Per sempre
Non t’ho più scritto lettere d’amore
da quando andasti a Londra per studiare.
Abbi pazienza: uso questo mezzo
banale, per ridirti che ti amo.
Non ci vorremo mai abbastanza bene
se non volendo dell’un l’altro il bene.
Del tuo fa parte un po’ del mio destino
ed anche il tuo s’intreccia al mio, per sempre.
Andiamo, insieme, uniti nel cammino,
e il tempo è già un regalo al nostro amore.
[Milano, 26 novembre 2004 – per i cinquant’anni di mia moglie Simona]
da “Come spuma di onde”, Itaca s.r.l., Castel Bolognese, 2017, p.106.
La giostra
Era vuota la giostra e silenziosa
quasi in attesa d’un altro risveglio
che arriva all’improvviso, inaspettato.
Giovane una e due sui cinquanta,
tre donne sorridenti, tre bambine
per quei tre giri di gioco vissuti
tutti d’un fiato come un’avventura
passata al ritmo del trotto improbabile
di quei cavalli bardati di rosa.
Di nuovo ferma la giostra riposa
e nel silenzio del sonno nasconde
tanti ricordi e li ammanta di sogni.
[Cardiff, 21 maggio 2014]
da “Come spuma di onde”, Itaca s.r.l., Castel Bolognese, 2017, p. 85. – foto dell’autore – con il permesso delle persone ritratte
Bizzarro arcobaleno
Nella foto che m’hai mandato, Claudia,
l’arcobaleno è girato al contrario,
come se sotto il naso d’una nuvola
due baffetti spuntassero all’insù.
Non ci fossero delle cime d’alberi
a fornire la giusta prospettiva,
verrebbe da pensare ad uno scherzo.
Invece più l’osservi e più capisci
ch’è vera, è una foto naturale.
Ma è turchese il cielo e senza nuvole…
E riguardando proprio bene bene
capisco il senso dello strano arco:
sono contento, il cielo ci sorride.
[Notre Dame/South Bend, Indiana, 27 gennaio 2016]
da “Come spuma di onde”, Itaca s.r.l., Castel Bolognese, 2017, p.70.
foto riprodotta con l’autorizzazione dell’autrice Claudia B.
Briciole di mare
Un’acqua così chiara calda e calma
a questo mare estivo mi mancava
da dieci anni almeno a questa parte.
S’è fatta viva oggi all’improvviso,
forse per darmi un po’ di nostalgia
e farmi venir voglia di tornare,
perché domani devo andare via.
Raccolgo come un arrivederci
le briciole di mare dai miei occhi,
brucianti come fossero feriti,
prima che il pianto ne disciolga il sale
e intanto i miei pensieri volan liberi
a tutti quelli che mi vogliono bene.
[Arenzano, 26 agosto 2019]
da “Briciole di vita”, Guido Miano Editore, Milano, 2019, p.93.
foto dell’autore
Anniversario con Simona
Quarantatré son già gli anniversari,
ma poca cosa se paragonati
all’infinito tempo che ci attende,
all’infinito Amore che ci unisce
come una catenella di collana:
esile ma tenace, duratura.
[Milano, 30 dicembre 2019 – Anniversario di matrimonio con Simona]
in pubblicazione nella raccolta “Frammenti di vita”, Guido Miano Editore, Milano 2021
Per il compleanno d’una cara amica
Ecco, arriva un nuovo compleanno
nel giorno più appropriato per gli auguri,
coincidendo proprio col Natale.
Questi però non sono auguri doppi:
son cinquantotto volte più potenti,
fatti di cuore ad uno ad uno ad uno
quasi come svolgendo la preghiera
degli altrettanti grani del rosario
chiusa nell’amen di un abbraccio amico.
[Milano, 24 dicembre 2019]
in pubblicazione nella raccolta “Frammenti di vita”, Guido Miano Editore, Milano 2021.
Vigilia di ferie
Da tempo non gli succedeva d’aver quindici giorni tutti per lui. Così non era più neanche abituato a pensare cosa fare di diverso dal suo lavoro. Eppure l’idea, logicamente, gli piaceva: quindici giorni di vacanza!
Ma dove?
Beh, c’era tempo. In fondo le ferie gli cominciavano domani. E domani era ancora un altro giorno. Erano solo le sei di sera, in fondo. Ed era ancora chiaro chiaro.
Mentre pensava così, l’ascensore era ormai sceso da quel diciottesimo piano del Palazzo del Lavoro, in cui da otto anni passava più tempo che a casa.
Casa.
Ma quale casa?
Quella in cui stava adesso era tutto, ma non la sua casa: ci viveva da quattr’anni – e gli pareva da sempre: ma ancora non l’aveva abitata davvero. Mobili, pochi. Messi anche male, senza un preciso disegno. Mancava qualcosa d’altro, però: più che il mobilio o i quadri o i tappeti, mancava il cuore di chi l’abitava.
Strana cosa, però. Lì passava gran tempo a pensare, a studiare, a far conti, a leggere spesso e a scrivere troppo. Ma non ci ‘abitava’.
Nemmeno in quell’altra, la casa di prima, non ancora nella città laboriosa ma solo vicino, nemmeno in quella c’era stato il suo cuore. Forse per questo l’aveva lasciata, dopo due anni soltanto.
Un’altra era la casa che avrebbe voluto.
Alla metropolitana, lì sotto, era arrivato senza nemmeno pensare a quante svolte, a quanti scalini, a quante persone doveva badare, per giungere incolume a casa nella calca della sera.
In fondo era la solita, monotona strada; la solita, monotona gente; la solita, monotona afa d’estate. E per fortuna che ormai la gente, alla fine di luglio, era già sfollata dalla città laboriosa, verso le solite monotone spiagge, verso le solite uguali montagne, oppure a godersi le rive dei laghi, umide e afose anch’esse, oramai.
Eppure l’idea di andarsene via in ferie gli sembrava ancor buona, anzi geniale.
Non che avesse rinunciato, in tutti gli anni prima, a starsene a casa dal suo lavoro. Anzi, ogni tanto prendeva ben volentieri un giorno o due di vacanza. Così gli passavan le ferie, e quasi sempre in città, oppure a trovare i suoi vecchi parenti o per passare un allegro week-end con gli amici.
La porta di casa gli stava davanti. E adesso che fare?
Di andare lontano, nemmeno parlarne. Gli piaceva, una volta, viaggiare; ma adesso non più, se era da solo. Un tempo sì che il tempo volava: partire al mattino, col pullman, in tanti, per cinque o sei giorni d’intensa vacanza, paelando, cantando, giocando, pregando, e sempre con tanti: amici, fratelli. Così gli piaceva. Ma poi, cambian le cose: l’età che galoppa, il lavoro che assorbe, gli amici si sposano e vanno, coi figli, e non tengono più in debito conto gli amici di prima.
Allegri, ragazzi: è la vita!
Banale … ma vero!
Davvero?
La pasta era pronta, col sugo di tonno; e poi del formaggio, la pesca, del vino ed un buon caffè: mangiare da re!
La musica, adesso, giocava leggera in sottofondo, mentre lui, seduto in poltrona, leggeva il giornale – fino alle ultime righe.
Leggeva, e pensava ancora a dove sarebbe potuto andare. Perché ormai eran le nove e la sera, ancor chiara, volgeva alla notte. E domani, partenza! Sì, ma per dove? Domani è vicino, e perdere un giorno, adesso, è peccato…
«Albiate – San Fermo: da oggi la sagra per quindici giorni rinnova in paese la festa della gente semplice».
‘Sto titolo, e poi poche righe, giù in fondo alla pagina, a pagina dodici, fra cronaca nera e inutili annunci di nuovi prodotti per toglier la sete. Ma un titolo che gli diceva qualcosa.
Non ci era più stato da quando, bambino, andava a prendere il fresco giù al Cip, andava al castello con la vecchia Lia, e poi con la nonna che stava d’estate a fare le ferie da quella sua amica.
Aveva sei anni, quel ’62. Le strade, deserte alla fine di luglio, si erano allora affollate ai primi d’agosto. E al nove, che festa!
Le giostre, i bambini, le mucche e i vitelli, perfino i grandi parevano in festa.
La Messa solenne, il pallone che brucia, girandole, gare… Ricordi lontani, presenti, nascosti dal tempo ma pronti a tornare, più vivi che mai, alla prima occasione.
Perché non andarci?
In fondo il paese non era lontano. E poi, qualche nome rimasto nel cuore avrebbe potuto riprendere corpo, potrebbe tornare ad essere amico.
E dunque?
Partenza!
Dei giorni felici seguirono a quello. Tornare è un po’ rinascere, a volte davvero: e tale bagaglio rimane nel cuore, nei gesti, nei frutti, nel tempo. Ma questa è storia nuova.
Ricordi di San Fermo
Ci sono tre ricordi legati alla Sagra di San Fermo che per me resteranno indelebili, tra i mille che vanno e vengono quando ci penso. E ci penso ancora, tutti gli anni.
Il fuoco
Avevo quattro anni. Per la prima volta l’ho visto bene, da vicino. Era il fuoco del pallone che si bruciava nel Santuario come segno del martirio dei Santi Fermo, Rustico e Procolo – ma per me quello che contava era solo san Fermo, gli altri due erano quasi delle comparse, anche nella “storia sacra” che il don Carlo raccontava ai bambini più piccoli all’oratorio, su quasi in solaio, quando era ancora in via Mazzini.
Quel fuoco l’avevo senz’altro visto anche prima, perché il papà Aldo e la mamma Albertina cercavano di non andare in vacanza nei giorni della festa di San Fermo e andavano alla Messa solenne. Ma prima di allora il fuoco del pallone non mi aveva impressionato tanto. Quella volta sembrò quasi che il pallone volesse esplodere e bruciare tutto. O, almeno, io ebbi quella paura, e anche la mamma Albertina. Ma subito mio papà ci fece passare la paura dicendo: «Vedete il Parroco com’è tranquillo? non c’è niente da aver paura». Era vero.
Ma crescendo capii che il Parroco, che allora era don Felice Milanese, in tutte le cerimonie era imperturbabile: era il suo stile, in pubblico. Poi con i chirichetti era un po’ terribile, perché era molto esigente e voleva che tutto fosse fatto alla perfezione (o quasi – io l’ho sperimentato solo un paio di volte, perché io non ero portato per fare il chirichetto e smisi di farlo presto).
Da allora, tutte le volte che ho assistito ancora all’accensione del fuoco mi venivano in mente la mia mamma, spaventata come me, il mio papà, pacifico, e il don Felice … fermo.
Nella mia testa di bambino si formò subito un collegamento sciocco, ma tranquillizzante (come solo i bambini sono capaci di fare): certo, era la festa di San Fermo … doveva stare fermo!
Il codino del “signor Camillo” è il ricordo più bello
La giostrina dei piccoli era in un bel triangolo di terreno. Un lato era formato dalla fila di case tra l’officina di mio cugino Gianni, l’Elettrauto, e la Farmacia (ma allora era più piccola); l’altro lato, senza case, era tra la fermata del tram per Carate (adesso è quella del pullman) e il semaforo (ora c’è la rotonda); il terzo lato era come oggi, segnato solo dal marciapiede di via Italia.
Sull’altro triangolo di terreno, di là della via Italia e limitato dalla mura del giardino dei Tanzi, si metteva l’autoscontro: ma bisognava essere più grandi per andarci sopra.
Quand’ero ancora piccolo andavo alla “giostrina”, dove c’erano un po’ di cavallini, che però non mi piacevano, e delle automobiline, che mi piacevano moltissimo, specie la jeep.
Il primo problema era trovare il posto libero. Piuttosto che andare in un posto “da femmina” (il cavallino) si aspettava uno, due, anche tre giri. Poi si saliva con un solo pensiero: prendere il codino di uno scimmiotto di peluche tutto spelacchiato, con una lunga coda attaccata a una molletta che aveva cucita sul fondo schiena: chi gli strappava la coda poteva fare il giro dopo gratis. Lo scimmiotto era appeso ad una corda, che passava per una carrucola agganciata al baracchino del manovratore della giostra, che a un certo punto diceva: «Ecco, bambini, prendete il codino del signor Camillo!», muovendo ad arte la corda su e giù per rendere il gioco più difficile ma anche più divertente. Il “signor Camillo” scendeva a portata di mano dei bambini e poi improvvisamente risaliva. Tutti i bambini cercavano di prenderlo (tranne quelli che non avevano ancora abbastanza esperienza di giostra per sapere com’era il gioco: ma imparavano prestissimo anche loro). I più agitati si alzavano in piedi, e allora il “signor Camillo” volava più in alto (e il manovratore diceva: «Chi prende il codino in piedi non vince»). Finalmente uno riusciva a prendere il codino del mitico “signor Camillo”, e il giro in giostra finiva. Ma per chi aveva vinto ricominciava. A me ogni tanto capitava, ed ero contentissimo.
Tutto diventava argomento di racconto a casa, quando alla sera di San Fermo ci si trovava, spesso con i parenti più stretti (zii e cugini), come si faceva sempre nelle grandi feste.
L’unico dei miei parenti che non amava sentirsi raccontare le epiche gesta dei bambini in giostra col codino dello scimmiotto era un carissimo “cugino preso”. Diceva sempre, un po’ contrariato: «Perché devono chiamarlo proprio così?». Era mio cugino Camillo…
«Sul ponte sventola bandiera bianca»
È l’ultimo ricordo della festa di San Fermo vissuta ad Albiate da albiatese.
Era il primo giorno delle bancarelle in Piazza San Fermo. Allora abitavo con la moglie e il primo dei tre figli (nato da poco più di tre mesi) all’angolo di via Monfalcone con la piazza.
Alle 9 del mattino, o forse anche prima, da una bancarella sotto gli alberi della piazza (proprio all’angolo) cominciò a suonare il disco della canzone che era l’ultimo successo di Franco Battiato, col ritornello che ripete «Sul ponte sventola bandiera bianca».
Una, due, tre, quattro, cento volte! All’ennesima volta ho chiamato i Vigili, dicendo: «Va bene la musica perché è festa, ma almeno cambiarla!”. Dopo un quarto d’ora … silenzio! Durò fino a metà pomeriggio, quando, ancora: «Sul ponte sventola … ». Andammo tutti a fare merenda casa dei miei genitori, in piazza, dove la musica non arrivava … e dove la mamma Albertina e il papà Aldo erano solo contenti di averci con “il piccolino” (che adesso ha trent’anni).
La mattina dopo, ancora: «Sul ponte sventola … ». E quella dopo ancora.
A quel punto la bandiera bianca la issammo noi, ci arrendemmo, andammo tutti i giorni in giro pur di non farci più riempire le orecchie da quella canzone.
Poi con la mia famiglia andammo ad abitare a Milano. Da allora per San Fermo siamo tornati ad Albiate occasionalmente, a trovare il papà e la mamma, fin quando loro hanno cominciato a passare l’estate a casa di mia sorella in Liguria. E adesso non ci sono più: il papà ci ha lasciato l’11 febbraio 2008, la mamma il 20 maggio 2012.
Il loro San Fermo non è più una festa una volta all’anno: lo vedono tutti i giorni, e senza bisogno di far tacere la musica noiosa…
Eppure quella canzone l’ho imparata a memoria, e adesso, quando mi capita di sentirla (perché alla radio passa ancora spesso), inevitabilmente mi torna in mente la Sagra di San Fermo.
E’ proprio vero che non tutto il male viene per nuocere!
pubblicato nell’agosto 2012 su www.sagra-sanfermo.it a cura del COMUNE DI ALBIATE in occasione della 403a Edizione della tradizionale Sagra di San Fermo
Albiate addio
Nel millenovecentoottantatré
io t’ho lasciato, piccolo paese
(nemmeno cinquemila t’abitavano),
per trasferirmi nella gran Milano:
“vegnù giò cunt’la pièna”, come dicono
i milanesi veri, se ne restano.
Da allora in poi soltanto qualche visita
prima frequente, poi sempre più rara
da quando i genitori sono morti.
Ed ecco il tempo di smontar la casa
che fu la mia per diciannove anni –
anni felici e duri, anni passati.
Tanti ricordi affiorano guardando
adesso i muri spogli dei locali
ch’erano stati già pieni di vita.
Le sagome dei mobili e dei quadri
sui muri stinti dal passar del tempo
vanno a formare strani ghirigori,
mute sembianze di una vita vera
che non potrà venire cancellata
da qualche pennellata di pittura.
Albiate è un paese in provincia di Monza e Brianza (prima era in provincia di Milano), dove mio papà Aldo, milanese, si trasferì definitivamente dopo il matrimonio con la mamma Albertina, nata e vissuta sempre ad Albiate. La loro casa, dalla fine degli anni ’40, fu nel “Palazzo Tomini” (dal nome dei Conti che lo avevano edificato circa a metà del ‘700), detto poi e tuttora chiamato “Palazzo Sforni” (dai suoi possessori ottocenteschi, che in parte lo riadattarono).
Il palazzo si affaccia sulla piazza della chiesa parrocchiale dedicata a San Giovanni Evangelista. Quando ero bambino ricordo che la casa, compreso nell’affitto, aveva un amplissimo giardino, nel cui angolo Nord-Ovest c’era anche una piccola collinetta sormontata da tre cipressi.
I miei vi abitarono fino ai primi del 1956, quando il palazzo, che prima della 2^ guerra mondiale era divenuto di proprietà della famiglia dei Viganò (industriali tessili verso il declino), fu da questi venduto a un’altra famiglia di industriali tessili (in ascesa), i Caprotti – uno dei figli, Guido, divenne prima socio dei Rockfeller nei supermercati Esselunga, e poi loro proprietario unico. Nel 1956, dunque, il Caprotti volle ampliare il già esetso parco della sua residenza albiatese annettendovi l’ampio giardino del confinante “Palazzo Sforni”; ma il Viganò propose la sola possibilità di acquistare tutto l’insieme. Il Caprotti accettò e fece subito iniziare i lavori di costruzione di una palazzina che separasse il cortile rimasto dietro il Palazzo Sforni dal resto del giardino con tanto di collinetta.
Durante i lavori la mia famiglia fu trasferita in un’altra casa di proprietà del Caprotti, attigua al suo stabilimento tessile di Ponte Albiate. Alla fine del 1957 i lavori furono completati e tornammo nel Palazzo Sforni, completamente rinnovato (e anche un bel po’ snaturato, all’interno), andando ad abitare non più al pianterreno con uso del giardino, ma in un bell’appartamento al primo piano. La mia famiglia vi rimase in affitto fino al 1983, quando il Caprotti decise di vendere tutto il palazzo. Allora i miei la acquistarono, rimanendovi fino al 2008, quando mio papà morì e mia mamma si trasferì presso la famiglia di mia sorella a Lerici, dove morì nel 2012.
La casa restò disabitata, ed oggi svuotata per passare ad altri proprietari.
Così è la vita.
[Albiate, 27 ottobre 2020]
(in via di pubblicazione nella raccolta “Frammenti di vita”, Guido Miano Editore, Milano 2021)
Foto dell’autore
Occhi
Quale domanda nascondono gli occhi
dei pochi che camminano per strada
d’una Milano sempre più rinchiusa?
Occhi che pieni di sospetto scrutano,
occhi socchiusi quasi a non vedere,
occhi fuggenti di chi non accetta,
occhi fulgenti di chi vuol capire,
occhi ridenti di chi sa soffrire
senza lasciarsi andare alla paura;
occhi che senza saperlo ci parlano.
Non ci trattenga dunque la paura
ma solo un’amorevole prudenza.
E se incrociamo gli occhi di qualcuno
guardiamoli soltanto con affetto
come se tutti fossero di amici.
[Milano, 4-11-2020, domani un nuovo ‘lock-down’]
in via di pubblicazione nella raccolta “Frammenti di vita”, Guido Miano Editore, Milano 2021.
foto riprodotta con l’autorizzazione dell’autrice Laura P.