Luca Mastropasqua - Poesie e Racconti

L’alveare

 

C’era una volta in un bel prato fiorito una numerosa comunità di api; esse riteneva che il proprio mondo non andasse al di là dell’albero, che loro chiamavano il Grande Albero, attorno al quale costruivano instancabili il proprio alveare, e del prato attorno che permetteva loro di estrarre il polline dai fiori. Era una società prospera in cui tutti lavoravano e ogni ape sapeva esattamente quale fosse il suo posto; e questo, si sa, fa piacere a tutti.

Attorno al Grande Albero le api costruirono, generazione dopo generazione, un enorme alveare, così grande da ospitare migliaia di api; era un luogo magnifico, pieno di lunghissimi corridoi dorati dalle altissime volte a punta che si inoltravano fino al tronco del Grande Albero, laddove la Regina e il Consiglio decidevano le sorti della loro comunità.

Ogni ape chiamava l’alveare “la società perfetta”, convinto del fatto che solo lì poteva trovare riparo, sicurezza e soprattutto miele; perché più di ogni cosa le api amavano il miele, linfa dorata che percorreva tutto il loro dominio. Ma più lo amavano più volevano produrne, e alla fine la Regina e il Consiglio, accecati dalla brama, decisero di avviare un processo di ampliamento dell’alveare finalizzato a produrre quantitativi sempre maggiori di miele. Quando in una società il benessere cede il passo all’opulenza guidata dal desiderio smodato, ogni cosa comincia a decadere.

Le api compirono sforzi titanici pur di costruire spazi più ampi per raccogliere il miele. L’alveare, prima grande, cominciò a crescere oltre i limiti stabiliti dalla natura; in più si decise che ogni nuovo spazio dovesse essere riservato unicamente al miele.

«Che le nuove generazioni di api si stringano, finora sono state fin troppo larghe! I nuovi spazi servono per le riserve di miele!» ordinò la regina, ormai completamente sopraffatta dalla brama.

«Regina, un alveare non dovrebbe essere così grande, il nostro grandioso alveare va ormai contro le leggi della natura! Ti supplichiamo, consultati con il Consiglio e ferma questa follia prima che sia troppo tardi!» risposero i Saggi, consapevoli del fatto che le loro suppliche sarebbero state vane. Sapevano infatti che la regina faceva anche lunghi bagni nel miele, e come lei anche tutti i membri del Consiglio: gli appetiti e la cupidigia guidavano la loro società un tempo fiera ma moderata.

E così l’alveare divenne sempre più grande, sempre più alto. Nei piani alti venne messo il miele che, col tempo e nonostante l’abbondanza, divenne un bene sempre più prezioso che venne distribuito in maniera sempre più centellinata. E mentre i potenti facevano bagni in enormi vasche di miele, le api operaie deperivano per la fame.

L’alveare divenne un luogo di follia: il crescente senso di impotenza e di rabbia nei cuori delle api operaie era proporzionale al delirio di onnipotenza delle api dell’alta società. I Saggi sapevano che ormai la loro amata società era finita. Per questo, nella loro lungimiranza, fecero qualcosa che potesse garantire e preservare la vita.

 

Fu la natura a porre fine alla concupiscente vanità delle api.

Più l’alveare cresceva, più il Grande Albero, centro vitale del loro mondo, deperiva.

«Mia regina ti preghiamo, il Grande Albero non deve essere coperto dall’alveare se non in misura minima! Se la luce non arriverà al suo tronco, il Grande Albero si indebolirà!» continuavano a supplicare i Saggi.

«Smettetela una buona volta! Siete soltanto vecchi e decrepiti uccellacci del malaugurio! Non vedete l’abbondanza che regna? Cosa volete che possa andar male in tanta ricchezza?! Ora sparite, siete voi non il Grande Albero ad aver bisogno di sole!» li cacciò la miope regina.

Ma i saggi avevano ragione. Più l’alveare cresceva in altezza e copriva il tronco, più le foglie del Grande Albero ingiallivano e progressivamente cadevano. Era un processo dinanzi agli occhi di tutti, eppure né le api operaie, tutte concentrate sulle loro piccole vite e sui loro rancori, né l’alta società dei bagni di miele fecero caso all’approssimarsi della catastrofe.

Finché un giorno nessuno poté più far finta di niente: un rumore fortissimo scosse l’intero alveare. In quel momento i Saggi seppero senza alcun dubbio che il momento che tanto avevano temuto era ormai giunto. Dopo il boato tutto l’alveare cominciò a tremare. Le ingenue api pensarono che fosse un terremoto: i loro antenati avevano raccontato di eventi simili. Ma dopo poco si resero conto che non poteva essere un sisma la causa, perché anziché scemare aumentava.

Dopo pochi istanti, il tronco ormai marcio cominciò a cedere. Intere sezioni dell’alveare cominciarono a crollare sotto le sollecitazioni; per prima cedette la parte superiore che conteneva le pesantissime riserve di miele.

Fu come la caduta delle tessere di un domino: la parte superiore schiacciò quella inferiore, poi quella adiacente e così via. Inoltre il tanto prezioso miele tolse alle povere api l’unico mezzo che avevano per salvarsi, cioè volare via, perché quella smisurata quantità miele ricadde sui piani inferiori. Intere famiglie finirono annegate nell’oggetto del loro desiderio, prime fra tutte le famiglie aristocratiche dei piani superiori, regina e Consiglio compresi, mentre le api superstiti non poterono librarsi poiché il miele aveva impiastricciato loro le ali. Fu un disastro senza precedenti.

Le uniche a salvarsi furono le pochissime api dei piani più bassi, dove venivano relegate le più povere delle api operaie; quelle però che, proprio a causa della loro lontananza dall’oro del miele, non erano state sopraffatte dalla brama e dalla vanità.

Prima di morire, l’ultimo dei Saggi, anche lui con le ali bloccate dal miele, riuscì a mettere in salvo una cassa di legno.

«Portatela fuori dall’alveare! Il Grande Albero è ormai perduto ma ciò che sta qui dentro garantirà la vita ai superstiti! Fate presto!» disse il Saggio ad alcune api in fuga. Consegnata la cassa, il Saggio osservò felice le api volare fuori verso il futuro mentre l’antico regno si sgretolava sotto il peso della sua stessa corruzione.

Messesi in salvo sul prato, le api si disperarono alla vista del moncone morto che fuoriusciva dal terreno, ciò che restava del Grande Albero, e delle strutture distrutte dell’alveare sotto il quale era perita la quasi totalità dei loro fratelli e sorelle. Si contarono, e sgomente si resero conto che erano rimaste solo in cento. Migliaia di api erano morte. Si sentirono perdute.

«Che cosa abbiamo fatto…?» dissero colme di disperazione.

Ma poi giunse l’ultimo gruppo di sopravvissuti, quello che portava la cassa.

«Questa ce l’ha data Nathan il Saggio prima di morire, ha detto che il contenuto di questa cassa ci salverà» dissero.

Al nome del più grande dei saggi, famoso per la sua tolleranza e il suo amore per la diversità, le api si rianimarono. Tutte si misero a guardare mentre l’ultimo gruppo apriva la cassa.

All’interno c’era una ghianda. Sul fondo c’era un biglietto:

 

Questo è l’ultimo dono dell’Accademia della Saggezza

 

Le api piansero di fronte alla generosità e al sacrificio dei Saggi che, insultati, biasimati e bollati da tutti come “inutili”, avevano salvato ciò che vi era di più sacro per le api, e che non era il miele: era il Grande Albero.

«Questa ghianda farà risorgere suo padre, il Grande Albero» disse l’ape che, poco dopo sarebbe diventata il capo della nuova Accademia della Saggezza, questa volta organo di governo della nuova comunità.

 

Furono anni difficili per i sopravvissuti all’ombra del Grande Albero morto. Ma i rapidi progressi della ghianda riempivano i loro cuori di speranza. Proprio alla base dell’alberello che avrebbe accolto il loro nuovo alveare misero una targa recante la scritta che, si accorsero dopo, era incisa in caratteri sottili sulla cassa dei Saggi:

 

Dal Grande Albero viene la vita.

Ma ciò che viene donato deve essere ripagato:

al dono della Vita va corrisposto il dono della Cura del mondo.


Le api superstiti misero questa scritta con l’intento di ricordare alle generazioni future che non c’è vita nell’egoismo, nella vanità e nella brama, poiché ogni essere è una cosa sola nella natura.


 

Estasi dell’io

 

Estasi dell’io,

linguaggio universale

che ognuno parla

unicamente con se stesso.

 

Parlare e non capirsi:

parola universale

che non è nella grammatica dell’io.

 

Estasi,

estasi,

uscita dalla ragione egoica,

rinuncia alla violenza

del dire “io”

per avvicinarsi

con una carezza

al volto dell’altro.

 

Carezza all’anima,

estasi dell’io:

consapevolezza che esiste solo la pace.


Armonia

 

Armonia,

sinfonia di esseri

non separati.

 

Sentire la pace d’intorno,

non violenza nel sé,

quieto e pago

di tutto,

del tutto.

 

Armonia,

eufonia

placato il fragore del sé.


Distacco

 

Tarlo della ragione,

lavorio della passione.

 

Finezza sensibile

dono della conoscenza

come del cuore.

 

Non egoistico allontanamento

dal mondo,

ma artistica

vacua pienezza

dell’anima.

 

Percezione

del colore

della musica

dell’essere.

 

Solo melodiosa,

irrazionale

pace,

in compagnia del Tutto.


Falsi eroi

 

Falsi eroi,

miti caduti,

tutto in rovina.

 

Vacui confini

e miopi convinzioni,

ceco fanatismo

e ottuso ateismo.

 

“Si vive”

nell’attesa di qualcosa

che, in fondo,

non si vuole costruire.

 

Dal vivere

si finisce

col lasciarsi vivere,

morte lenta

e disperata,

appagata soltanto

da falsi eroi,

idoli della vacuità

della parola priva di pensiero.


La distanza dell’altro

 

Distanza

di una semi-estraneità.

 

Il ritegno per l’altro,

amore di madre e di figlia

celato dall’Io despota,

offuscano la parola.

 

Coltre di silenzio,

impossibilità della parola

tra un io e un tu, divisi

dalla balbuzie

dell’egoismo.


Poesia

 

Voce delle emozioni,

canto dell’anima.

 

Voce dell’intelletto,

vivacità della mente,

 

Amore della vita,

sensibilità,

capacità di esser toccati

dalla vita stessa

che si vive.

 

Questa è poesia:

vita stessa che si canta

con la voce del cuore e della ragione.

 

Il cuore solo brucia,

la ragione tace:

duplice ricezione della vita,

unite da uno spirito fine

cantano come una sola voce

il celeste canto della poesia.


Tu

 

Tra tanto sapere

la leggerezza

non avevo conosciuto.

 

Ridere,

scherzare,

passeggiare

senza il martellare

di pensieri

gravosi.

 

Contrappeso fedele

a quel ronzio fascinoso,

esaltante tarlo

di insaziabile sapere.

 

Ma il conoscere

è anche

il sentire leggero.


 

Lingua mortale

 

Se il vero profondo dice la poesia

e il vero raziocinante il pensiero,

perché il vero

è sempre lontano?

 

Bello e vero e buono…

pensiero e poesia dicono tutto.

 

Ma perché il suo canto

e il suo parlare

restano muti?

 

Tale e tanta

è la distanza

tra svegli e dormienti?

 

Esiste lingua mortale

che parli a cuore e ragione,

irretiti dalla venefica

assenza di pensiero?


Pietra granitica

 

Prosegui

lungo la via della conoscenza,

lavora,

studia

… vivi

… ama.

 

Non lasciare

che il tuo spirito

sia fiaccato, corrotto

dal potere dei vili.

 

Sia il tuo animo

pietra granitica,

roccia imperturbabile

nel fragore della tempesta.

 

Rimani indifferente

ai malanni della materia,

e gioisci

della luce del sapere.