Luigi Bruno - Poesie

DA “LE MAREE. CANTI E ROVINE


Oscuroluce

 

Chiarore invernante di nube

su formose metamorfosi

di fianchi femminei e sirene alate

nella vastità che corteggia

il poco a poco che al tempo trasfonde

nel latte di sera ottobrina

l’anelito che salire non può

qui mentre è spumeggiante l’anima

d’irruenti radure cosmica

scevre di mistero profondo a sé.

 

Nel già stato viaggio che si rammemora

nodi d’alberi frondosi s’infiniscono

che ombrosa appare la volta verderame

se al vento m’insegue incostante

zampillo di ali

su fiocchi cerulei di pazienza

che vi apre appena il varco e si allarga

dal fondo di sé

a misura che il limite scompaia.

 

L’albero gonfio degli anni s’inarca…

sale l’affanno dei passi lasciati

più giù dove si veleggia ancora un amore

e guardi da una barca

serena nell’aria in rovina

impastata di edera e di echi.

 

Sei neve che l’ammasso

discioglie delle voci perdute

che mi hanno percorso

fino a corteggiare distese

che voce anche tu non puoi attraversare

che nel tormento di me.

 

Termine che inverna nubiloso

sui vetri come crinali di luce

ed orizzonti d’ambra che vi dischiuda

il richiamo di là che il giogo

non riesce a risalire e s’apre

dal nulla riverso in lontananze

a dissetarsi

intensa di splendori invisibile d’altrove

                                 

                               spenta una luna.


Émmenai kálliston (Saffo)

 

E’ calata ormai la sera sulle nostre case

ed tu assorto su marosi inesprimibili

a guardare lontano,

e svanire nel chiarore della notte.

Chiassoso si destreggia a nord il paese

e quindi il mare;

risa di festa conduce qui

un giovane zefiro.

Come d’un poeta hai foggiato il tuo spirito

e di un prode hai cercato il vanto,

ma non sono che ombre annegate.

I grandi uomini, che navigano sull’oceano

dei mortali informe,

sospirano l’eternità della loro vita:

parlano e combattono,

soccombono e risorgono,

e noi qui a cercare la radice della nostra miseria.

O silere candido e lontano,

il salire penoso con la tua voce incanti,

tieni i suoi passi con la tua mano!

Rapido un soffio fruga il petto e scappa,

di un dio non lascia che l’eterno,

orme sfregiate di una vita gloriosa,

non un ricordo che di umana sciagura.

Quanto verace occorra che all’uomo

l’animo affanni, io non so dire:

sì, poiché ognuno se ne va, tutto avanza,

solo ne rimane l’ombra d’amore.

Ancora la luna ci guarda al suo mareggiare,

e già si infrange sulle nubi

che sono dalle acque.

L’ora tace e si oscura, qui,

nell’indifferenza delle cose amate,

e l’onda solitaria vi esala

sotto il tenue raggio che mormora.

Un altro fior di stelle…

ma la tempesta ormai ci sovrasta.

E noi a cercare nell’anima

un riflesso di luna

sul mare che ci ha perduto.


Il salice

 

L’albero sulla proda e l’ombra sua franta

si getta ampio, e flagra, nella gora di fiamma,

un cruccio lungo di anni, un presagio che sale

con me nel grido amaro. L’aria smorta negli occhi

porta un peso, un’ambascia, la mia insonnia d’anime

in questo stare inerte: sopra un segno di morte

solo l’aspra cicala dice che siamo vivi.

È l’uomo in me che annotta e pena di uno scampo,

una franchigia al male del conoscersi umano.

E ripenso di foglie perdute, e a cari tremiti,

al bisbiglio di madre che sento ancora scorrere

nell’acqua, affaticato; al figlio che non sa.

Un nulla d’infinita pietà, è ciò che avanza.

E vi guardo da qui, dietro la mia notte,

come d’altro destino che traluce e si stagna.

Non ho che un po’ di fiato, e un tremolio leggero

che non concede asilo, e nessuna salvezza.

Non ho che te, e un ramo rinsecchito che soffre,

cuore amaro, che geme l’arsura di un riscatto.

Scendeva a fiotti tremuli l’ombra e a balzi da un salice,

vi accorrevamo incerti a uno scarno riposo

dall’ansia di speranze. A disperate ore,

ora, si staglia un murmure che si espia riverso,

di un tronco riarso e grigio, nella muta pietà.

Nulla più ho vissuto di quanto ho desiderato.

Un vento inafferrabile in me segreto s’alza,

e sento dal gorgo, questo, che di voci e fiele

s’addensa alle mie spalle la sera, e già mi chiama.

La vita è solo un’ombra di salice nella calura.

 


 

La corriera ha preso del vento

la luce che il giorno percorre e spare,

che smeriglia nei monili di sera

e piega la discesa,

corpo e anima,

fino al nadir e zenit dell’essere.

La vela taglia il passo soleggiato

verso l’orienti dell’anima

e s’india.

 

Salpa con me,

finché la parola attende

sopra i velieri d’orizzonti

ancora attesi, un poco ancora.

Un poco ancora accesi.

 

Tace: tace l’onda

che si infiamma,

e posa su questo cuore

il volto reclinato della sera.

 


 

 Dettami parole di fiamma,

che si compongano in versi

scabri, e si incantino

nello sciacquio tra scogli inafferrabili.

Che io mi versi nel tuo ritmo

trasognato di lune estive,

e un ciottolo diventi

levigato dal sale del tuo canto.

 

Dammi eleganza, o concedimi almeno

l’accordo al mio bislacco parlare,

nel grumo di parole,

e sia, la tua e la mia,

un tenue scambio d’amore.

 

Non tardi a venire la sera.

Che io trovi in te un sussulto,

un sincero sentire

d’umanità a questa vita,

che trascina stanca a una riva

che non vogliamo, e si raggela.

 

Sia il tuo belcanto l’anima,

l’azzurro il sangue che accalora,

muoia e risorga ad ogni istante

una parola che riannodi,

come il racconto di chi già

ti ha attraversato.

 

Quando anche per me verrà

l’ora di salpare,

vieni nel mio canto, ultimo fiore,

a raccogliermi sulla battigia,

come un sassolino nella risacca,

e sia, il mio e il tuo,

un unico naufragio.

 


 

Scende nel cuore questa sera,

limpida

come la calma sull’acqua marina,

dove si specchia l’indaco tramonto

in un timido affanno.

 

Vorrei gettarmi nel canto commosso

del giorno che tarda

a congedarsi,

e si volge indietro.


 

 

Diriguisse malis (Ovidio)

 

Sei un sepolcro, mia speranza.

 

Eri uno scrigno

dove i tuoi occhi, con voce

di smeraldo,

mi suggerivano silenzi

che simulacri di vento

ho creduto

fossero, i sogni.

 

Ora la tenebra

che mi conduce per mano

e piange.

 

Tu non rimpiangermi:

i sentieri che attraverserai,

sola,

non sono che

il deserto

dove ho perso la battaglia.

Non chiedermi più

di seguirti,

come allora.

 

Lasciami qui;

grido che il cielo

sopprime

e chiamami ombra.

 

Storni il tuo passo

il pensiero

che si conduce a me,

e ne dimentichi

il precipizio che lo squarcia,

e ci separa.

 

Io mi ricorderò di te,

quando a sera

il tempo

ferirà la tua luce,

e nel dolore

piangeremo.

 

Ti ho amata,

quando mi hai tenuto

in braccio,

e sola

hai compreso.

 

Non temere ora,

sono passato;

avvolgi la mia anima

in un sudario

di ricordi,

lascia che il vento

continui

senza di me.

 


 

Amore, ho paura a dirti,

ora che mi incammino per un’erta

che non rincorre più i sonagli

del desiderio, in cerca di te,

né più vi arranca il meriggio,

ma la sera.

 

Dietro di me

sento crescere degli anni

il brulichio,

fino a estenuarsi in un lamento.

È ormai un gemito di volta, un nodo,

il grave a cui si tengono

accadimenti, incontri,

defezioni che si ricettano

nella sentina di ricordi

o di solo possibili orditure.

 

Se ne va più alta, ora, la mia ombra

su una scoscesa verso ovest,

ai rintocchi di cardi e di campanule.

Non c’è spiano rassicurante, non esiste

per questo lacerto polveroso,

e mi guardo indietro

come a un approdo di più ilari giorni.

 

Amore, sento ancora il tuo richiamo,

incapace a ridestare una soluzione:

barlume dietro il monte

dei giorni, mi affievolisco.

Cessato è il furore, le smanie

d’acquitrini, insonnia pervicace

delle immaginifiche nebbie

del desiderio.

Mi insegue ora

un leggero vento di bonaccia,

e una serena scia:

a distese più caute mi lascio

traghettare.

 

E più si schiara in me

il senso, il filo di succedimenti

che vanno a quietarsi sulla battigia,

dove si scorci il rebbio inoffensivo

di quel che potrebbe essere,

e ho lasciato.

Come se, del giorno

ammainate le vele,

fuori dal rimestio vorticoso del mareggio,

navighi ora alla marina

di una lunga risacca.

 

Amore, mi arresto infermo

al varco d’una selva che rèboa,

in lontananza,

morsa da venti

disumani, sempre giù,

attraverso cunicoli ritorti d’ombra,

impreveduti,

verso più latebre oscure,

- e una bocca pare che s’apra –

dove tutti e ognuno,

ciascuno a suo modo,

scopre d’essere veramente,

                         nell’uomo,

amaramente umano.



Ricordo. Per una terra martoriata

 

Là dove la memoria si confonde

con l’orrore, dove l’oblio della morte

diventa l’unica paura che non teme il cuore,

là dove un padre china il dolore

sulla gelida tomba

di un sorriso remoto

a scolorare la terra vermiglia,

là dove solo la muta bambola

v’è a richiamare il suo sopirsi

e le fiabe notturne alla mente,

e il sbadigliare stanco…

…piccole labbra allora,

tana di oblio ora di una figlia

che «buona notte» li bisbiglia.

Là dove un dio ha lasciato la sua fredda croce,

dove un reo ha posto l’innocente

nel sepolcro, con la nuda mano,

lontanando la morte,

inciderò nel ricordo fiori dell’odio

                                     e di perdono.

 


 

MetafisicaMente

 

Aleggiare arcuato bisbiglio

sul vuoto grembo luminoso,

abbraccio di cielo naufrago

 

Nel sinuoso cobalto cielomare

intarsia sfolgorio di pupille,

sole,

guglia iridescente che opprime,

e tace

 

Tramortito profondo di nube,

vertigine di fuga zenitale

 

Rapido precipitare

nell’invorticarsi

di roccatura

aerea

 

Risucchio dell’anima

 

Notturno di lanterna lunare

nell’indaco di pace