Marco Secchi - Poesie e Racconti

Spiragli e rimpianti:

Sul viso,
come un colpo di frusta
l’aria gelida.
C’è quiete quassù,
sul monte silente
tutto profuma,
fragranze di cisto
e vecchio lentisco
voci della macchia.
Mi siedo,
sulla nuda roccia
ascolto il vento.
I miei occhi
guardano giù,
aldilà del precipizio
le città,
piccoli cancri
ghermite dal verde.
Allargo le braccia
respiro piano
sento un eco lontano.
È l’attaccamento
ad un lacero brandello di vita,
chiudo gli occhi
sul viso,
come un colpo di frusta
l’aria gelida.


 

Brezza e polvere:

Celere, ti portò via la falce
il tuo corpo sbriciolato come cenere
leggero, bianco come calce
Ora nel vento è impresso il tuo nome
come i tuoi costrutti sul cemento
laddove seguo le tue orme
Le memorie veleggiano all’orizzonte
mentre il maestrale soffia i tuoi echi
cancellando tra i lecci, le tue ultime impronte.


 

La terra delle Janas:

Circondata dai mari
lambita dai venti
da brezze lontane,
e vecchie correnti
misteri sepolti,
nascosti tra i flutti
riecheggiano i canti,
di nuragici lutti.
Gli alberi parlano,
le domus raccontano
di ere lontane,
e sagge guardiane
ormai morte
mentre vegliavano
su false porte,
che di tempo odoravano.
Rocche scavate,
da mani sapienti
di rosso decoravano
le piccole genti
ombre ancestrali
scorrono tra gli alvei
mentre disegnano,
sinistri arabeschi.
Il tempo si ferma
la voce riecheggia
sussurri profondi
di epoche remote
intrisi su pietra
con simboli vividi
nascosti nei dedali
di cunicoli lividi.
A chi sa vedere
il velo avvizzito
loro si mostrano
rompendo il mito
da sempre son vive
e non lascian missive
se non nelle rive
dove il culto dell’acqua vige.


 

Fusa e silenzi:

Era autunno quando arrivasti
avevi piccoli occhi socchiusi,
vibrisse sporgenti
e un anima a cui insegnare.
Non sapevi camminare
ma conoscevi fusa attraenti
e gesti astrusi
come i tuoi impasti.
Su di me ti accovacciasti
di miele sei fatto, conclusi
tra le tue iridi penetranti
capii la parola «amare».


Come risuona il mio cuore tra i polsi:

Eri piccola ed indifesa
la pelle pallida, la voce tremula
china sul banco con i capelli legati
e gli occhi bassi, smarriti nei prati.
Ci misi un eternità per presentarmi
il mio cuore tremava
innanzi ai tuoi timidi sorrisi
e le tue guance rosse, colme d’imbarazzo.
Il mondo divenne muto
noi divenimmo uno
quando scoprimmo
l’effimero limbo
dei baci nascosti.
Tanti anni son passati
i nostri sguardi son rimasti
i nostri abbracci, le carezze
immortali, come brezze.


 

Cuore d’inchiostro:

Imprimo i pensieri su carta
con inchiostro denso, nero
come una notte senza stelle.
Quando scrivo, il mio animo vivo
smarrendomi all’ondeggiar del calamo
e nell’aria satura del profum di carta.
Le parole prendon vita,
creando turbinii di immagini
e di profonda quiete.


Universo:

Quando ti penso
la mia mente si perde
tra le distanze infinite
delle tue figlie smarrite.
Quando ti penso
mi sento piccolo
un brandello di polvere
nel nulla infinito.
Quando ti penso
mi coglie un brivido
la schiena si inebria
al mistero del vivido.
Quando ti penso
mi domando
chi sono, chi sono io
da dove proviene
questa voce interiore
matrice d’amore.


Pace:

Di strofe, di rime
il cuore, si imprime.


Il più grande spettacolo:

Le persone sono uno spettacolo.
cambian maschera ad ogni turno
come attori in un teatro.
Le chiacchere nei locali
gli sguardi fuggenti
le urla, i sorrisi, le voci
anime erranti, cuori labili.
I vecchi compari di bevute
anni trascorsi, immobili
come vecchie fotografie
Sigarette spente,
amori catartici, commedie
drammi segreti tinti di nero.
Le persone sono uno spettacolo,
uno spettacolo eterno, ciclico,
uno spettacolo
dove i ciechi applaudono.


Nuovo Mondo

Le chiazze di ruggine si allargavano come pozze di sangue sulla superficie esterna della bussola.
Era vecchia di un secolo, John l’aveva trovata in una vecchia città-atollo abbandonata.
La tartana scintillava come metallo sotto i raggi del sole, la vela d’alga, nera come una notte senza stelle, era gonfia dal vento.
John con lo sguardo, esplorava lontano, in silenzio. C’erano soltanto il mare ed il cielo, aria e acqua, un intreccio di blu e azzurro, dove la linea dell’orizzonte non era altro che un impercettibile stralcio incorporeo. Non c’era nessuna nuvola, soltanto un interminabile azzurro.
Era questo il mondo, ora. Un infinita distesa d’acqua salata.
Il sole stava calando, e lo stomaco cominciò a borbogliare. Si sedette con la schiena contro l’albero maestro, e placò la fame staccando un boccone di pesce essiccato. Sapeva di sale, ma era difficile trovare qualcosa che non sapesse di sale, ormai. Gli venne immediatamente sete, ma doveva convivere con quella terribile sensazione. Aveva pochissima acqua, e quel poco che aveva, sarebbe dovuta bastare per il viaggio di ritorno.
Il vento si calmò. Col tramonto che pian piano sopraggiungeva, l’ovest apparì come un arazzo livido. Anche se molto più lentamente, la tartana continuava a muoversi in quei flutti senza nome.
Insieme alla notte, arrivò anche il freddo. Era impossibile rimanere asciutti là fuori, l’umidità penetrava le viscere come un peccato di lussuria. Quando il sole era ormai scomparso nell’oscurità, l’aria era divenuta più gelida dell’acqua.
Prese una vecchia coperta, e se la strinse attorno al corpo. Era sporca, lacerata, ma era tutto ciò che aveva. Si lasciò cullare dalle onde, mentre la leggera brezza continuava a sospingere la barca.
Non era facile chiudere occhio, John percepiva quegli animali enormi, sconosciuti, che passavano misteriosamente intorno allo scafo. Mostri marini radio-mutati, che scivolavano nell’oscurità degli abissi, come fantasmi. Quelle acque erano un luogo di silenzi profondi, di ombre sinistre, abitate da creature innominabili.
Non fece giorno lentamente, come accadeva un tempo quando gli uomini si muovevano nella terraferma. Il cielo divenne pallido, scomparvero le prime stelle, mentre John controllava la bussola, e infine l’orizzonte. I contorni del mare si accentuarono, non sapeva quante ore erano trascorse. Quando si trascorreva tutta la vita in mare, ci si rendeva veramente conto, di quanto la notte fosse maledettamente più lunga del giorno, quando si ha un letto caldo e un tetto sulla testa, è difficile accorgersi di questo particolare.
Si guardò intorno, dai flutti emergevano i resti di una città morta: piccole escrescenze di metallo, vetro, e qualche parete di pietra. Poco più avanti, svettavano diversi grattacieli diroccati, sentinelle immortali che raccontavano di un era ormai dimenticata. Scheletri di cemento e acciaio ammucchiati gli uni contro gli altri. Al loro interno, si erano annidate intere famiglie di gigantoalghe, le cui nere ramificazioni, andavano ad intrecciarsi tutt’intorno alle mura, insinuandosi anche nelle più piccole crepe, per poi espandersi oltre i tetti, annodandosi tra loro in cupole tenebrose. Iceberg di cemento, così venivano chiamati i palazzi rimasti ancora in piedi dopo la Grande Guerra. Non era ben chiaro se fossero le alghe stesse a sorreggerli, o erano semplicemente rimasti in piedi per puro caso.

john fu costretto a virare verso una zona in cui l’acqua era più profonda, navigare lungo le macerie delle antiche città poteva rivelarsi fatale. Era un labirinto, i lunghissimi fusti delle gigantoalghe si ramificavano in ogni dove, radici distorte, aggrovigliate, alcune fuoriuscivano dalle acque come tentacoli, altre invece si incuneavano nelle profondità degli abissi.

Gli occhi stanchi e arrossati di John osservarono con circospezione quel groviglio di costrutto e natura. I fusti neri delle gigantoalghe che si inerpicavano all’interno dei palazzi morti, le loro radici aeree che penetravano in ogni anfratto, nei vetri, tra le più impercettibili fessure, ovunque.
Raggirò la costa ovest delle macerie, tenendosi ben alla larga, ma, senza perdere mai la rotta.
Continuò a avanzare in quella direzione, il vento era tornato a soffiare con prepotenza. Scrutò lontano, coprendosi la fronte per proteggere gli occhi dal sole. Apparve qualcosa, forse un brandello di terra, nient’altro che un punto nero all’orizzonte.
I suoi occhi si illuminarono, accadeva sempre quando vedeva della vera terra affiorare dalle acque. Anche il più piccolo stralcio di roccia, o fango, riusciva a ridare speranza al suo cuore, vedere la terraferma era come rinascere, i suoi piedi percepivano che quello era il loro posto,
quando la calpestavano.
John raggiunse quello stralcio di terra quando il sole era alto e si rifletteva sulle acque. Aveva sperato si trattasse di una vera e propria isola, invece si ritrovò a calcare pochi metri di sabbia e fango. Aveva legato la tartana intorno a una grossa gigantoalga che fuoriusciva dal pelo
dell’acqua, e si innalzava per diversi piedi ondeggiando nell’aria salmastra.
Le sponde erano lerce, ricoperte da un intrico di radici e rocce sommerse. L’acqua lungo la riva era grigia, infida, maleodorante. John notò un codapiatta che scivolava sinuoso poco sotto la superficie, per poi sparire in un anfratto nascosto tra le rocce. Prese la vecchia vanga di suo padre e cominciò a scavare, riempendo i pochi secchi che possedeva sino a ponte. Quattro secchi colmi di terra sabbiosa, che valevano una fortuna. Il sole aveva da poco raggiunto lo zenit, John sentiva la sua pelle bruciare, la fronte imperlarsi di sudore, e la gola seccarsi. La sete lo stava uccidendo, ma non poteva scolarsi quel poco di acqua dolce che gli rimaneva. Ne centellinò un poco, il tanto di inumidirsi le labbra e illudere il suo corpo. Ma la gola continuò a rimanere secca come pergamena.
Caricò i secchi nella tartana, e ripartì. Riprese in mano la sua vecchia bussola, e si orientò verso nord. Conosceva bene il Quarto Oceano, era praticamente nato li, su di un vecchio bovo. Suo padre, suo nonno, e il padre ancor prima di lui, furono dei cacciatori di terra. Aveva poco più di diciotto estati alle spalle, diciotto lunghe estati passate in mezzo a quei flutti immortali, alladisperata ricerca di terra fertile da barattare al miglior offerente.
Si tolse le scarpe, e si sfilò le calze luride. I piedi erano pallidi come quelli di un morto, pieni di vesciche. Gli lasciò qualche minuto all’aria aperta, avevano estremamente bisogno di respirare.
All’orizzonte cominciarono a frastagliarsi nubi foriere di pioggia. Era quella la visione che stava aspettando.
Aveva una scusa per affrettarsi, ora. Acqua potabile pronta a lacrimare dal cielo. Prese in mano i remi e cominciò a spingere con forza, navigando verso il temporale…