DA “LE MAREE. CANTI E ROVINE”
Oscuroluce
Chiarore invernante di nube
su formose metamorfosi
di fianchi femminei e sirene alate
nella vastità che corteggia
il poco a poco che al tempo trasfonde
nel latte di sera ottobrina
l’anelito che salire non può
qui mentre è spumeggiante l’anima
d’irruenti radure cosmica
scevre di mistero profondo a sé.
Nel già stato viaggio che si rammemora
nodi d’alberi frondosi s’infiniscono
che ombrosa appare la volta verderame
se al vento m’insegue incostante
zampillo di ali
su fiocchi cerulei di pazienza
che vi apre appena il varco e si allarga
dal fondo di sé
a misura che il limite scompaia.
L’albero gonfio degli anni s’inarca…
sale l’affanno dei passi lasciati
più giù dove si veleggia ancora un amore
e guardi da una barca
serena nell’aria in rovina
impastata di edera e di echi.
Sei neve che l’ammasso
discioglie delle voci perdute
che mi hanno percorso
fino a corteggiare distese
che voce anche tu non puoi attraversare
che nel tormento di me.
Termine che inverna nubiloso
sui vetri come crinali di luce
ed orizzonti d’ambra che vi dischiuda
il richiamo di là che il giogo
non riesce a risalire e s’apre
dal nulla riverso in lontananze
a dissetarsi
intensa di splendori invisibile d’altrove
spenta una luna.
Émmenai kálliston (Saffo)
E’ calata ormai la sera sulle nostre case
ed tu assorto su marosi inesprimibili
a guardare lontano,
e svanire nel chiarore della notte.
Chiassoso si destreggia a nord il paese
e quindi il mare;
risa di festa conduce qui
un giovane zefiro.
Come d’un poeta hai foggiato il tuo spirito
e di un prode hai cercato il vanto,
ma non sono che ombre annegate.
I grandi uomini, che navigano sull’oceano
dei mortali informe,
sospirano l’eternità della loro vita:
parlano e combattono,
soccombono e risorgono,
e noi qui a cercare la radice della nostra miseria.
O silere candido e lontano,
il salire penoso con la tua voce incanti,
tieni i suoi passi con la tua mano!
Rapido un soffio fruga il petto e scappa,
di un dio non lascia che l’eterno,
orme sfregiate di una vita gloriosa,
non un ricordo che di umana sciagura.
Quanto verace occorra che all’uomo
l’animo affanni, io non so dire:
sì, poiché ognuno se ne va, tutto avanza,
solo ne rimane l’ombra d’amore.
Ancora la luna ci guarda al suo mareggiare,
e già si infrange sulle nubi
che sono dalle acque.
L’ora tace e si oscura, qui,
nell’indifferenza delle cose amate,
e l’onda solitaria vi esala
sotto il tenue raggio che mormora.
Un altro fior di stelle…
ma la tempesta ormai ci sovrasta.
E noi a cercare nell’anima
un riflesso di luna
sul mare che ci ha perduto.
Il salice
L’albero sulla proda e l’ombra sua franta
si getta ampio, e flagra, nella gora di fiamma,
un cruccio lungo di anni, un presagio che sale
con me nel grido amaro. L’aria smorta negli occhi
porta un peso, un’ambascia, la mia insonnia d’anime
in questo stare inerte: sopra un segno di morte
solo l’aspra cicala dice che siamo vivi.
È l’uomo in me che annotta e pena di uno scampo,
una franchigia al male del conoscersi umano.
E ripenso di foglie perdute, e a cari tremiti,
al bisbiglio di madre che sento ancora scorrere
nell’acqua, affaticato; al figlio che non sa.
Un nulla d’infinita pietà, è ciò che avanza.
E vi guardo da qui, dietro la mia notte,
come d’altro destino che traluce e si stagna.
Non ho che un po’ di fiato, e un tremolio leggero
che non concede asilo, e nessuna salvezza.
Non ho che te, e un ramo rinsecchito che soffre,
cuore amaro, che geme l’arsura di un riscatto.
Scendeva a fiotti tremuli l’ombra e a balzi da un salice,
vi accorrevamo incerti a uno scarno riposo
dall’ansia di speranze. A disperate ore,
ora, si staglia un murmure che si espia riverso,
di un tronco riarso e grigio, nella muta pietà.
Nulla più ho vissuto di quanto ho desiderato.
Un vento inafferrabile in me segreto s’alza,
e sento dal gorgo, questo, che di voci e fiele
s’addensa alle mie spalle la sera, e già mi chiama.
La vita è solo un’ombra di salice nella calura.
La corriera ha preso del vento
la luce che il giorno percorre e spare,
che smeriglia nei monili di sera
e piega la discesa,
corpo e anima,
fino al nadir e zenit dell’essere.
La vela taglia il passo soleggiato
verso l’orienti dell’anima
e s’india.
Salpa con me,
finché la parola attende
sopra i velieri d’orizzonti
ancora attesi, un poco ancora.
Un poco ancora accesi.
Tace: tace l’onda
che si infiamma,
e posa su questo cuore
il volto reclinato della sera.
Dettami parole di fiamma,
che si compongano in versi
scabri, e si incantino
nello sciacquio tra scogli inafferrabili.
Che io mi versi nel tuo ritmo
trasognato di lune estive,
e un ciottolo diventi
levigato dal sale del tuo canto.
Dammi eleganza, o concedimi almeno
l’accordo al mio bislacco parlare,
nel grumo di parole,
e sia, la tua e la mia,
un tenue scambio d’amore.
Non tardi a venire la sera.
Che io trovi in te un sussulto,
un sincero sentire
d’umanità a questa vita,
che trascina stanca a una riva
che non vogliamo, e si raggela.
Sia il tuo belcanto l’anima,
l’azzurro il sangue che accalora,
muoia e risorga ad ogni istante
una parola che riannodi,
come il racconto di chi già
ti ha attraversato.
Quando anche per me verrà
l’ora di salpare,
vieni nel mio canto, ultimo fiore,
a raccogliermi sulla battigia,
come un sassolino nella risacca,
e sia, il mio e il tuo,
un unico naufragio.
Scende nel cuore questa sera,
limpida
come la calma sull’acqua marina,
dove si specchia l’indaco tramonto
in un timido affanno.
Vorrei gettarmi nel canto commosso
del giorno che tarda
a congedarsi,
e si volge indietro.
Diriguisse malis (Ovidio)
Sei un sepolcro, mia speranza.
Eri uno scrigno
dove i tuoi occhi, con voce
di smeraldo,
mi suggerivano silenzi
che simulacri di vento
ho creduto
fossero, i sogni.
Ora la tenebra
che mi conduce per mano
e piange.
Tu non rimpiangermi:
i sentieri che attraverserai,
sola,
non sono che
il deserto
dove ho perso la battaglia.
Non chiedermi più
di seguirti,
come allora.
Lasciami qui;
grido che il cielo
sopprime
e chiamami ombra.
Storni il tuo passo
il pensiero
che si conduce a me,
e ne dimentichi
il precipizio che lo squarcia,
e ci separa.
Io mi ricorderò di te,
quando a sera
il tempo
ferirà la tua luce,
e nel dolore
piangeremo.
Ti ho amata,
quando mi hai tenuto
in braccio,
e sola
hai compreso.
Non temere ora,
sono passato;
avvolgi la mia anima
in un sudario
di ricordi,
lascia che il vento
continui
senza di me.
Amore, ho paura a dirti,
ora che mi incammino per un’erta
che non rincorre più i sonagli
del desiderio, in cerca di te,
né più vi arranca il meriggio,
ma la sera.
Dietro di me
sento crescere degli anni
il brulichio,
fino a estenuarsi in un lamento.
È ormai un gemito di volta, un nodo,
il grave a cui si tengono
accadimenti, incontri,
defezioni che si ricettano
nella sentina di ricordi
o di solo possibili orditure.
Se ne va più alta, ora, la mia ombra
su una scoscesa verso ovest,
ai rintocchi di cardi e di campanule.
Non c’è spiano rassicurante, non esiste
per questo lacerto polveroso,
e mi guardo indietro
come a un approdo di più ilari giorni.
Amore, sento ancora il tuo richiamo,
incapace a ridestare una soluzione:
barlume dietro il monte
dei giorni, mi affievolisco.
Cessato è il furore, le smanie
d’acquitrini, insonnia pervicace
delle immaginifiche nebbie
del desiderio.
Mi insegue ora
un leggero vento di bonaccia,
e una serena scia:
a distese più caute mi lascio
traghettare.
E più si schiara in me
il senso, il filo di succedimenti
che vanno a quietarsi sulla battigia,
dove si scorci il rebbio inoffensivo
di quel che potrebbe essere,
e ho lasciato.
Come se, del giorno
ammainate le vele,
fuori dal rimestio vorticoso del mareggio,
navighi ora alla marina
di una lunga risacca.
Amore, mi arresto infermo
al varco d’una selva che rèboa,
in lontananza,
morsa da venti
disumani, sempre giù,
attraverso cunicoli ritorti d’ombra,
impreveduti,
verso più latebre oscure,
- e una bocca pare che s’apra –
dove tutti e ognuno,
ciascuno a suo modo,
scopre d’essere veramente,
nell’uomo,
amaramente umano.
Ricordo. Per una terra martoriata
Là dove la memoria si confonde
con l’orrore, dove l’oblio della morte
diventa l’unica paura che non teme il cuore,
là dove un padre china il dolore
sulla gelida tomba
di un sorriso remoto
a scolorare la terra vermiglia,
là dove solo la muta bambola
v’è a richiamare il suo sopirsi
e le fiabe notturne alla mente,
e il sbadigliare stanco…
…piccole labbra allora,
tana di oblio ora di una figlia
che «buona notte» li bisbiglia.
Là dove un dio ha lasciato la sua fredda croce,
dove un reo ha posto l’innocente
nel sepolcro, con la nuda mano,
lontanando la morte,
inciderò nel ricordo fiori dell’odio
e di perdono.
MetafisicaMente
Aleggiare arcuato bisbiglio
sul vuoto grembo luminoso,
abbraccio di cielo naufrago
Nel sinuoso cobalto cielomare
intarsia sfolgorio di pupille,
sole,
guglia iridescente che opprime,
e tace
Tramortito profondo di nube,
vertigine di fuga zenitale
Rapido precipitare
nell’invorticarsi
di roccatura
aerea
Risucchio dell’anima
Notturno di lanterna lunare
nell’indaco di pace