Lorenza Colicigno - Poesie

Sola

 

Sola, gli aspri sentieri io pensosa varco, 

fin oltre quel chiuso orizzonte, 

che il tiranno Appennino per me dosa, 

complice delle spesse nubi il fronte.

 

In mille pose, dal bianco al grigio al rosa, 

salgono in stretta schiera sopra il monte. 

grazie a Fantàsia, che non ha posa, 

se posso navigare fino al fonte

 

della bellezza, come luce esplosa

in frammenti di sole sulle case, 

dalla primavera ormai invase.

 

Canta, rondine, nenie senza posa,

su trame d’aerei e nubi rase,

come esili prede dal bosco evase.


 

Oggi sui monti è puro di nubi il cielo

 

Oggi sui monti è puro di nubi il cielo
che stanotte straripava di stelle.

Così sempre vorremmo il cielo estivo,
quello delle folli corse lungo la spiaggia, 
delle nuotate adolescenti spinte fino all’affanno.

Così sempre vorremmo il cielo estivo,
quello dei pensieri senzapensieri al mattino,
dei sogni ammalianti fino all’inganno.

Così vorremmo il cielo sempre,
ma radicati alla terra stanno i nostri piedi
e vanno, portandosi dietro la realtà dei giorni
e il sapere e il ricordare.



E’ la ferriera

 

E’ la ferriera a donarci questo fiume di fumo

che si distende in pigre anse sulla valle

al taglio del confine tra città e campagna.

Al mattino lo inseguono i piccoli fiumi

condominiali per unirsi in un traslucido lago

dove affonda la linea d’archi del ponte Musmeci.

Ne senti l’odorino aspro in certe mattine di vento

leggero, quando ti viene incontro quel fiume

dove annega il tuo respiro. Se guardi il cielo

ti stupisce tutto quel lindore, quell’azzurro

che inganna lo sguardo mentre consola

il cuore. Ascolto la voce delle vane

battaglie: – via la ferriera, via quel fiume

di fumo, via quel cancro sottile che ti prende

alla gola per invaderti il petto e la vita, in fine -.

Intanto si distende a dispetto

tra i ciottoli del Basento

e i passi dei passanti che scorrono

frenetici lungo le bancarelle

del mercato. E’ sabato. Il primo sabato

del mese. Si rinnova il rito

della fera, mentre lacrimano gli sguardi

nel soffice alito della ferriera.


 

Potenza e rogo

 

Tra gli alberi un raggio di sole di gennaio

ha messo il suo nido di luce e immaginato calore,

così mi riscaldo in questo giorno gelido e accorato,

mentre leggo della pena di un uomo senza lavoro,

dannato a scegliere il fuoco per scuotersi via

dal corpo e dall’anima le scorie della povertà,

dell’abbandono.

Le sirene hanno accompagnato il suo viaggio

verso l’incerto destino di vita o di morte,

mentre il tam tam della curiosità urbana

distribuiva la new notice nei circoli nei salotti

nei condomini nelle piazze nei negozi, pietà

d’occasione e stupore lavacoscienza di miserie

note: censite dall’istat, segnalate dai servizi

sociali, perorate dal vescovo, messe in agenda

dal sindaco. Traslate nel tempo fino

alla disperazione.

Il fuoco, con eco di benzina e carne condannata

al rogo dalla follia della povertà, dalla piazza

ha invaso per un giorno le disperazioni di molti

e disturbato appena gli agi di tanti. Il fuoco ora

di questo sole di un giornodopo, già troppo freddo

d’indifferenza, appena disgela il mio silenzio

complice, pur senza volerlo,

del disagio di troppi uomini e donne 

senza voce senza appelli senza ascolto.

Senza diritti.


 

Astuta ti pensavi

 

Mentre astuta ti pensavi nel godere almeno

pause nel cammino tuo verso il niente, 

hai preteso che il giardino inventasse ogni istante 

avventure di cui stupirti e stordirti, così 

l’ape giganteggia nell’incubo,

il calabrone violenta l’aria assolata, 

il lombrico appena affiora

dal cupo strato terroso, 

il rospo talvolta spaesato alla luce del lampione 

importuno, scovato dalla curiosità innocente o perversa 

della bambina antica in cerca d’avventure, solo

il topo disprezzato fugge al brivido

dell’esteta lodatrice d’usignoli,   

mentre scarta la legge del necessario brutto, 

levigando esperti i suoi occhi alla lezione del perfetto, 

preteso unico paesaggio dalla mente 

che non scalfisce neppure l’orrido verme 

disteso nella sua amaca di foglia inesilita 

dal vischioso succhio.

Cerchi così pretesti, 

mentre ti giochi il tuo destino breve 

d’ultima forse erede 

d’ultimo esteta, per odiare il tuo eden,

se non fosse che implacabile 

la bellezza ti genera quiete

 e sonno sullo sfinire del ronzio d’api

e respinge il tuo odio e la tua insofferenza, 

e il tuo pessimo umore d’intellettuale in vacanza 

anche mentale, alla prossima occasione.


 

Il giardino scariota

 

A te, ignoto figlio dell’aria,

che puoi cullarti sul ramo più esile del fico

cianciando all’alba di noi tutti

immersi nel sonno a punirci d’incubi

urbani, mentre ci strugge il desiderio

d’un eden casto perenne,

risponde impari il mio canto di sillabe

e sussurri,

mentre mi accoglie

questo lembo di terra che annega

nel marecielo scariota,

promettendo germogli a primavera

e frutti senza fine e principio,

dove il tuo sguardo puoi distendere

fino a un orizzonte

d’angolo – che miracolosamente possiedo -

mentre il giorno trascorre senza ieri o domani,

e perenne lo pensi, se ti coglie l’alba

lì, dove riannodi il tuo corpo al senso della vita,

a fatica, tra parvenze di doni verdazzurri.

 

Un caso poi se nel punto dove il tuo sguardo

si sperde – senza neppure desiderio d’avventure

e di eventi -

una gocciola abbandonata dalla notte,

che tu dilati sorpresa dal suo splendore d’attimo,

fingendosi il tuo sguardo sole dentro un lieve arcobaleno,

ti concede il miraggio dell’universo,

del tutto, o del nulla,

Improbabile enigma qui dove anche l’inquieta

presenza della morte

può quietarsi nel pasto della formica o dell’ape,

voraci d’insetti in perenni guerre intestine,

e necessarie.

 

Qui il canto dell’ignoto a me figlio dell’aria,

breve e pungente come soffio di piccola canna,

mi distoglie dal fascino del pensiero -

ambiguo indagatore, che chiede importuno

il conto anche quando all’alba neppure vorresti

renderlo a dio

o al demone che t’infuria dentro -

proprio quando lo pensavi forse sconfitto

dalla brezza del mattino,

per calarmi inerminerte nel ritmo

della natura dove tutto davvero è o non è.


 

La mia terra 

 

Sentieri di miele, balze di ginestre e lavanda,

campi ruvidi di spighe e schiene scabre di monti,

terra di sante abbazie e castelli guerrieri,

di fiumi scorrenti a stento tra sponde ispide d’arbusti

e archi di ponti, ami lanciati al progresso,

e occhi di laghi aperti sotto la reti delle stelle.

 

Non tacciono le voci degli antichi Greci, 

che indagano il cielo a scoprire i segreti 

della vita felice. Né tacciono le voci 

delle filosofe dimenticate di Metaponto 

e della sacerdotessa che a Vaglio aleggia 

nello spazio del tempio inaridito

e della principessa bambina, adorna d’oro 

e ambra, e le meraviglie degli arcaici artigiani, 

e la forza titanica delle mura e la perfetta 

circolarità della torre, a Satriano lanciata 

sull’orizzonte a scoprire gli assalti, 

inutile difesa dall’avanzare dei Lucani.

 

Nulla dimentico della mia terra,

né i prìncipi che l’hanno attraversata

senza amarla, né i pellegrini che l’hanno scoperta 

tra albe e tramonti e sole acuto e gelo notturno,

né i contadini avvezzi, e pur essi ribelli,

alla schiavitù della terra. Né i poeti e i narratori

né gli artisti che ne restituiscono il passato 

e il presente in immagini che catturano il cuore.

Né il risuonare di voci e accenti diversi 

in ogni angolo di monte e di valle, né i diversi modi 

di indagare il futuro sulle bocche delle masciare,

né l’operoso incamminarsi tra le promesse e gli inganni 

del progresso che sa di fumo e liquidi nefasti.

 

Nulla dimentico nelle mie visioni del tempo 

andato e tornato, e dello spazio 

attraversato, sfruttato e abbandonato, 

che torna a offrirsi caparbio al progresso,

nulla dimentico di questo universo di bellezza e di dolore, 

di ricchezza e di povertà, di energia e di abbandono,

di ritorni e di nuove imprese che avanzano a fatica 

ma avanzano giovani, nel labirinto del futuro,

terra di profondo buio e di perfetta luce. 


 

Amore

 

S’apre l’orizzonte dei sensi su inedite 

impervie vie ogni volta, segnate 

da sguardi complici e riti di parole e gesti

antichi e ogni volta ingenui e puri.

 

Ascolti del cuore impazzito l’eco 

come di nacchere al ritmo ossessivo

del bolero, mentre si flettono e inarcano

i corpi allo spargersi di umori sacrali.

Ti perdi in distese di attese di attese,

per inerpicarti poi per le cime ardue del desiderio,

donde precipitare in abissi di quiete, il volto appena 

reclinato sul petto che ancora rivive l’affanno.



Un’eco d’amore errante

 

Seguo la linea delle nubi

che mi attraversano da est a ovest,  

e lo sguardo rassicurano e il corpo, 

perni d’un universo privato

di cime. Come d’abitudine sbatto 

le ali contro Rifreddo e Sellata,

per ricadere, saltimbanco di periferia

appenninica, sul tetto di un’auto immobile

e ruzzolo giù nel mercato locale,

dove riverso dai pori cifre globali. 

Mi scopro straniera. Affondo nei gutturali

suoni dell’araba che parla

al frastuono della casba, con l’eco

del kaftano nel cuore. E’ il sangue

di Libia che mi gocciola dal balcone 

sui panni della vergine gentile, d’un bianco 

innocente e lirico. Sul video, dimenticato

per abitudine nel suo perenne spreco

d’immagini, grida il figlio 

piagato dalla fame, che la specie 

delle mosche insulta, tenace 

complice dell’abbandono.

 

Io vago tra le nuvole, lei vaga 

nel deserto avvizzita dal sole,

il figlio legato alla cinta, che l’arida 

sabbia leviga tra le pieghe del volto,

mentre mi leviga l’oblio tra le parole.

 

Mi lancia un’eco d’amore errante,

mentre guarda la capra piegata 

sulle zampe dentro una fossa 

che sapeva d’acqua. Tuona, 

mentre mi distraggo alla sua voce

d’umana inquietudine, precipitando,

la massa d’acqua e fango sulle case.

Muoiono d’un’unica morte, vittime

d’un tempo sordo, mentre si grida 

allo scandalo. Una radio si espande

in ritmi caraibici, il corpo si scuote

nell’irresistibile sogno della matria

cercata, dell’abbraccio che leghi l’universo 

a un comune destino vitale. Resta un ritorno 

amaro nella patria dell’inefficienza,

dell’indifferenza, dello spreco 

d’amore, lento e inesorabile.


 

La Spiaggia del Valloncello

 

Polle d’acqua dolce lambiscono ai fianchi 

il fondale sassoso, 

come liquide premurose ancelle,  

mentre tacciono i rivi, secchi d’estate 

e gioiosi d’acqua al ritorno delle piogge.

Solo il valloncello porta nel suo tripudio 

di verde selvatico i segni del fluire rissoso d’autunno 

e dei freschi baci, che l’acqua di montagna 

consegna, con discreto chiacchierio, al mare. 

Cala riparata dai venti, ospitale ospizio 

di battelli in cerca di sicuri approdi il tuo fondale,

che tiene bene le sensibili ancore, 

assetate di dolcezza esse, corrose dall’assalto lungo 

e lento dell’amara salsedine, bevono, giunte qui al loro eden,    

alle polle di acqua dolce il ristoro del lete e dell’eunoè, 

appena mentre ancora gorgogliano 

di limpido chiarore prima di fondersi 

con l’orizzonte intenso del golfo.