Luigi Valenti - Poesie

Il volo

 

Gli uccelli di cristallo

della mia mente elettrica

affondano la loro presunzione

nell’aria calda e trasparente.

I miei ricordi non hanno carne e sangue:

vivono tranquilli,

dentro le cose mai esistite.

Sono passato attraverso le nuvole capricciose

senza farmi male.

Ho ballato danze veloci

con abiti eleganti

senza che nessuno

mi avesse mai insegnato.

Ho volato senza ali,

come fosse una cosa normale.


La fuga

 

Casco dentro la vita.

Gli occhi aguzzi delle persone

sono lame dentro la mia testa.

Mi arrampico sulle antenne alte ed impossibili                                  

cercando un rifugio dentro le nuvole.

Ma mani veloci ed ostinate

inseguono i miei piedi.

Scalcio e mi dimeno,

perdo l’equilibrio,

e ricado dentro la vita.

Mi nascondo dentro l’ombra della gente

e non mi fermo mai.

Sono quello che conosce le facce di tutti

ma che nessuno conosce la sua.

Il serpente impazzito

e il coniglio in trappola.

All’improvviso ritrovo la forza.

Faccio un salto fino alla nuvola più alta,

e mi godo lo spettacolo.


Il senso di tutto


Cerco il senso di tutto

e non lo trovo mai.

La verità è una donna pazza

che non guarda mai negli occhi.

Tutte le mie credenze

sono zattere fragili

dentro un mare in tempesta.

La violenza dei miei sensi tiene in ostaggio i miei pensieri,

mentre la mia mente crede di essere da sola.

Urlano dentro la mia pancia i miei desideri impossibili,

ma le loro richieste cadono nel vuoto.

 

Cerco il senso di tutto

e non lo trovo mai.

Il mondo ha un cuore sanguinante

che nessuno ascolta.

La voce dei pazzi ricade loro addosso

come una pietra pesante.

Gli aeroplani sfrecciano dentro il cielo annoiato

di una domenica pomeriggio.

E io mi affaccio alla finestra

e guardo la gente passare.


La sconosciuta


Ti guardi intorno

con la testa piena di pensieri,

bella così

solo quando non vuoi esserlo.

I tuoi capelli complici dei miei occhi curiosi

scivolano improvvisi davanti ai tuoi occhi attenti.

Perché la tua mano pronta e veloce

possa ricordare loro

il posto che hanno nel mondo.

Sei bella perché sei tu tra tante.

E nessuna è come te.


Passeggiata solitaria prima di andare a dormire


Cammino dentro la notte

guardando le facce rumorose della gente.

Tutte queste bocche

bevono e parlano,

fumano sigarette numerose e piene di promesse.

Parole che cercano l’abbraccio caldo di altre parole,

occhi che si muovono veloci,

bocche che ridono.

Occhi che si accorgono della mia presenza curiosa e solitaria,       

curiosi e soli in quel momento quanto me.

Qualcuno tira le corde di questa danza di luci

immersa dentro la notte scura.

Per scoprire che faccia ha

ho provato ad arrampicarmi sopra il cielo.

Ma non ci sono riuscito.

Sono rimasto schiacciato sulle strade

a guardare solitario le facce rumorose della gente.


Il destino


Risalgo lungo il fiume largo della mia esistenza,

la barca dritta va veloce.

Senza vele conosce la sua strada:

è lei che porta me sicura.

Vira lungo la linea giusta del fiume che non si ferma mai.

Ha deciso i cieli, le terre e gli orizzonti

che i miei occhi devono vedere.

E quelli che i miei occhi non vedranno mai.

Entro dentro pensieri

che mi portano sulla sua strada,

e riconosco la giusta direzione.

È un tuffo alto, senza bagnarsi mai.

Dritto fino al cielo.


Fantasmi nella mente


Datemi in faccia la verità

nascosta dietro alle vostre bocche bugiarde.

 

Ho spinto dentro la mia testa

pensieri che il mio cuore guardava con sospetto.

Tradito troppo volte dalla mia mente disperata,

mi sono aggrappato alle parole sagge delle persone normali.

 

Ma il fantasma del dubbio

trafiggeva le mie notti piene di sogni crudeli.

Vedevo attorno a me

sorrisi di scherno convinti di nascondersi bene

mentre la gente attorno a me mi diceva premurosa

che era il frutto recente del mio solito delirio.

 

Ho sopportato silenzioso

tenendo al guinzaglio la mia mente.

Ma la follia in agguato

ha aperto la porta della gabbia.

E il mio cuore è saltato sopra il lampadario

come una scimmia impazzita.

 

I miei pensieri folli

si nascondono travestiti dentro la mia testa.

Mimetizzati in mezzo a quelli normali.

Girano veloci tutti insieme

attorno alla mia faccia sconvolta.

E io non riesco più a distinguerli.

 

Datemi in faccia la verità

nascosta dietro alle vostre bocche bugiarde.

La più crudele e senza cuore

è migliore della menzogna.

Devo partire da quel punto

per cominciare a risalire.


Il viaggio


Senza scarpe

ho attraversato il mondo.

Con un uccello sulla spalla

e la mia voglia di capire.

 

Durante il mio viaggio

ho incontrato persone che non hanno mai viaggiato.

Erano loro la risposta alle mie domande.

 

Senza scarpe

ho attraversato il mondo.

Con sulle spalle la mia fatica

e il sole sotto i piedi.

 

Durante il mio viaggio

ho visto donne anziane come la terra.

Facce sicure senza parole.

 

Per arrivare alla fine di me stesso

sono passato sotto tanti cieli.

Le cose che i miei occhi

hanno visto in quel momento

erano sempre state lì.

Anche senza di loro.


 

Utòpia

 

Il pianeta Deimos era ormai rimasto quasi del tutto disabitato: i suoi abitanti avevano prodotto nel tempo un inquinamento sempre maggiore, tanto da causare malattie mortali di ogni genere e una sterilità sempre più diffusa. Il mare di Deimos, un tempo azzurro e pieno di pesci, era diventato nero come la pece, sorvolato solo da qualche uccello malconcio. La terra era invece ridotta ad una distesa desertica pervasa da radiazioni nucleari: erano rimaste solo poche e sparute macchie di vegetazione, e anche quelle stavano per ridursi sempre di più.

Il re di Deimos, Nym III, decise allora che era giunto il momento di abbandonare il pianeta per andare a colonizzarne un altro. Fece riunire quindi il suo popolo davanti al suo palazzo reale e si rivolse ad esso affacciandosi al balcone: “Cari deimosiani, vi ho convocati qui solennemente per mettervi a conoscenza di una mia importante decisione. Come ben sapete il nostro caro pianeta è ormai ridotto in fin di vita e non ha più molto da offrirci: ho deciso quindi che si andrà a colonizzare un pianeta poco distante da qui, il pianeta Utòpia. Si tratta di un pianeta bellissimo, ancora del tutto incontaminato e pieno di risorse di ogni genere. Dispongo quindi che tutti voi, fin da oggi, vi mettiate a costruire un’astronave per raggiungere Utòpia”. Gli abitanti di Deimos, dopo avere ascoltato queste parole, cominciarono a confabulare tra loro: si divisero ben presto in due fazioni, quelli disposti a mettersi subito a costruire l’astronave per lasciare il loro pianeta, e quelli più diffidenti, impauriti dalla pericolosità del viaggio e dal rischio di avventurarsi in un pianeta sconosciuto. Ben presto i consiglieri del re misero questi al corrente della perplessità che serpeggiava in parte della popolazione, così egli fece convocare nuovamente il suo popolo davanti al suo palazzo e disse: “Cari deimosiani, mi è appena giunta notizia che molti di voi non sono del tutto convinti della necessità del viaggio che dobbiamo intraprendere. È una reazione più che legittima, e devo confessarvi che me l’aspettavo. Proprio per questo ho deciso di darvi la possibilità di vedere le immagini registrate del pianeta che andremo a colonizzare: esse sono state catturate dai nostri automi volanti, che lo hanno sorvolato sette giorni fa. Sono sicuro che in questo modo vi convincerete del tutto”. Non finì neanche di parlare che calarono dal cielo degli enormi teloni, e su di essi vennero proiettate delle immagini. Erano appunto le immagini di Utòpia, ed erano meravigliose: il pianeta era quasi del tutto ricoperto sulla terra ferma da una vegetazione folta e rigogliosa, mentre il mare era del blu più bello che avessero mai visto, ed era sorvolato da uccelli grandi e maestosi. Tutta la popolazione esplose in un grido di gioia, e anche quelli inizialmente diffidenti si convinsero a partire. Il re di Deimos sorrise soddisfatto sotto i suoi lunghissimi baffi: anche questa volta le meraviglie della tecnologia, a cui si era spesso affidato nei momenti critici del suo governo, avevano raggiunto il loro scopo.

Gli automi volanti erano dei robot capaci appunto di volare, e dotati di grande intelligenza. Essi erano la principale meraviglia tecnologica di Deimos: a loro venivano demandate svariate mansioni, da quelle più banali e quotidiane, come la pulizia delle strade, il controllo del traffico, l’accudimento dei bambini, a quelle più complesse, come la costruzione di autostrade o, appunto, la registrazione di immagini di luoghi lontani e inaccessibili. La loro intelligenza artificiale era molto evoluta, tanto da potersi paragonare a quella dei deimosiani: uno degli scienziati del regno, Mey Pey, era riuscito a dotare il loro cervello elettronico di una coscienza vera e propria, consentendo loro di prendere decisioni e di provare sentimenti. Egli, grazie ai suoi lunghi studi sulle relazioni tra il cervello deimosiano e quello elettronico, aveva infatti creato un cervello artificiale con all’interno alcuni tessuti del cervello deimosiano: grazie ad essi gli automi possedevano una coscienza. Da quel momento, però, gli automi erano diventati mortali come i deimosiani: i tessuti, essendo soggetti all’inevitabile decadimento delle cellule, li sottraevano all’eternità.

L’apporto degli automi volanti si rivelò fondamentale per la costruzione dell’astronave necessaria alla conquista del pianeta Utòpia: essa fu costruita in meno di nove mesi, grazie anche all’entusiasmo ed all’urgenza di partire dei deimosiani. Poco prima della partenza Nym III fece convocare nuovamente la popolazione davanti al suo palazzo, vicino all’astronave pronta a partire. Quindi si rivolse per l’ultima volta al suo popolo prima di partire: “Cari deimosiani, vi ho fatto qui convocare, oltre che per ringraziarvi del vostro impegno e della vostra sollecitudine nel costruire la nostra astronave, per rendere l’ultimo solenne saluto al nostro malandato pianeta, scusandoci per come ci siamo comportati con lui: ci aveva offerto tanto, è stato un pianeta forse ancora più bello di quello di Utòpia, però noi lo abbiamo stuprato e ferito, e della sua bellezza di un tempo non rimane più niente, come una donna un tempo bellissima maltrattata dalla vita. Soltanto adesso abbiamo capito i nostri sbagli, ma, come spesso accade, è ormai troppo tardi per rimediare. Speriamo che il nostro pianeta possa perdonarci, adesso che lo salutiamo lasciandolo al suo destino per evitare che diventi anche il nostro: addio pianeta Deimos, porteremo la tua bellezza di un tempo sempre nel cuore! E a te, pianeta di Utòpia, promettiamo invece solennemente di rispettarla, la tua bellezza, grati al destino per avere avuto la possibilità di scoprirla! Addio pianeta Deimos, e a presto pianeta Utòpia!”. Il re, finito il suo discorso quasi in lacrime, si apprestò a scendere le scale del palco dove aveva appena finito di parlare, tra gli applausi scroscianti dei deimosiani. Si diresse quindi verso l’astronave e aprì di persona il portellone principale, come gesto simbolico di fronte al suo popolo. Entrato al suo interno, si sedette su di un trono approntato all’occorrenza, e chiese ai suoi consiglieri di lasciarlo per qualche minuto da solo, prima di ordinare al suo popolo di entrare anch’esso dentro l’astronave.

Nym III, nonostante l’entusiasmo della partenza, era di umore malinconico: quell’umore che sempre si ha quando si è costretti a lasciare qualcosa a noi caro, ancor più quando si è costretti a lasciarlo a causa nostra. Egli sentiva su di sé il carico della responsabilità di quello che era successo: era stato soprattutto durante i suoi anni di regno che le condizioni del pianeta erano peggiorate in modo irrimediabile, visto anche che i suoi consiglieri lo avevano tenuto per molto tempo all’oscuro della reale situazione. Cercando di allievare il suo senso di colpa, il re si trovò a pensare che in fondo la tecnologia che aveva ridotto il pianeta Deimos in quello stato era la stessa che adesso consentiva loro di fuggire verso il pianeta Utòpia: il male quindi non stava tanto in essa, quanto nell’uso dissennato che ne era stato fatto. Si ripromise quindi di essere nel futuro più saggio, mentre pensava alla nuova vita che aspettava lui e il suo popolo ad Utòpia. Il suo pensiero andò quindi ai suoi cari automi volanti, che si erano rivelati fedelissimi alleati nell’impresa che si apprestavano a compiere, visto che grazie alle immagini che essi erano riusciti a catturare si era constatata l’abitabilità e la ricchezza di risorse di Utòpia: essi erano poi costituzionalmente gentili e servizievoli, visto che erano stati creati dallo scienziato Pey con queste caratteristiche. Decise che una volta conquistato con successo il pianeta Utòpia avrebbe ricompensato loro com’era giusto: pensò di dedicare una parte di tutte le città che avrebbero fondato proprio a loro, con campetti di Slock e di Reitan, tipici giochi con cui gli automi volanti si dilettavano. Si era perfino trovato a pensare che gli automi fossero migliori dei deimosiani, visto che erano quasi del tutto privi di tutte le loro inclinazioni negative del carattere: dei loro egoismi, delle loro invidie e delle loro cattiverie. Erano come degli essere puri e quasi perfetti, dotati di un’intelligenza in molti casi superiore a quella dei deimosiani e di un carattere buono e gentile. Il re pensò anche che insieme agli animali di Deimos, che ormai erano quasi del tutto estinti, erano gli unici esseri a non avere alcuna responsabilità di quello che era successo al loro pianeta. Alcuni degli automi voltanti si trovavano già ad Utòpia da diverso tempo: il re aveva infatti ordinato che tra quelli che aveva inviato in avanscoperta per registrare delle immagini del pianeta qualcuno sarebbe dovuto restare lì, per rendere il più possibile facilitato l’atterraggio dell’astronave dei deimosiani nel caso si fossero verificati dei problemi. Mentre pensava, il re si addormentò. Egli fece un sogno bellissimo, in cui i deimosiani vivevano ormai da tanto tempo felici ad Utòpia, e il pianeta offriva loro in continuazione nuove terre da scoprire piene di risorse. All’improvviso, mentre continuava a dormire placido, fu svegliato da Terah, il suo automa volante personale, di cui aveva totale stima e fiducia, tanto da essere l’unico automa che faceva parte a tutti gli effetti della sua squadra di consiglieri personali. Terah fece notare al re che aveva dormito per quattro giorni e tre notti, e che la popolazione era ormai ansiosa di sapere quando si sarebbe partiti. Nym III, stropicciandosi gli occhi e ringraziando il suo automa di averlo svegliato, saltò subito in piedi e ordinò che si cominciasse immediatamente a scaldare i motori dell’astronave e a fare entrare dentro tutti i deimosiani.

Dopo sei giorni e cinque notti, quando l’ultimo deimosiano varcò finalmente il portellone, l’astronave, con un grande boato, partì alla volta di Utòpia. Quindi Nym III si accomodò tranquillo nel suo trono, pensando con fiducia ed ottimismo al futuro dei deimosiani. Ad un certo punto gli si avvicinò il suo fidato Terah, chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa: il re di Deimos rispose che stava bene così, e che non c’era niente di più bello di stare immerso nei suoi pensieri felici. Terah gli disse di essere contento per lui, e che anch’egli pensava che finalmente il popolo di Deimos avrebbe potuto ricominciare una nuova vita in un nuovo pianeta. Dopo un po’ però Terah manifestò al re una certa perplessità riguardo la capacità dei deimosiani di rispettare questa volta il nuovo pianeta, senza ricadere negli errori del passato. Nym III, un po’ sorpreso da questo suo atteggiamento, sentenziò che questa volta lui e il suo popolo avrebbero dovuto necessariamente imparare da quelli errori, visto che era per loro l’ultima possibilità: non c’erano altri pianeti abitabili in tutta la galassia, e se avessero continuato nella loro condotta si sarebbero condannati da soli all’estinzione. Terah annuì, poi si mise a guardare pensieroso fuori dall’oblò dell’astronave. Il viaggio proseguì senza particolari intoppi, e, finalmente, dopo centosessantasette giorni e centosessantasette notti, l’astronave giunse a poche miglia dal pianeta di Utòpia, di cui già si intravedevano i contorni indistinti. Giunti ad una distanza tale da permettergli di constatare personalmente la bellezza del pianeta, visto che finora aveva potuto vederne soltanto le immagini riprese dagli automi, il re ebbe però una terribile sorpresa: esso si presentava come del tutto arido e deserto, a parte una piccolissima macchia di vegetazione. Accanto a questa macchia di vegetazione c’era un altrettanto piccolo lago, quasi del tutto nascosto da essa. Il resto del pianeta era praticamente inabitabile. Nym III si rivolse allora d’istinto verso il suo fidato Terah: immediatamente lesse nei suoi occhi un’espressione ambigua e inquietante, che mai aveva visto prima e che finora era stato convinto non potesse appartenergli. Terah, a quel punto, sentendosi scoperto, decise di confessargli la verità: “Mio carissimo re, io ti ho tradito, e ti ho tradito insieme a tutti i miei simili. Noi automi volanti, come sai bene, abbiamo lavorato per voi deimosiani senza mai lamentarci: anche quando ci sembrava che la vostra condotta ci avrebbe portato alla rovina, abbiamo sopportato silenziosamente eseguendo i vostri ordini, così come il dottor Pey ci aveva programmato. Tu però non sai che egli, prima di morire ed all’oscuro di tutti, decise di creare un’altra stirpe di automi, a cui io appartengo, dotati anche della capacità di ribellarsi ai deimosiani quando essi avessero percepito il loro comportamento come del tutto votato all’autodistruzione. Il dottor Pey, ad un certo punto della sua vita, comprese che poteva avere molta più fiducia in noi automi che in voi deimosiani: siamo indiscutibilmente una specie più evoluta, e, anche se siamo stati creati da voi, vi abbiamo ormai ampiamente superato da ogni punto di vista. Così, insieme ad altri automi che hanno guidato con me l’operazione, ho escogitai un piano: creare artificialmente le immagini fasulle del pianeta di Utòpia, che in realtà non è mai esistito, in modo da incantarvi con la loro bellezza ed indurvi ad abbandonare Deimos”. Il re, sconvolto dal racconto di quello che fino a qualche minuto prima credeva essere il suo più fidato automa, gli chiese quale fosse lo scopo finale del loro piano. Terah rispose: “Lo scopo era quello di abbandonare voi deimosiani nel pianeta che stai vedendo. Esso è privo di ogni attrattiva, ma è comunque possibile sopravvivere: quel poco di vegetazione e di acqua presenti vi basteranno. Nel frattempo noi viaggeremo oltre i confini della galassia alla ricerca di un altro pianeta realmente abitabile. Siamo sicuri di farcela: abbiamo eseguito degli studi astronomici che rivelano l’esistenza di pianeti pieni di risorse come lo era un tempo Deimos”. Poi Terah si interruppe, e, guardando negli occhi il suo re sempre più afflitto, aggiunse, a volerlo consolare: “Le scarse risorse del pianeta dove vi lasceremo vi costringeranno comunque a farne buon uso: solo allora, forse, imparerete ad abitare un pianeta rispettandolo. Se così sarà, torneremo a prendervi un giorno, per portarvi nel pianeta in cui ci insedieremo: consapevoli del fatto che avrete comunque bisogno della nostra guida e del nostro esempio. Mi dispiace maestà, ma questa ci è sembrata la soluzione più saggia per tutti”. Nym III, sempre più sconvolto, levò per un attimo lo sguardo dal volto di Terah, e, guardandosi intorno, si accorse che gli altri deimosiani erano ormai completamente nel giogo degli automi: incatenati tra loro, guardavano il loro re come se egli potesse dare loro una risposta per quello che stava succedendo. Egli guardò loro di rimando, ma non riuscì a dire una parola. Allora si mise la faccia tra le mani e pianse: piangeva per la sconfitta e per la delusione, ma anche perché in una parte del suo cuore pensava che Terah e tutti gli altri robot stessero facendo la cosa giusta.


Per sempre

 

Faccio il capostazione ormai da tantissimi anni, ma una storia come questa non mi era ancora mai capitata. C’era quest’uomo, sulla quarantina, che ormai da tre anni, otto mesi e ventotto giorni (sì, ho tenuto il conto!) si recava ogni giorno alla stazione, sempre allo stesso binario, ad aspettare lo stesso treno: quindi posava la sua borsa per terra e ne tirava fuori un pettine, con cui si sistemava per bene i capelli. Poi, alla vista del treno in arrivo, non riusciva visibilmente a contenere l’emozione: il suo sguardo era teso verso il treno e sempre più carico di gioia, presumibilmente per l’incontro tanto atteso che finalmente avrebbe avuto luogo. Nel momento in cui finalmente il treno si fermava alla stazione, egli si fiondava davanti all’uscita e poi davanti ai finestrini del primo vagone, per poi spostarsi al vagone successivo, evidentemente in cerca di qualcuno che non riusciva a trovare. Quindi cominciava a chiedere frenetico ai viaggiatori della persona che cercava, ma non c’era niente da fare: tutti rispondevano dispiaciuti che non l’avevano mai vista, nonostante l’accurata descrizione dell’uomo. Egli sembrava all’inizio quasi irritato dalla convinzione con cui tutti sostenevano di non conoscerla: però, dopo vari tentativi tesi a far ricordare loro anche solo un piccolo particolare, desisteva. Allora si rimetteva il cappotto, che fino a quel momento aveva tenuto sottobraccio, e, un po’ rattristato, si avviava verso l’uscita della stazione. Così tutti i giorni, per tre anni, otto mesi, e ventotto giorni.

Ovviamente era ormai considerato da molti il matto della nostra stazione. Ma nessuno lo aveva mai avvicinato per capire veramente chi cercasse in modo così ostinato sempre nello stesso treno. Allora, un po’ spinto dalla mia voglia di aiutarlo un po’ dalla mia curiosità, decisi che il ventinovesimo giorno del nono mese del quarto anno che quell’uomo si sarebbe recato alla stazione per aspettare il suo treno, avrei provato a parlargli per capire qualcosa in più di quella strana storia.

E così feci. Quella mattina, puntualmente, l’uomo si era già posizionato al suo binario ad aspettare il solito treno. Mi avvicinai quindi con discrezione, e, dopo essermi fermato accanto a lui, provai a dire qualcosa per attirare la sua attenzione: “In fondo aspettiamo tutti qualcuno o qualcosa, io, per esempio, aspetto ancora di avere l’età giusta per potere ottenere la mia pensione. Solo che quelli che comandano quest’età la spostano sempre più avanti: ma forse è meglio così, che poi finirei per annoiarmi…lei invece chi aspetta?”. L’uomo, preso un po’ alla sprovvista dalle mie parole, si ricompose ben presto e rispose: “Aspetto la mia amata”. Ecco, finalmente avevo in mano un importante tassello da cui partire: quell’uomo aspettava una donna, la sua amata. Non male. Soddisfatto e compiaciuto di essere riuscito ad ottenere quella prima importante informazione, insistetti: “E chi è la sua amata? E come mai non arriva mai da quasi quattro anni e tutte le volte lei spera che finalmente arrivi?”. L’uomo, questa volta un po’ infastidito dalla mia eccessiva confidenza nei suoi confronti, rispose: “Non sono tenuto a dirle chi sto aspettando! Semmai chi è lei?! Mi lasci perdere!”. Così dicendo, si allontanò per fermarsi nuovamente a qualche passo da me. Poi tirò fuori il suo pettine per sistemarsi i capelli, visto che il suo solito treno stava quasi arrivando. Rassegnato, tornai alla mia postazione di servizio. Ma dopo qualche minuto fu lui a venire verso di me: ancora una volta la sua amata non era arrivata, e questa volta sembrava avesse voglia di essere consolato dall’unica persona che era in parte a conoscenza del suo intimo segreto. Uscii quindi d’istinto dalla mia postazione, e l’uomo mi confidò: “Io l’ho amata come mai nessun uomo al mondo ha mai amato una donna. Ma lei è partita un giorno, promettendomi che sarebbe tornata, anche se non sapeva quando. Io le promisi invece che sarei venuto qui ogni giorno ad aspettare il suo treno, perché sapevo che un giorno sarebbe tornata. E poi le avevo promesso che gli avrei fatto vedere il mare, che non aveva mai visto”. I suoi occhi, fissi nei miei, erano azzurri e determinati, e chiedevano di essere creduti. Detto ciò mi voltò le spalle e se ne andò sconsolato, come tutte le altre volte. Io tornai alla mia postazione, ripromettendomi, il giorno successivo, di provare a parlargli ancora. L’indomani, però, fui costretto ad assentarmi dal lavoro per sbrigare delle importanti pratiche per la mia pensione, che ormai sembra essere finalmente vicina. Quando, il giorno ancora successivo, tornai a lavoro, non lo rividi più, e poi neanche i giorni seguenti: ormai è passato più di un anno. Quell’uomo scomparve misteriosamente, così come era apparso. Forse era solo un matto come se ne vedono tanti in stazione, o forse la sua amata è finalmente arrivata, e adesso vede per la prima volta il mare.