Sola
Sola, gli aspri sentieri io pensosa varco,
fin oltre quel chiuso orizzonte,
che il tiranno Appennino per me dosa,
complice delle spesse nubi il fronte.
In mille pose, dal bianco al grigio al rosa,
salgono in stretta schiera sopra il monte.
grazie a Fantàsia, che non ha posa,
se posso navigare fino al fonte
della bellezza, come luce esplosa
in frammenti di sole sulle case,
dalla primavera ormai invase.
Canta, rondine, nenie senza posa,
su trame d’aerei e nubi rase,
come esili prede dal bosco evase.
Oggi sui monti è puro di nubi il cielo
Oggi sui monti è puro di nubi il cielo
che stanotte straripava di stelle.
Così sempre vorremmo il cielo estivo,
quello delle folli corse lungo la spiaggia,
delle nuotate adolescenti spinte fino all’affanno.
Così sempre vorremmo il cielo estivo,
quello dei pensieri senzapensieri al mattino,
dei sogni ammalianti fino all’inganno.
Così vorremmo il cielo sempre,
ma radicati alla terra stanno i nostri piedi
e vanno, portandosi dietro la realtà dei giorni
e il sapere e il ricordare.
E’ la ferriera
E’ la ferriera a donarci questo fiume di fumo
che si distende in pigre anse sulla valle
al taglio del confine tra città e campagna.
Al mattino lo inseguono i piccoli fiumi
condominiali per unirsi in un traslucido lago
dove affonda la linea d’archi del ponte Musmeci.
Ne senti l’odorino aspro in certe mattine di vento
leggero, quando ti viene incontro quel fiume
dove annega il tuo respiro. Se guardi il cielo
ti stupisce tutto quel lindore, quell’azzurro
che inganna lo sguardo mentre consola
il cuore. Ascolto la voce delle vane
battaglie: – via la ferriera, via quel fiume
di fumo, via quel cancro sottile che ti prende
alla gola per invaderti il petto e la vita, in fine -.
Intanto si distende a dispetto
tra i ciottoli del Basento
e i passi dei passanti che scorrono
frenetici lungo le bancarelle
del mercato. E’ sabato. Il primo sabato
del mese. Si rinnova il rito
della fera, mentre lacrimano gli sguardi
nel soffice alito della ferriera.
Potenza e rogo
Tra gli alberi un raggio di sole di gennaio
ha messo il suo nido di luce e immaginato calore,
così mi riscaldo in questo giorno gelido e accorato,
mentre leggo della pena di un uomo senza lavoro,
dannato a scegliere il fuoco per scuotersi via
dal corpo e dall’anima le scorie della povertà,
dell’abbandono.
Le sirene hanno accompagnato il suo viaggio
verso l’incerto destino di vita o di morte,
mentre il tam tam della curiosità urbana
distribuiva la new notice nei circoli nei salotti
nei condomini nelle piazze nei negozi, pietà
d’occasione e stupore lavacoscienza di miserie
note: censite dall’istat, segnalate dai servizi
sociali, perorate dal vescovo, messe in agenda
dal sindaco. Traslate nel tempo fino
alla disperazione.
Il fuoco, con eco di benzina e carne condannata
al rogo dalla follia della povertà, dalla piazza
ha invaso per un giorno le disperazioni di molti
e disturbato appena gli agi di tanti. Il fuoco ora
di questo sole di un giornodopo, già troppo freddo
d’indifferenza, appena disgela il mio silenzio
complice, pur senza volerlo,
del disagio di troppi uomini e donne
senza voce senza appelli senza ascolto.
Senza diritti.
Astuta ti pensavi
Mentre astuta ti pensavi nel godere almeno
pause nel cammino tuo verso il niente,
hai preteso che il giardino inventasse ogni istante
avventure di cui stupirti e stordirti, così
l’ape giganteggia nell’incubo,
il calabrone violenta l’aria assolata,
il lombrico appena affiora
dal cupo strato terroso,
il rospo talvolta spaesato alla luce del lampione
importuno, scovato dalla curiosità innocente o perversa
della bambina antica in cerca d’avventure, solo
il topo disprezzato fugge al brivido
dell’esteta lodatrice d’usignoli,
mentre scarta la legge del necessario brutto,
levigando esperti i suoi occhi alla lezione del perfetto,
preteso unico paesaggio dalla mente
che non scalfisce neppure l’orrido verme
disteso nella sua amaca di foglia inesilita
dal vischioso succhio.
Cerchi così pretesti,
mentre ti giochi il tuo destino breve
d’ultima forse erede
d’ultimo esteta, per odiare il tuo eden,
se non fosse che implacabile
la bellezza ti genera quiete
e sonno sullo sfinire del ronzio d’api
e respinge il tuo odio e la tua insofferenza,
e il tuo pessimo umore d’intellettuale in vacanza
anche mentale, alla prossima occasione.
Il giardino scariota
A te, ignoto figlio dell’aria,
che puoi cullarti sul ramo più esile del fico
cianciando all’alba di noi tutti
immersi nel sonno a punirci d’incubi
urbani, mentre ci strugge il desiderio
d’un eden casto perenne,
risponde impari il mio canto di sillabe
e sussurri,
mentre mi accoglie
questo lembo di terra che annega
nel marecielo scariota,
promettendo germogli a primavera
e frutti senza fine e principio,
dove il tuo sguardo puoi distendere
fino a un orizzonte
d’angolo – che miracolosamente possiedo -
mentre il giorno trascorre senza ieri o domani,
e perenne lo pensi, se ti coglie l’alba
lì, dove riannodi il tuo corpo al senso della vita,
a fatica, tra parvenze di doni verdazzurri.
Un caso poi se nel punto dove il tuo sguardo
si sperde – senza neppure desiderio d’avventure
e di eventi -
una gocciola abbandonata dalla notte,
che tu dilati sorpresa dal suo splendore d’attimo,
fingendosi il tuo sguardo sole dentro un lieve arcobaleno,
ti concede il miraggio dell’universo,
del tutto, o del nulla,
Improbabile enigma qui dove anche l’inquieta
presenza della morte
può quietarsi nel pasto della formica o dell’ape,
voraci d’insetti in perenni guerre intestine,
e necessarie.
Qui il canto dell’ignoto a me figlio dell’aria,
breve e pungente come soffio di piccola canna,
mi distoglie dal fascino del pensiero -
ambiguo indagatore, che chiede importuno
il conto anche quando all’alba neppure vorresti
renderlo a dio
o al demone che t’infuria dentro -
proprio quando lo pensavi forse sconfitto
dalla brezza del mattino,
per calarmi inerminerte nel ritmo
della natura dove tutto davvero è o non è.
La mia terra
Sentieri di miele, balze di ginestre e lavanda,
campi ruvidi di spighe e schiene scabre di monti,
terra di sante abbazie e castelli guerrieri,
di fiumi scorrenti a stento tra sponde ispide d’arbusti
e archi di ponti, ami lanciati al progresso,
e occhi di laghi aperti sotto la reti delle stelle.
Non tacciono le voci degli antichi Greci,
che indagano il cielo a scoprire i segreti
della vita felice. Né tacciono le voci
delle filosofe dimenticate di Metaponto
e della sacerdotessa che a Vaglio aleggia
nello spazio del tempio inaridito
e della principessa bambina, adorna d’oro
e ambra, e le meraviglie degli arcaici artigiani,
e la forza titanica delle mura e la perfetta
circolarità della torre, a Satriano lanciata
sull’orizzonte a scoprire gli assalti,
inutile difesa dall’avanzare dei Lucani.
Nulla dimentico della mia terra,
né i prìncipi che l’hanno attraversata
senza amarla, né i pellegrini che l’hanno scoperta
tra albe e tramonti e sole acuto e gelo notturno,
né i contadini avvezzi, e pur essi ribelli,
alla schiavitù della terra. Né i poeti e i narratori
né gli artisti che ne restituiscono il passato
e il presente in immagini che catturano il cuore.
Né il risuonare di voci e accenti diversi
in ogni angolo di monte e di valle, né i diversi modi
di indagare il futuro sulle bocche delle masciare,
né l’operoso incamminarsi tra le promesse e gli inganni
del progresso che sa di fumo e liquidi nefasti.
Nulla dimentico nelle mie visioni del tempo
andato e tornato, e dello spazio
attraversato, sfruttato e abbandonato,
che torna a offrirsi caparbio al progresso,
nulla dimentico di questo universo di bellezza e di dolore,
di ricchezza e di povertà, di energia e di abbandono,
di ritorni e di nuove imprese che avanzano a fatica
ma avanzano giovani, nel labirinto del futuro,
terra di profondo buio e di perfetta luce.
Amore
S’apre l’orizzonte dei sensi su inedite
impervie vie ogni volta, segnate
da sguardi complici e riti di parole e gesti
antichi e ogni volta ingenui e puri.
Ascolti del cuore impazzito l’eco
come di nacchere al ritmo ossessivo
del bolero, mentre si flettono e inarcano
i corpi allo spargersi di umori sacrali.
.
Ti perdi in distese di attese di attese,
per inerpicarti poi per le cime ardue del desiderio,
donde precipitare in abissi di quiete, il volto appena
reclinato sul petto che ancora rivive l’affanno.
Un’eco d’amore errante
Seguo la linea delle nubi
che mi attraversano da est a ovest,
e lo sguardo rassicurano e il corpo,
perni d’un universo privato
di cime. Come d’abitudine sbatto
le ali contro Rifreddo e Sellata,
per ricadere, saltimbanco di periferia
appenninica, sul tetto di un’auto immobile
e ruzzolo giù nel mercato locale,
dove riverso dai pori cifre globali.
Mi scopro straniera. Affondo nei gutturali
suoni dell’araba che parla
al frastuono della casba, con l’eco
del kaftano nel cuore. E’ il sangue
di Libia che mi gocciola dal balcone
sui panni della vergine gentile, d’un bianco
innocente e lirico. Sul video, dimenticato
per abitudine nel suo perenne spreco
d’immagini, grida il figlio
piagato dalla fame, che la specie
delle mosche insulta, tenace
complice dell’abbandono.
Io vago tra le nuvole, lei vaga
nel deserto avvizzita dal sole,
il figlio legato alla cinta, che l’arida
sabbia leviga tra le pieghe del volto,
mentre mi leviga l’oblio tra le parole.
Mi lancia un’eco d’amore errante,
mentre guarda la capra piegata
sulle zampe dentro una fossa
che sapeva d’acqua. Tuona,
mentre mi distraggo alla sua voce
d’umana inquietudine, precipitando,
la massa d’acqua e fango sulle case.
Muoiono d’un’unica morte, vittime
d’un tempo sordo, mentre si grida
allo scandalo. Una radio si espande
in ritmi caraibici, il corpo si scuote
nell’irresistibile sogno della matria
cercata, dell’abbraccio che leghi l’universo
a un comune destino vitale. Resta un ritorno
amaro nella patria dell’inefficienza,
dell’indifferenza, dello spreco
d’amore, lento e inesorabile.
La Spiaggia del Valloncello
Polle d’acqua dolce lambiscono ai fianchi
il fondale sassoso,
come liquide premurose ancelle,
mentre tacciono i rivi, secchi d’estate
e gioiosi d’acqua al ritorno delle piogge.
Solo il valloncello porta nel suo tripudio
di verde selvatico i segni del fluire rissoso d’autunno
e dei freschi baci, che l’acqua di montagna
consegna, con discreto chiacchierio, al mare.
Cala riparata dai venti, ospitale ospizio
di battelli in cerca di sicuri approdi il tuo fondale,
che tiene bene le sensibili ancore,
assetate di dolcezza esse, corrose dall’assalto lungo
e lento dell’amara salsedine, bevono, giunte qui al loro eden,
alle polle di acqua dolce il ristoro del lete e dell’eunoè,
appena mentre ancora gorgogliano
di limpido chiarore prima di fondersi
con l’orizzonte intenso del golfo.