Linda Motti - Poesie

HO FATTO NAUFRAGIO 

 

   Ho fatto naufragio, 

   alla deriva in un mare di

   rifiuti umani, 

   relitto anch’io per avere troppo amato 

   aggrappata, crocifissa a questo legno 

   battuto dalle grida, 

   nessuno più soffocherà la mia poesia 

   il silenzio l’ha tenuta per anni 

   serrata nella gola

   come una gabbia di sacrificio, 

   è venuto così il momento 

   di cantare un’elegia al passato, 

   di approdare su queste terre 

   addolorate, di scendere in mezzo agli esiliati 

   riciclati nelle secche d’una pietà umana martirizzata,

   e poi… poi niente, 

   accarezzerò i piedi ghiacciati

   aspettando che arrivi un po’ di sole. 

   


    NASCOSTA FRA LE VITE DI CHI PASSA

 

    Nascosta fra le vite di chi passa

    sento che mi cerchi 

    ma io non voglio niente 

    nemmeno il calore della tua pelle 

    ho visto l’orizzonte ricucire 

    una ferita di dolore. 


   MALINCONICHE DONNE

 

   Malinconiche donne

   dai seni maldicenti 

   che non danno 

   più latte ai

   figli partoriti 

   strangolati dal gozzo 

   dell’emorroissa,

   l’infamia 

   è un un’ omicidio tardivo, 

   nessuno più vi strapperà il cuore 

   con queste mani lievi 

   imbrattate d’amore. 


    MI HANNO LEVATO I VESTITI DI DOSSO …

 

    Mi hanno levato i vestiti di dosso, mi hanno chiuso

                                         la bocca con del *nastro adesivo 

    perché mangiassi di sola vergogna. 

    Così, nuda, come una bimba *assaltatrice di erbe

                              e di prati 

    ho lanciato la mia folle corsa verso di *te

    centrando in pieno i tuoi punti interrogativi.

    Tu mi hai rivestita 

    di una tunica di lino e io sono rinvenuta partorendo 

                              poesia. 


    SE NE ANDRÀ UN GIORNO..

 

    … se ne andrà un giorno, se ne andrà 

    lontano, perché conosce terre infinite e

    spazi che non hanno riscontro nella *mente

    umana, se ne andrà senza rimpianti 

    poiché l’hanno talmente tradito *cercando di

    afferrarlo, che quel sonno d’amore, lo porta dentro urlando 

    soffiandolo

    su un palmo di una mano…


FESTIVAL

 

I pomeriggi  brevi della domenica, seguivo il mio amico al campo spelato di

pallone in uno di quei paesini dimenticati della Bassa pianura  padana. Giocava a calcio come certi atleti  zingari,  magiari o slavi.

“Quelli” dicono di loro allo stadio “un giorno tirano come un dio, l’altro è  meglio stiano a casa”.

Così io, seduto su di una panchina, guardavo il mio amico come si muoveva fra gli avversari  col passo e il modo suo di capire in anticipo i movimenti  degli altri. Intanto talvolta si vedeva nascosto fra la gente come un’animale brutto e spaventato, il futuro e famoso genio della pittura, Antonio Ligabue che emetteva versi striduli, simili a strani esseri notturni delle pioppete in cui si aggirava la notte.

Quando venivamo via, il mio amico mi teneva la mano alla spalla fiero se aveva inventato qualcosa di spettacolare,  altrimenti restava solo coi suoi pensieri  duri. 

“Zingaro” gridavano  gli altri passandoci davanti con la bicicletta e rispondeva lui, al nome bellissimo. A questo pensavo  mentre guardavo la terra arida del campo di pallone recintato fra gli orti bassi del paese  emiliano. 

Era una mattina di festa,scialba nel cielo ma forte nelle mie gambe giovani e  chiare nel dirmi cosa tenere e cosa invece buttare alle ortiche prima che toccasse anche a me farmi padre.

In quei giorni si tenevano tornei di bocce nell’unico campo vicino al Po e c’erano anche compagnie teatrali provenienti dalle province vicine che recitavano i loro pezzi nei cortili all’aperto di certe fattorie dismesse.

I giocatori di bocce prendevano  la mira e giocavano le loro sfere vicino alla palla  avversaria con margini di errore  straordinariamente stretti fino a che un altro metteva la boccia vicino al pallino. Noi guardavamo tutte le sere,  quando i morsi del sole che toccavano  pure i quarantacinque gradi, lasciavano  spazio a un minimo soffio d’aria. 

Il mio amico, assorto, mi chiedeva cosa  ne pensassi di quelle compagnie  di teatro che vagavano sparse a vendere i biglietti del loro spettacolo. Cosa pensavo? Pensavo che avevo visto bene negli occhi di uno di loro, quello magro con la camicia celeste, come in realtà  mi stesse dicendo che lui dell’arte avrebbe voluto farne un mestiere.  Un mestiere che gli durasse negli anni, una ricerca,  un viaggio, una bella compagnia. E che delle cose della vita si può  parlare bene, occorre  soltanto  alzare la voce un po’  su certi morti valori, farne di nuovi.

Questo pensavo e lui rideva del mio modo di immaginare, inventare le cose. Poi tornava serio e indicava un vecchio, berretto in testa, intento a mirare, piegato, poggiato sui suoi talloni, il braccio  in avanti, quasi solo così nella spianata bianca e sassosa del campo di bocce.

” Guarda quanto ci credono certi uomini”, mi disse il mio amico 

“speriamo che il cielo  porti loro un po’  di fortuna “.


BREVE PRESENTAZIONE DI GIUSEPPE CALICETI:

BELLEZZA E FEROCIA DEL DOLORE

 

Da tempo non mi imbattevo in un esordio poetico così luminoso e doloroso.  Linda Motti mette a nudo senza reticenze la sua anima e  i suoi  nervi,  il suo  cuore e le sue afasie, i suoi  turbamenti  e le sue emozioni  attraverso un’alternanza di testi poetici e di prosa in forma di poesia pieni di  una visionarietà e una sincerità che non passano inosservate. 

Il suo dettato poetico è sicuro, maturo, vorace, perentorio. La considero una delle migliori poetesse incontrate nell’ultimo panorama di prosa italiana.