Loria Orsato - Poesie e Racconti

OGNI ALBERO HA UN SOGNO

 

Ogni Albero ha il suo sogno. 

A volte più di uno.

 

Cresce con lui,
si nutre della sua energia, 
finché un giorno si stacca 
per far parte dell’Universo.

 

Quando succede l’Albero sorride soddisfatto 
perché il sogno è diventato realtà.

È nato per questo, 
per far sì che i suoi sogni siano parte del Tutto.

 

Ogni Albero ha il suo sogno. 

A volte più di uno.

 

Crescono sui rami 

come  linfa vitale, 
finché,  maturi, si staccano 
per salire tra i colori del cielo.

 

Ogni Albero ha il suo sogno. 

A volte più di uno.

 

Mi sono guardata i piedi 
e ho scoperto le mie grandi radici.

Ogni Albero ha grandi sogni,
come grandi radici.

Ogni Albero: Io.


SUL FILO

 

Quando Lassù mi aveva fatto venire qui sulla terra, 

non mi aveva messo in tasca il libretto  delle istruzioni. 

Così in poco tempo mi ero ritrovato appeso ad un filo. 

Sul filo non ero solo. 

C’erano persone davanti. 

C’erano persone dietro.

Tutte appese sullo stesso filo 

a fare ogni giorno le medesime cose. Pensando…

Nella testa il pensiero di essere libere. 

Interamente libere. 

Io però non riuscivo a vedere tutta questa  libertà. 

Così un giorno decisi!

Presi la decisione di dondolare un po’ di qua, un po’ di là e così… Oplà!

Sganciato dall’ingranaggio mi sono lasciato cadere giù. 

Credevo che la mia vita fosse finita in quel medesimo istante. 

Invece questo mio disobbedire portò al miracolo. 

Mi ritrovo nuovo, tutto rinnovato nel mio essere divino.

Completamente trasformato.

Insomma, resuscitato, ma sempre qui, su questa terra.

Mi sento leggero, diverso, felice. 

Da allora la mia vita ha preso tutta un’altra strada. 

Il filo ora lo vedo lontano, molto lontano.

Distante. 

E non posso che gioire dalla testa ai piedi: in ogni punto della pelle.

 

Nel  mentre mi allontanavo dal filo io inizio a crescere.  

Non fisicamente. 

Non solo in alto. 

Tutto attorno a me. 

Le mie forze energetiche si  diffondono. 

Con le mie antenne capto le energie altrui.

Ora che non vedo più quel filo succede questa cosa strana, 

i miei sensi si acuiscono. 

Con la mia pelle posso fare fotosintesi ed aumentare la mia energia. 

Non è solo la mia energia vitale, ma anche quella divina. 

Sono nato a somiglianza di quel Lassù. 

Sono della stessa sostanza. 

Ora che quel filo è lontano posso comunicare ed espandermi. 

Sono Uno in un Tutto, 

in armonia con l’Universo. 

Forse è per questo che Lassù mi ha fatto venire sulla Terra, 

per espandermi come essere divino con le mie energie. 

Se sono cosciente posso fare qualsiasi cosa. 

Non esistono limiti. 

I limiti sono solo su quel filo. 

Lassù mi ha creato perfetto in un mondo in armonia. 

Ogni giorno, ora è una bella avventura piena di colori 

di profumi, di esperienze che allietato l’animo, 

di luoghi che si imprimono indelebili nella mente, 

di arte, di cultura propria di un popolo

di me, di tutti noi.

Ogni giorno apro il cassetto e lascio scappare i colori.

È in me la capacità di essere libero e di staccarmi dal filo. 

Per questo non servivano le istruzioni.

Solo porsi domande.


DIVIETO DI MORIRE

 

Vorresti inseguire ancora 

il dito che corre 

su e giù per il vetro. 

 

Vorresti entrare, 

ma sai che non riusciresti a passare. 

 

Quello che ti piaceva di più era giocare, 

sentirti parte della vita. 

 

Così ti fai piccolo e morbido 

da poter passare inosservato

con i tuoi occhi profondi 

che guardano ora l’infinito… 

Un po’ bianco…

Un po’ nero…

 

Mi mancherai, mio piccolo amore. 

Mancheranno le ciambelle appisolate insieme,

il nasino che viene a chiamare, 

i tuoi dolci occhi che vorrebbero scrutare ancora a lungo la vita.

 

Mancheranno le parole 

di chi sa farsi sentire, 

di chi sa esprimersi, 

pur non conoscendo le parole dei grandi

di chi sa amare senza pretendere nulla.

 

Mancheranno 

i giochi 

a nascondino.

 

Buon viaggio, piccolo amore mio.



IL PUNTINO

 

Sono sempre lo specchio diretto

dove il punto d’intenzione diventa tutto,

dove l’abbandonare l’attaccamento

alla conseguenza è necessario,

dove vivere nella saggezza dell’ incertezza

è indispensabile.

 

Devo solo aver fiducia

ed andare col flusso.

Il puntino già lo sapeva:

se sono fortunata sarò aiutata,

se sono veramente fortunata,

saprò in che modo.

Non mi resta che studiare

e partire dal punto.

Modello la Vita

sul mio puntino.

Non lascio

che sia la vita

a modellarmi.

 

Sono un puntino

unico

e indescrivibile.

Per questo sono nato.

Per essere originale

e conquistare la mia felicità.

Non quella

che mi fanno credere,

ma quella

che sente il mio puntino.

È il mio più caro amico.

Lo incoraggio

perché sarà lui

a portarmi alla Vita.

 

Cosa me ne faccio

di quei pensieri

costantemente

rivolti

ad un passato

ormai andato.

Un passato

che mi pone

in continuazione

domande mute e sorde.

 

La vita è

tutta un’altra cosa

quando al centro

c’è un bel puntino.

Di pelle, di pesca.


 

IL VENTO DEL CAMBIAMENTO

 

Non so quando tornerò.

Ho deciso di mandare

la mia mente in vacanza.

 

Ascolto,

in silenzio,

i grilli

cantare

all’unisono.

 

È un periodo

di grandi cambiamenti.

 

Il cambiamento

è repertino,

si muove

velocemente.

 

Lo sento.

Non so

esattamente

dove porterà.

 

Non ho affatto paura.

I grilli sull’erba

sono tranquilli.

Mi siedo

al centro

del mio giardino,

nuda

con me stessa.

 

Osservo

le nuvole vere

e quelle strane striature

che si muovono

come colori sull’acqua

prendendo forme velate

per oscurare la luce.

 

Guardo

i disegni formarsi  

per poi scomparire.

Vorrei scattare  una foto

che potesse contenere tutto il cielo

di questo piccolo momento,

ma è proprio impossibile.

 

Allora chiudo gli occhi

e porto l’azzurro e il bianco

dentro me.

Ascolto il vento

sulla mia pelle

e fluttuo

con lui.

 

È così bello,

così armonioso,

così rassicurante…

Come essere coccolati.

 

Non so

dove il cambiamento

mi porterà,

ma mi sento al sicuro

nell’ondeggiare al vento.

Nel tempo

del cambiamento

la cosa importante

è essere in se stessi

e circondarsi di persone

che come me

dondolano al vento

come il grande noce

nel mio giardino.


 

Soli e insieme

 

Abbiamo tutti una persona

che ci segue

senza che si addentri

vistosamente

nelle nostre vite.

 

 

Guarda da lontano

e a volte ride

perché,

dentro di sé,

sente quella allegria

che accompagna la nostra vita.

 

 

Allora osserva da distante

per vedere

quello che creiamo,

per strapparci un sorriso.

 

 

Sa che farà difficile

sentirsi soli.

 

 

Ma, se siamo entrambi soli ora,

allora siamo anche insieme.

 

Non è come

vivere di ricordi

o uscire a comperare una lampada.

 

 

Non è solo

girare le pagine

o il disco di Ulisse,

aspettando.

 

 

Arriveranno

altri capitoli

da riempire.

 

 

Possiamo cercare

quel segnale

che cambierà la vita.

 

 

Siamo soli,

ma siamo insieme

su distese verdi,

infinite,

ardite,

ma così

immensamente  

diverse.


 

 

Tav

 

Lo senti il rumore.

 

 

Non puoi dormire

tra un onda e l’altra.

 

 

Senti il profumo

salire verso il balcone.

Un passo in avanti

è un atto d’amore

tra i piedi e il suolo

che li porta.

 

Ho camminato

a lungo con i piedi nudi

verso la mia stella.

 

 

La mia stella di verità

si specchia, ora,

sul mare ondoso.

 

 

Tav, il suo nome

che illumina il cielo

assieme la luna piena.

 

Come per Tiberio

innumerevoli

sono i volti di Ulisse

che si specchiano nella grotta.

 

 

Tra astuzia,

coraggio,

perfidia,

compassione,

ognuno può cogliere il proprio

o tutti insieme

e scegliere al momento giusto

quale maschera indossare.

 

 

Nella grotta di cristallo

ognuno è profeta,

sacerdote,

 

 

Per questo i volti di Ulisse

sono molteplici

e tutti in me.

 

 

Alle volte,

bisogna osare

per far svelare i destini.

Se non oso,

non saprò mai.


 

Tempo

 

Dovrei prendermi

il tempo

che fugge per portare

lontano

le cose.

 

Dovrei afferrarlo

per farlo tornare

indietro

così che potrei amare di più

la mia ombra.

 

Se non mi amo

profondamente,

come amo il mare,

come posso sperare

lontanamente

di trovare

qualcuno

che in silenzio mi ami,

qualcuno

che sussurri

il mio nome al vento.

 

Lascio al tempo

il tempo

di percorrere la strada

per portare amore

dove non c’è.

 

Forse non è troppo tardi

nei cuori soli.


 

Fiamma: ti cercavo rossa, invece  ti ho trovata blu.

 

C’era una volta….Una fiaba pensata per gli uomini.

I bambini nascono già  felici sapendo di incontrare la vita.

Poi, conoscono gli uomini perversi, imperniati in vecchi schemi, utilizzati come gabbie. Vorrebbero riempiere i nuovi nati come sacchi di cose; cose che non serviranno a nulla se non a rendere pallida una vita  nata colorata. Sono gli adulti ad aver bisogno, oggi, delle fiabe, delle fiabe che curano il loro malato senso del vivere, i sorrisi ormai spenti e delusi. Per sempre.

 

Sono le occasioni strane o scioccanti, amareggianti e fuori dalle righe o dai tanti amati quadretti, quelle che vorrebbero fare della vita qualcosa di perfetto,   che mettono a nudo le persone, facendo capire quello che sono ed il loro valore, senza alcuna maschera.

 

C’era una volta una piccola Fiamma. Irruente ed infuocata voleva portare il calore, il benessere ed il giallo della gioia e della felicità, essenziali nella vita di tutti, come un incanto.

Un giorno, la furba Fiammella, curiosando dall’alto, notò una piccola Signora, un po’ anziana, che viveva sola su un’isola dei non famosi, un’isola sperduta nel mezzo del mare profondo e blu cobalto. Lei passava le sue giornate guardando il mare mentre cambiava colore per ascoltare il suo sussurrare. Le regalava quella serenità e quel benessere intenso che pochi conoscevano. Amava il mare, di quell’amore profondo perché in solitudine sentiva le sue parole che, quotidianamente, giungevano dritte alla sua anima, mentre il mare origliava attento e vigile dalla notte dei tempi in cerca di un dialogo.

Ascoltava il suo ondeggiare, il suo arrivare in ogni attimo e pensava che il mare fosse in fondo come la vita: un giorno si approdava su questa terra, si correva, si cercava, si desiderava, si sognava, si amava, qualche volta si odiava, e poi, un bel dì, si partiva, anche se non si sapeva per dove, lasciando un po’ di sé qui su questa terra.

Il mare arrivava e ripartiva senza pretese del futuro, tralasciando il suo passato. Era tutto qui, in quell’unico presente.

La piccola Fiamma, sempre più curiosa, aveva iniziato a spiare quell’antica Signora. All’inizio era solo per gioco, per pochi momenti. Poi sempre di più. Passava interminabili giornate a guardarla mentre se ne stava seduta di fronte alle onde a scrutare i mutevoli colori che brillavano al primo albeggiare, al tramonto e di notte al chiaro di luna. Poi l’osservava quando passeggiava sulla riva, mentre si immergeva nel mare per ascoltare il suo dolce rumore ed il suo canto. Così, iniziò a esaminarla anche nel cuore della notte quando quella strana Signora si ritirava a riposare sulla spiaggia ai piedi di un grande albero. Là, si copriva di larghe foglie e si addormentava serenamente.

La Signora amava vestire quell’albero di conchiglie. In ognuna di esse aveva deposto i desideri del cuore per regalarli al vento. Di notte la brezza le faceva muovere dolcemente ed a Lei piaceva sentire il loro chiacchierio che richiamava il sapore di mare ed il suo capirsi nelle cadute per risollevarsi. Con quel suono armonioso sprofondava in un sonno ristoratore. Non era la mancanza dei sogni nelle notti buie che la preoccupava, ma l’assenza di sogni lucidi nella vita di ogni giorno.

Così, aveva preso l’abitudine di prendere alcuni dei suoi modesti ricordi per appenderli con le mollette su dei fili tra i rami come delle pezze consumate. In questo modo, sdraiata poteva osservarli bene ed imprimerli nella memoria  per portarli con sé dentro l’anima. Con i panni stesi si sentiva soddisfatta e, per la prima volta, era come se avesse raggiunto un grande traguardo con immensa fatica. I cenci, pallidamente grigi o a volte dai colori sbiaditi, non avevano ancora preso le sembianze di un abito. Sembravano, tuttavia, così vivi e brillanti, deposti per rappresentare le sue opere dettate dall’universo come uno sguardo fisso e teso su di sé.

Un’opera era semplicemente un’azione fatta per migliorare se stessi o per aiutare gli altri. Era davvero semplice. Bastava seguire i cartelli stradali, trovati lungo il sentiero, che servivano per compiere le scelte giuste della vita in un percorso condiviso. Bastava intuire con la giusta concentrazione di un soffio.

Prestare una corretta attenzione era come ritrovare casa, dove tutto aveva un ordine e  un posto preciso, persino il respiro. Ritrovarsi  in quel luogo caro era come ricevere una ricompensa ogni attimo dell’esistenza.

La piccola Fiamma continuava a ripensare alla Signora ed al mare. Non passava giorno senza che  provasse un’emozione diversa e non comprendeva il motivo. Ella non era nulla di straordinario, alquanto strana sì, eppure emanava un certo fascino misterioso. Così, ogni giorno, si riprendeva dalle braci quasi spente con l’istinto profondo e il pensiero fisso per Lei ed il suo grande mare.

Un bel dì, la piccola Fiamma decise con fermezza di partire per raggiungere quella piccola isola sperduta nel grande mare. Giunta sulla prima spiaggia di fronte all’isola, il minuscolo Fuoco provò a mettere il suo piedino nell’acqua gelida ma, con suo immenso stupore, si accorse che non avrebbe potuto raggiungere in quel modo la terra opposta perché sarebbe interamente morto. Tanto più  che, appena si avvicinava all’acqua, grosse onde si ergevano bianche e schiumeggianti, pronte ad assalirlo, propense a tutti i costi a spegnerlo per sempre.

Per sempre. A lungo nella sua vita, aveva rimuginato sul significato di quelle parole. Quando pensava che fosse finito il per sempre, ecco che davvero iniziava tutto. Era come portare un prezioso ricordo con sé, quella parte speciale  di ognuno che rimaneva per sempre.

Per qualche tempo Fiamma rimase lì, ferma nei pressi del bagnasciuga, meditando sul da farsi. Finché,  in un giorno di furiosa tempesta, approdò un lungo tronco profumato di cedro, inzuppato fradicio dalla testa ai piedi. Fu in quel preciso momento che la piccola Fiamma all’improvviso si illuminò.

Il povero tronco, sbattuto a lungo di qua e di là dal fragore delle onde, non desiderava affatto ritornare per alcun motivo in mare aperto. Il Fuoco gentile e premuroso, mosso a compassione, lo aiutò a riprendersi ed a riscaldarsi. Gli parlò così a lungo del suo viaggio,  della strana Signora e del suo amore per il mare, che alla fine lo convinse a rimettersi in viaggio in direzione dell’isola sperduta.

Quando approdarono, la Signora si spaventò nel vedere quel piccolo oggetto luminoso e scoppiettante. Gli prendeva le misure con attenzione, dapprima in lontananza. Man mano che si avvicinava percepiva il suo calore, ma lo teneva sempre a debita distanza per pura paura. Fiamma, quando scendeva la notte fonda e buia, riusciva di nascosto ad avvicinarsi a Lei, mentre dormiva tra le radici del grande albero. Si ravvivava  un tantino per poterla riscaldare e per regalarle quel dolce tepore che solo una piccola Fiamma, appartenente al fuoco sincero, poteva donare.

Una notte, la Signora si destò per il chiarore della luna piena. Si accorse con stupore di quella Cosina accanto, luminosa e splendente, che emanava il suo penetrante calore al contrario della fredda, ma pur sempre affascinante luna. Si girò dalla sua parte ad osservarla intensamente, mentre la piccolina si era assopita per la stanchezza. Alla fine, pensò che non era in fondo così male e che la poteva accettare, anche se era delicatamente diversa dal suo amato mare. Le sue piccole fiamme regalavano luce alle pezze che svolazzavano, luccicando al vento, rendendo i ricordi ancora più preziosi e fragili e, in quel momento, provò con rammarico nostalgia. Nel suo affannato respiro ormai c’era posto per tutti in ugual misura, persino al perdono nella caduta. Nella diversità poteva voler bene anche  a quelle sfaccettature differenti che da tempo erano nascoste in silenzio dentro ognuno, così da far ritorno nella propria casa in ogni istante. Nella casa dove poteva essere preziosa come un solo fiore vivendo felice e contenta di sé. Per sempre.


 

INTERAMENTE AMARSI

 

“Tu sei tutta lì!”, disse Tullì, guardandosi allo specchio.

Era la prima volta nella vita che scorgeva il suo riflesso e, subito, se ne innamorò.

Tullì prendeva forma. Dove non c’era, ora era. Iniziava ad amare, desiderare, sognare perché in tutto ciò c’era vita. E in Lei, ora, scorreva  la vita stessa.

C’erano  idee che nascevano geniali perché  non avevano bisogno di nulla se non di se stesse.

Così, Tullì era solita osservarsi sulle superfici che emanavano il suo riflesso.

“Sono piuttosto ordinaria. Non ho nulla di particolare. Chissà se troverò, un giorno, qualcuno a cui piacerò davvero, qualcuno che mi amerà come sono e che mi farà danzare la vita!”, rifletteva ad alta voce ascoltandosi e andando alla ricerca  in sé di qualcosa di straordinariamente bello e curioso che poteva racchiudere il suo valore, un po’ come facevano i fiori petalosi nel prato in cerca della propria originalità.

Erano giorni infiniti e strani dove il tempo trascorreva lento indagando  su qualcosa.

Già, ma  su che cosa? Neppure Lei lo sapeva.

“Io sarò lì. Chiamami quando dentro te non sarai in pace…Io sarò lì!”, sentiva dentro di sé  questo richiamo.

“Così  come sei, sei perfetta. Nessuna copia in giro per l’universo.

E ora, che aspetti? E’ proprio adesso che meriti la felicità.

Non domani, non nella prossima vita, ora.

Puoi essere speranzosa come un prato, così ricco di creatività nell’ospitare erbe e fiori meravigliosamente diversi”.

Qualche volta Tullì si sentiva nera, completamente avvolta dal nero. Nonostante tutti i suoi sforzi per volare, le sue ali si imbrattavano di quel colore scuro. Così pesante, faceva fatica a spiccare il volo perché la tristezza era ovunque, dentro e fuori di sé, e segnava un confine di demarcazione che impregnava l’aria ovunque. La vita non appariva semplice e sempre gioiosa. Tullì non  aveva capito: la tristezza era un velo di seta fino e leggero che necessariamente veniva steso. Lei avrebbe maledetto quel giorno che sembrava essere capitato, magari per caso, ricordando la propria garza di dolore ogni giorno della propria vita… Una volta incontrata, quell’amara patina l’avrebbe fatta sorridere dentro, solamente nel tempo. Ma chi avrebbe mai posato lo sguardo, spontaneamente, su qualcosa che si sarebbe trasformato in un veleno nero, reso immortale dal proprio cuore? Nessuno, probabilmente. La mente sarebbe ritornare a scavare solchi profondi sulle malinconie in continuazione, fino al momento in cui inevitabilmente si sarebbero comprese. Così la spensieratezza avrebbe fatto la sua comparsa, per la prima volta, trasformandosi in pura gioia. Ridere delle proprie tristezze, delle proprie paure, delle inquietudini nascoste, sarebbe stata la miglior medicina. La tristezza più intensa era davvero necessaria nella vita come il più bel sorriso, ma Tullì, per ora, era lontana dall’intuire tutto ciò.

Altre  volte, Tullì era così  bianca e leggera che tutto intorno sembrava percepire il suo stato.  Si tingeva dei colori dell’arcobaleno, dove ogni colore stava a testimoniare una vittoria riuscita bene per se stessa. Non doveva dimostrare nulla a nessuno. Né nel divenire, tantomeno nell’ essere. Era e bastava a sé . Il resto erano solo pretese o scuse indossate come abito per farle vedere  un giorno a malapena nell’ombra, là dove nessuno sembrava guardare.

Bianca o nera era sempre Lei, non con due abiti, ma con i momenti che arrivavano; con la vita che le portava vestiti da indossare per qualunque occasione, per la tristezza o la rabbia, per la felicità o la gioia. Era sempre se stessa… Nel suo sentire, nel suo apparire, nel suo vestire qualche abito a volte stretto,  a volte non suo, a volte… Erano tante le volte nella vita…

“Per fortuna o per sfortuna, non saprei dire se sono sola o accompagnata da una parte di me. Sto sul tetto a vedere un orizzonte che sembra non finire mai, dove gli alberi si ergono sempre diversi ad incontrare un cielo in tanti modi difformi. Con mille mani alzate chiedono al sole un po’ di calore o di compassione, un po’ di pioggia o di nebbia e vogliono, a volte,  solo giocare a nascondino”, pensava ad alta voce Tullì osservando sempre il suo riflesso.

A volte,  Lei era così  orgogliosa. A volte, sembrava toccare il cielo con una mano. A volte sì,  a volte no… Le volte non si ripetevano mai nello stesso modo. Sarebbe stato così  semplice, così facile, così magico. Ma la vita non lo era mai. Sembrava a volte, senza esserlo. Sembrava leggera, inconsistente per poi mutare e presentarsi con i suoi opposti di pesantezza,  di noia, di buio, di incertezze, là dove un attimo prima c’era la luce. Era! Era la vita con i suoi alti e bassi che si presentavano, a volte…

A volte, senza richiamarli, da soli arrivano.

“Potrei guarire dal passato o dai momenti infelici della mia vita che passerebbero ugualmente, lasciando profonde ferite e cicatrici che solo un cuore attento potrebbe scorgere?  Potrei vestirmi di nuovo, sempre, mentre rimango fedele a me stessa?”

Ogni mattina Tullì si svegliava e, guardandosi allo specchio, provava sempre il medesimo ed immenso piacere: il piacere di essere se stessa nel bene e nel male e di prendere in braccio tutto il suo riflesso. Come si poteva amare la vita se non partendo dall’amare sé, quel meraviglioso riflesso allo specchio? Interamente amarsi equivaleva ad essere felici ogni giorno.

“Sono un insieme di opposti, ma ho anche fede in me, come esiste nella natura, in tutto ciò che mi fa gioire e che mi fa stampare un sorriso sulle labbra. Lo so, sono imperfetta.

Sono stato creata. Forse, solo Dio può essere perfetto. Ma anche in me c’è una parte di Lui come perfezione e una parte umana, imperfetta. Amo la mia imperfezione perché mi permette di sbagliare. Ogni sbaglio mi fa sentire unica. Ogni sbaglio fa scorrere la linfa vitale in me. Ogni errore mi fa sorridere perché prima di tutto sono io e sono viva. Ogni errore mi fa scoprire strade diverse che non avrei notato. Da un errore nascono molte cose positive. Sono contenta della mia parte divina e soprattutto di essere umana per vivere una vita esclusivamente mia.

Il sorriso più bello è quello che nasce da uno sbaglio che sembra un errore per un altro.

Sono solo un puntino di vita nell’universo con un bagaglio di errori che hanno riempito la mia vita in modo da renderla unica e talvolta felice. Sono solo uno sguardo curioso alla ricerca di  bianchi all’apparenza uguali, candidi o gelidi nel medesimo istante che penzolano tutti da un stesso filo, chiamato vita. Conosco quello sguardo di chi sa cercare oltre. In fondo sono sempre lo specchio diretto dove il punto d’intenzione diventa tutto, dove l’abbandonare l’attaccamento alla conseguenza è necessario, dove vivere nella saggezza dell’incertezza è indispensabile. Devo solo aver fiducia e andare col flusso del mio divenire: se sarò fortunata mi amerò in qualunque situazione”.

Una grande risata che partiva dal cuore riecheggiò lontano per tutta la stanza: solo allora Tullì capì che si sarebbe voluta bene sempre. Era completa così com’era.


 

Gli Abeti di Nord Est 

 

(Dedicato alla catastrofe ambientale accaduta in Veneto

“La montagna Veneta è diventata un paesaggio lunare” commenta incredulo il Presidente della Regione, Luca Zaia.

“La notte del 28 ottobre 2018 resterà nella storia del Popolo Veneto e negli occhi sbalorditi di ognuno di noi.

Per non dimenticare …”)

 

- Vestiti di nuovo! – disse l’Abete mentre muoveva i primi passi verso il cambio di stagione.

- Cosa aspetti? L’autunno è già alle porte. Guardati! Sei. Non solo perché vivi. Anche se lontano o vicino, sei in ogni istante. Tu sei molto più di come appari! – proferì con la sua voce soave.

L’Albero cercava in quel mondo folle qualcosa di vero a cui aggrapparsi ed intrecciare i suoi rami.

La vita appariva, spesso, un susseguirsi di giorni quasi uguali che potevano anche non significare molto, o a volte niente. Poi arrivavano i momenti, piccoli e brevi, che davano significato e sapore  a tutto, spargendo granelli di sale nella vita di ciascuno. Uno di questi era lo sbocciare delle piccole gemme che rinascevano vestendo gli Abeti a nuovo, ma per alcuni non sarebbe mai arrivato.

 

Il bosco scricchiolava di solito a quell’ora di notte riempiendosi di rumori di legno e di sbadigli, ma quella notte si zittì di colpo al passaggio dell’aria troppo forte.

L’Abete si era addormentato e dormì un sonno profondo fino al suono del vento che indicava l’arrivo della catastrofe. 

Poco dopo si svegliò di colpo senza capire nulla. Attese quell’attimo che sembrò un’eternità. Fece un lungo respiro e trattenne il fiato con tutta la sua forza per sentire meglio. 

Folate di vento si contorcevano. Un frastuono di tronchi che cadevano uno sull’altro come birilli pesanti, riecheggiava nella valle. Una baraonda spaventosa… Un tempo impazzito…

D’un tratto il silenzio immobile. Il cuore batteva forte, ma trovò la forza di aprire gli occhi per guardare bene tra il buio della notte. Poi di colpo li spalancò alla vista dello sterminio di Abeti, strappati alla terra, della moria di Fratelli che non si elevavano più con le braccia verso il cielo. Ora vedevano all’improvviso solo il suolo nudo.

Il bosco, quel suo bosco così come lo conosceva, non esisteva più. Non era più quello di prima. Uno scenario mostruoso aveva preso il sopravvento. Il vento che sbatteva ancora i tronchi rossastri, aveva le sembianze di un mostro gigante con le zampe sollevate verso le cose e con gli occhi infuocati. L’Abete non poté più dormire. Nelle sue vene scorreva ora l’angoscia e il terrore puro di una tragedia mai vista, tanto che la sua sottile corteccia divenne ancora più ruggine.

Un giorno, forse, sarebbe ritornato il bosco, tuttavia gli Abeti non lo avrebbero dominato dall’alto tutti insieme. Un giorno sarebbero ricomparsi gli Abeti rasi al suolo, ma non gli stessi. Il verde avrebbe ripreso il suo potere eterico della vita.

Affrontare il cambiamento sarebbe stato faticoso, doloroso, decisivo. Avrebbe modificato tutta la sua esistenza nella totalità, sconvolgendola. 

Il risultato di questa stranezza sarebbe stato un frutto inconsueto, dato dell’innesto di piante giovani, diversificate e di pensieri innovatori all’interno di boschi antichi. L’intreccio di insoliti saperi e di nuove specie avrebbe davvero cambiato i connotati del bosco. Un tempo, quella selva era sinonimo di una moltitudine di Abeti Rossi che stavano vicini e uniti, ma non sarebbe stato mai più come prima. 

La vita avrebbe saputo vincere ancora una volta la morte della materia. Un giorno avrebbe ritrovato il sorriso, la felicità di ritrovarsi insieme agli altri Alberi nel silenzio del bosco, nella pace della propria terra. 

L’Albero si riaddormentò fra le lacrime. Il sonno non fu più profondo.

Un Abete poteva non essere nulla di più di un sottile foglio di carta con tante sfumature di bianco, o un semplice pezzo di legno sospeso nel nulla. 

A volte l’Albero, dal punto in cui si trovava, riusciva a centrare il bersaglio: la vita sembrava scorrere agilmente così da percepire le impalpabili vibrazioni interiori che motivavano le necessità del sé. Altre volte,  invece, si trovava lontano anni luce da questa comprensione. Non era in grado di cogliere i significati che andavano al di là del semplice dibattersi nella mediocrità o perfino nello squallore di una vita. L’esistenza, allora, sembrava essere per alcuni Abeti qualcosa di insignificante ed inutile, se non addirittura doloroso o dannoso.

Nel bosco, però tutti gli Alberi erano vivi nella stessa misura. Regalavano distese infinite e paesaggi dove si poteva sperimentare il mondo immaginario che ogni essere vivente portava dentro di sé, dietro quel foglio bianco che, piano piano, acquistava la propria certezza. Questa consapevolezza sarebbe rimasta eterna, come la volontà, anche per quegli Abeti  ormai sradicati, svaniti fino a spegnersi, lasciando solo il ricordo e la memoria per le generazioni future.

 La luna di dicembre aveva per gli Alberi sempre un certo fascino. Era così piena, così tonda, così vicina. Pareva toccare con le sue mani luminose tutti i rami degli Alberi rimasti in piedi.

I cuori degli Abeti erano talmente colmi della sua luce che erano tutti semplicemente raggianti di gioia. Era la luna più bella dell’anno, la luna d’inverno. Il silenzio era la sua magia, quell’assenza di rumore esultante che si rifletteva sulla prima neve, arrivata dopo tanti anni in anticipo. 
Gli Alberi erano consapevoli di questa magia. L’attendevano con trepidazione prima di calare le palpebre. Nel bosco tutto si sarebbe trasformato. Tutto si sarebbe rigenerato. Era il momento perfetto per chiedere di saper riconoscere il cambiamento per poterlo costruire, per essere parte attiva di quel miracolo chiamato vita. Erano interamente entusiasti di poter arrivare al sé con il cuore vivo, pieno di incondizionata gratitudine. La totalità degli Alberi percepiva l’importanza dei ventuno grammi della propria essenza, quella minuscola parte che sarebbe sopravvissuta  tantissimi inverni, sempre, per poi un giorno, ritornare di nuovo… Di nuovo a vedere e a gioire di tutto. Erano pronti interamente per mettersi nuovamente in fila e ricomparire al chiaro di una luna piena.

L’Abete abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi, addormentandosi con la luce tra le fronde. Li avrebbe riaperti con l’arrivo della primavera, quando gli uomini avrebbero messo a dimora le fresche piantine che avrebbero dato vita ad un bosco rinnovato. Il sonno non fu più profondo, eppure dentro di sé si era accesa la speranza che andava espandendosi fra le maestose chiome coniche sopravvissute.

La vita nel bosco era reale, non era una fiaba. Un raggio arcobaleno attraversò di corsa il bosco lasciando in sospeso i colori. Era il segnale dell’universo: tutto avrebbe ripreso vita. Sarebbe passato ancora del tempo, ma l’Abete osò aprire, per un solo attimo, un occhio. Poi lentamente, schiuse anche l’altro. Contemplò le stelle così luminose nel cielo immensamente blu e tra l’aria rarefatta, impregnata ancora di morte, con tutta la sua voce gridò ai Fratelli: – Il bosco si vestirà di nuovo…

 


 

LORO

 

A Dio non importava se c’era un Lui, una Lei e per finire Io.

Ci plasmò e ci regalò un bellissimo compito.

Una volta sulla terra, però, per fortuna ognuno di noi se ne dimenticò

e così ebbe inizio la nostra sfortuna, credo, e iniziammo una nuova vita.

- Dove c’è disavventura c’è vita -, mi ripetevo ogni volta che sentivo la presenza di Dio.

Percepivo che anche se avevo disobbedito, Dio mi amava e mi abbracciava con tutta la sua luce,

avvolgendomi.

Senza la disobbedienza la mia vita non sarebbe stata aria.

Nell’essere aria la mia creatività iniziava ad assumere forme semplicemente belle

o forse stranamente folli.

Sicuramente a Loro non sarebbero piaciute, ma io sono Aria e sono pure sbarazzina.

L’aria non si può imprigionare, è ovunque e sempre, è nelle sue mutevoli forme.

 

Fu così, che da quando Dio decise di seguire da lontano le mie impronte e di farmi vedere ogni tanto la sua mano, un giorno mi fece un dono davvero eccezionale.

Prese dei fili di seta rossi e li stese tra il mondo di Qua e il mondo di Là.

Così creò un legame invisibile tra me e Lui, in modo che potessimo ugualmente sentire.

 

Ogni volta che Io mi muovevo o provavo forti emozioni, i fili rossi si agitavano, tirando così tanto che Lui si svegliava dal suo sonno profondo. Allora trovava vari modi per avvicinarsi e farmi sentire la sua presenza, senza che Io potessi vederlo.

Erano piume che mi avvolgevano e mani dolci che la notte venivano ad accarezzare i miei capelli. Non saprei dire con certezza se Lui fosse preoccupato o meno della situazione. Cosa importava… Lui era luce pura, bianca, brillante e soave, quasi come un angelo.

Averlo vicino in ogni istante era davvero un sentirsi straordinariamente speciale. Non so neppure se Lui effettivamente apprezzasse tutto quello che stavo facendo. Ero però consapevole che accanto a me si divertiva quasi come un bambino ed io pure con Lui vicino. La gioia era ovunque e tutto era un’incredibile avventura.

 

Quando le luci si abbassavano sul Villaggio e giungevano le tenebre, Lui si era solito sdraiarsi sulle enormi radici dell’antico ciliegio. Con una mano appoggiata sulla testa annusava l’aria in cerca del profumo di tabacco e di miele. Quando lo trovava, allora i ricordi gli giungevano disordinati avvolti ancora da un filo sottile di nebbia.

A volte, pensava, ritornavano proprio così come la nebbia. Come se n’erano andati, così ricomparivano di colpo senza un motivo e senza un perché. Il tempo giusto perché sul suo viso trasparisse un sorriso raggiante che solo la luna poteva cogliere. Parlava sempre di me. Con quel profumo intorno, gli sembrava che i suoi occhi potessero scorgermi in quella lontananza ragionevole.

Non troppo vicino, per non farsi male. Non troppo lontano, per non dimenticare.

Così aveva preso l’abitudine di prendere quei piccoli e modesti ricordi per appenderli su alcuni fili tra i rami del suo ciliegio come delle pezze con le mollette. In questo modo, sdraiato sull’erba, poteva scrutarli  bene ed imprimerli nella memoria profonda per portarli con sé dentro al cuore.

- Carina questa cosa si ripeteva.

Amava vestire quell’albero di reminiscenze. In ognuna di esse aveva deposto i desideri del cuore per regalarli al vento. Di notte la brezza le faceva muovere dolcemente e a Lui piaceva sentire il loro chiacchierio ancora confuso.

Con questi stracci stesi si sentiva un tantino soddisfatto, per la prima volta nella sua vita come se avesse raggiunto un grande traguardo con immensa fatica. Quelle che appendeva ai fili tesi, pinzandole, parevano solo pezze grigie o, a volte, avevano una minuscola parvenza di colore, ma ancora Lui non aveva compreso a quale abito appartenessero… Un abito certo. Sembrava ancora così tutto avvolto nella nebbia e nel mistero, a parte qualche breve barlume di lucidità assopita.

 

Un giorno Lui da sotto il ciliegio prese una pezza dal ramo. Era quella che brillava ogni sera al tramonto sul mare con il suo luccichio. Aveva i colori delicati dell’arcobaleno e accompagnava il più bel ricordo che si era impresso da subito nella sua memoria, ormai spenta.

Vedeva quegli occhi azzurri sorridere giocosi alla vita. Il sogno di ogni uomo. Il sogno di ogni uomo consapevole. E per un attimo si sforzò di non sentire le lacrime che come grosse gocce scendevano sul viso. Avrebbe potuto abbracciare l’amore senza cercarlo in una persona. Ma nessuno gli aveva insegnato come fare e Lui era proprio inesperto da lasciarselo sfuggire per sempre. Così aveva perso quegli occhi durante il cammino. Gli rimaneva solo il ricordo, impresso nella pezza, accompagnato dalla tristezza di un momento che non avrebbe più fatto ritorno. Persisteva solo il ricordo di non essere stato un uomo consapevole.

 

La coscienza era quella parte di me che mi teneva viva facendomi ricordare tutto, persino i minuscoli dettagli: le fragole in ammollo nel fresco prosecco o il prosecco che attirava tutte quelle fragole con le sue bollicine. La cosa che adoravo di più, però, non era né il prosecco né le fragole. Erano le serate come quelle che mi mettevano allegria e mi facevano sentire viva fino alla punta delle dita. Era passato molto tempo e quel tempo non sarebbe più tornato. Forse poteva fare la sua comparsa, solo, fra quei ricordi dai colori sbiaditi che Lui era solito appendere tra i rami del suo ciliegio anche quando fuori pioveva. Sarebbe ritornato tra i ricordi di chi c’era. 

La primavera era la stagione che Lui preferiva. Gli ricordava i giorni appena tiepidi nei quali mi aveva incontrato. Erano i giorni in cui le piccole gemme orgogliose erano spuntate e i primi fiori bianchi si mettevano in mostra con coraggio, senza arrossire. Lui guardava spesso fra le fronde del ciliegio e ne apprezzava la straordinaria bellezza ed il profumo. Era come stare in una valle, la valle dei ciliegi, dove regnava la tranquillità del tempo e la serenità dei nuovi giorni di sole, dove tutto era possibile persino i miracoli.

Così anche Lui, come quei piccoli fiori, osava e mi allungava una mano, attendendo.

Quando il giorno riprendeva il suo riflesso, la magia della pioggia che filtrava tra i rami dell’albero, era finita. Tutto riacquistava lo stesso sapore di sempre. Sapore… Anche quello era una cosa banale che lo lasciava perplesso. Come era possibile che tutto fosse così meravigliosamente uguale, anche nei colori che brillavano ovunque. Per tutti, tranne per Lui che non poteva più essere quella persona di sempre.

Ora che si avvicinava la Pasqua, Lui con i suoi pensieri e le sue pezze poteva stare ovunque… Per sempre.

 

Per fortuna il mio Dio mi era sempre accanto. Ancora, non erano giunti i discorsi di Lui, lasciati per me e per quegli occhi azzurri. Lui mi faceva sentire che erano solamente in sospeso le parole non dette. Presto sarebbero giunte perché non c’erano confini tra i due mondi e tutto poteva capitare in un piccolo attimo. I miracoli esistevano, ogni giorno, nelle vite di tutti. Bastava solo perseguire la via della verità e tutto si sarebbe incastrato come in un puzzle. Non serviva la fretta. Tutto sarebbe pervenuto al momento opportuno. Esisteva una legge nell’universo che faceva girare tutto. Non corrispondeva alle leggi degli uomini, per fortuna. Per questo il mio Dio avrebbe fatto giustizia e avrebbe fatto pagare le pene a tutti. Aveva molti modi per farlo. A Dio non interessava quanto fosse l’accumulo in banca, piuttosto osservava da lontano cosa e come si aveva agito per ottenerlo. Il mio Dio era molto giusto. Per questo né io, né Lui eravamo preoccupati. Al momento perfetto tutto sarebbe stato rivelato; il nascosto avrebbe preso luce e tutti avrebbero avuto in base al proprio comportamento.

Ogni giorno così ringraziavo il mio Dio portandomi le mani giunte al petto e benedicevo Loro, i miei nemici.

Non era una discesa dallo scivolo, una caduta confusa nel vuoto nero, ma una grande opportunità di cambiamento. Quando si scivolava inconsapevolmente si cadeva, per forza. Dopo un po’, forse anche lungo, arrivava una sorpresa. Non era la sorpresa dell’uovo di Pasqua, era la consapevolezza che cresceva dentro di me.

Per questo attraverso la preghiera benedicevo i miei più acerrimi  nemici. Non sarebbero stati mai degli amici. Non sarebbero entrati a forza nella mia vita. Ma dicevo Loro grazie. Senza di essi non sarei stata qui dove sono ora, non avrei inseguito strade intraprese, non sarei neppure qui a scrivere. Grandi i nemici, perché non sapevano che con la loro cattiveria, Io crescevo e mi portavo verso nuovi lidi, dove i pontili servivano per spiccare il volo. E sul mare era tutta un’altra vita.

Non avevo sotterrato l’ascia di guerra. Il guerriero dentro di me c’era sempre, pronto a combattere e sguainare la sua spada se avessero cercato ancora di bussare limitando o rubando i diritti dell’ essere umano. Sul mare potevo guardare lontano. E Loro? La vita non era credere di essere furbi. Era tutta un’altra cosa…

 

Poi alla sera pregavo, ringraziando nel mio cuore anche il Presidente del Senato. Grazie alla lettera che mi aveva fatto recapitare, mi aveva fatto scoprire il dono dello scrivere.  Le sue parole non erano cadute nel vuoto, ma avevano trovato un terreno davvero fertile. Erano diventate il mio limo.

Quella lettera, la tenevo spesso tra le mani ancora incredula, non tanto per le parole scritte, ma per il tempo che mi era stato dedicato. Il tempo era una cosa preziosa per tutti e il Presidente me ne aveva fatto dono. Essere dono era una delle cose più belle che accendeva gli occhi e illuminava l’anima.

 

Perdonare era davvero una parola così semplice da scrivere. Spesso mi ero ritrovata a pensare, tra me e me, al modo per raggiungere il perdono. Quando la rabbia e il nervosismo mi assalivano all’improvviso non sapevo come affrontare queste emozioni e il perdono di Loro per quel pasticcio era davvero impensabile. Poi arrivava il tempo a dare una mano. Il tempo spruzzava lievemente un manto di neve leggera coprendo tutto, facendo vedere nel bianco e nel nero le cose, semplicemente per quello che erano. Così tutto in un attimo spariva sotto la neve ed Io mi sentivo davvero libera di perdonare, così come il mio Dio mi aveva insegnato, tenendomi  per mano.

Tratto dal romanzo  “Loro”


 

Delle pecore rubate

 

Quando non si dorme di notte, poi di giorno si inizia a contare le pecore.

In un attimo tutta la stanchezza fiorisce e dormirei in piedi ovunque sono.

- Lo dicevo io che sei folle! – mi sussurra il mio Vicino, quasi per prendermi in giro.

Da quando è morto il mio Papà di notte non dormo e fin qua potrebbe essere anche normale.

Di notte all’improvviso mi sveglio e mi metto a scrivere scemenze.

Le ho tutte lì, dentro di me. Non so nemmeno da dove vengono, ne dove andranno.

La cosa più divertente è che tutto ciò mi fa ridere, ma non come quando sei felice e ridi o succede qualcosa di inaspettato e divertente e ridi. Ho imparato cos’è la Gioia profonda, questo sentimento che non sapevo nemmeno esistesse, quasi una sorta di Beatitudine interiore.

Non ci avevo pensato bene e non mi ero resa conto. Ma, quel giorno, quel fatidico giorno al mare, quando ho incontrato la Caduta, è stato subito chiaro.

Avevo di fronte proprio la Caduta e voleva pure conoscermi.

Non provavo rancore, né rabbia, ero completamente indifferente e, quasi quasi, mi faceva solo una grande pena. Dentro di me, mentre la guadavo seduta di fronte, ho pensato che valeva la pena prenderle letteralmente le misure.

In quel preciso momento, ho capito quanto ero fortunata ad non essere come lei e da dove veniva questo mio senso profondo di Gioia che sperimentavo da tempo.

Sentivo Gioia, mentre la Caduta era indaffarata a nascondere cose per paura.

Sapeva che aveva fatto qualcosa di non dovuto e la sua preoccupazione calzava a pennello.

Io avevo imparato la lezione dell’Accettare ed ero gioiosa, mentre la Caduta non era ancora in grado di riflettere. Continuava nel suo nascondere, con il profondo terrore di essere prima o poi scoperta. Nel Tempo le variabili potevano cambiare e non si poteva supporre ciò che sarebbe uscito e ciò che sarebbe diventato.

Prima o poi, tutti i films avvincenti arrivano a destinazione, alla parola Fine e di questo la Caduta era completamente terrorizzata: certo Fine e quale fine?

Sarebbe stata una brutta fine, ma esattamente quale non poteva ancor saperlo.

Io con questi miei scritti di stupidaggini, quasi quasi, non mi ero accorta che queste scemenze cominciavano a diventare interessanti e a crescere di notte sempre di più.

La Caduta, nella mia fantasia, e soprattutto di notte non ci poteva mettere il naso, né tantomeno poteva prevedere come tutto sarebbe potuto finire.

Nello stesso istante in cui prendevo quelle esatte misure alla Caduta e mi rendevo conto della mia Beatitudine, fu allora che qualcuno iniziò ad osservare con interesse crescente la scena.

Non so nemmeno chi fosse, anche se mi sembrava di averlo già intravisto.

Quel qualcuno mi osservava divertito e curioso mentre sprigionavo da tutti i miei pori questa mia Gioia pura, divertente e raggiante.

Da quel giorno tutto fu molto chiaro, come quando si sbatte il tappeto dalla polvere.

Dal mio tappeto la polvere si era già sollevata da un pezzo.

La Caduta era l’opposto della Vita, ma ancora non lo sapeva.

“Sbatti il tappeto.

Butta via la tua polvere.

Non è mai troppo tardi.

Non sarà mai troppo presto,

ma lascia che sia.”

 

Tratto da “Il mio Vicino e le sue quattro mogli”, Atto Primo, Edizioni Media Factory, autore Loria Orsato, pagine 31-32.