E parallele mai saranno le nostre strade.
Vorrei poterle offrire delle ore spensierate
e quelle rose gialle che a lei piacciono tanto.
E risatine, al chiarore di una silente luna,
nell’armonia felice dell’abbraccio dei pensieri.
Confida sempre in me, Marì, amica mia sorella.
Che di molesta uggia non ne resta che nessuna.
Ricorda, ancora e sempre, com’eravamo ieri,
che della mia esistenza tu resti la mia stella.
Le cose più belle che ho scelto per te
Le cose più belle che ho scelto per te,
non le posso comprare,
ma te le dono con una preghiera.
Un timido sole che nasce dal mare,
e il suo scomparire in fondo alla sera.
Di questo ritornello ti darei l’infinito.
La voglia di cantare, il sorriso e il coraggio.
L’acqua che disseta un fiore appassito,
la speranza nel verde dei prati di maggio.
La certezza che tutto sconfina col cuore,
oltre questa terrestre barriera.
Né più paure, tristezza e dolore,
nei silenzi parlanti di questa preghiera.
Di tutto il resto non serve granchè,
nel lento crogiolo della volta celeste.
Le cose più belle che ho scelto per te,
ecco, mamma, son queste.