Margherita De Rosa - Racconti

“Eccomi qua: nun l’avess mai fatto!!!”

Capitolo I

Dalla nascita alla prima infanzia
Era una mattinata gelida, il pieno inverno imperversava, dalla radio accesa in un appartamento dell’edificio posto di fronte alla clinica, Gianni Morandi cantava “In ginocchio da te” a fasi alterne con “Non son degno di te” e così, tra una doglia e un acuto del Giovannino nazionale venni al mondo io: cicciottina, con tanti capelli scuri e un occhietto capriccioso, che a mia madre sembrava andarsene per i fatti suoi, infatti, quando, con competenza degna del più grande luminare dell’oculistica di tutte le epoche, la neo mammina si accingeva ad avvicinare il suo indice al mio campo visivo, l’occhio destro, conservatore e reazionario, andava nella direzione naturale, ossia, seguiva l’indice, non ancora indagatore né inquisitore ma , come dire, “chekappatore”; l’altro, il sinistro, ribelle e rivoluzionario, prendeva le sue distanze distanze, come per dire : “AZZ, avimm accumminciat ampress cu sti regole sociali! Vogl’i addo’ me pare e piace”…” e già mia madre profetizzava “cassadricamente” una gravissima forma di strabismo, senza pensare al ben più avvenente strabismo di Venere ( sempre occhi storti so’, ma vuoi mettere la differenza?): eh no, noi nascemmo per essere l’antipodo di Jovanotti e del suo pensare positivo….comunque, diciamo la verità, la “criaturella era proprio bellella” e ben presto le infermiere della struttura la battezzarono “capinera”: e so’ soddisfazioni! Mio padre, intanto, pensò bene di prendersi un bel febbrone alla guisa don Abbondio, vuoi per l’emozione, vuoi perché, causa “ansia incontrollabile”, aveva trascorso l’intera notte a parlare col ginecologo della consorte e a fumare come un turco sulla terrazza della clinica: correva l’Anno Domini 1965, esattamente la notte tra il 13 e il 14 gennaio…. cose ‘e pazz! Ma tant’è… ricevuto tempestivo battesimo nella cappella della struttura, onde scongiurare un probabile pericolo “limbico”, imbacuccata come una coperta avvolta su se stessa più volte, lasciando fuori lo spazio giusto per non crepare di asfissia, fui portata nella mia prima dimora, qualche giorno presso i nonni materni, e poi via alla volta della casa di proprietà dalla quale sarei uscita, badate bene, nel mese di…Giugnooooo! Eh sì, chell po’ facev fridd… a ri-Azz: simili standard negativi di temperature glaciali manco nelle zone scandinave forse fanno da padrone, ma a casa De Rosa-Maiello, il meteo era come il mio occhio sinistro: iev pe’ fatt suoie.. comunque, vestita a festa, con l’immancabile cuffietta (a Giugno) per evitare “o colp e fridd” (a Giugno) partecipai alla Prima Comunione di mio fratello, nato dalle prime nozze di papà, rimasto vedovo proprio quando il pargoletto veniva al mondo: il nome del mio consanguineo? Un elenco telefonico: Antonio, Fortunato, Castoro: no, non è l’altra denominazione della Trinità ma “il de cuius” aveva ed ha parecchi nomi, su tutti però si impone la tradizione padovana per cui egli è nella realtà Antonio, all’anagrafe Fortunato Antonio, per gli amici di una vita “’O Castoro”. E’ ovvio che io non abbia ricordi diretti di quei tempi, certo, se il Padreterno mi avesse dato qualche superpotere non mi sarebbe dispiaciuto, ma io ero e sono una comunissima mortale e posso riportare ciò che mi hanno riferito e quanto, grazie ad una memoria non proprio indecente, ricordo come un flash, ma ricordo abbastanza. Facciamo qualche passo avanti, perché narrare giorno per giorno la vita di un criaturiello potrebbe indurre il lettore al suicidio, ma poiché noi ( prego notare il plurale majestatis, segno tangibile ca me ne sto gghienn ‘e capa) siamo difensori della vita, dal suo concepimento alla sua fine naturale, mai potremmo coltivare propositi del genere e, quindi, ci soffermeremo su alcuni episodi che potranno delineare, più o meno, i tratti salienti della personalità della “criaturella”. Ora ritorno alla prima persona, mi si perdoni l’eccesso di autostima, ma è terapeutico, della serie: “ogni tanto nce vo”! Allora, potevo avere poco meno di tre anni e della persona compassata, corretta, sempre nelle righe, insomma, della brava bambina non avevo uno zufolo, infatti pare che fossi molto rumorosa, imprevedibile, che mi catapultassi dal seggiolone sotto la rigida guardia di mio padre e di mio fratello, che con l’ausilio di una cucchiarella creassi il ritmo di canzoni, note al tempo e piuttosto fracassone, come “allora ‘ndai allora ‘ndai, le cose nzuste tu le sai” oppure “e se sei buono ti tirano le pietre, sei cattivo e ti tirano le pietre, qualunque che cosa dici (rielaborazione della criaturella), qualunque che cosa fai, sempre pietre in faccia prenderai”….tutto accompagnato dalla menzionata cucchiarella rocchettara molto, ma molto rumorosa, giacché abbattuta su seggiolone, pavimento, gambe di tavole e sedie, insomma “ndo coglio, coglio” creava una soft-music da neuro incombente… quindi, a mmuina a sapevo fa… Erano più o meno gli stessi anni quando venne in visita da papà un suo grande amico e collega di scuola, al quale lo accomunavano anche diverse vicende di vita; ebbene, io osservai la sua candida chioma, poi sopraggiunse my mother con la ciotola del latte e…il passaggio associativo fu brevissimo: uno sguardo alla capocchia del buon Oreste, uno alla ciotola da zuppone, di eduardiana memoria e la criaturella esordì: << uhhhh, il lattuccio in testa >>, immediatamente apostrofata dall’oggetto delle mie attenzioni casearie, che dichiarò: << he capito a sta fetentella? >>; seh, tutta invidia, l’associazione era perfetta e incontrovertibile: bianchi i capelli, bianco il latte, peccato che io, nella mia sfottente innocenza, non avessi associato al candore dei due elementi “la vecchiaia” allora sì, che il titolo di “fetentella” mi sarebbe stato attribuito ad hoc….lungi da me, infatti, il fine offensivo, però, ad una più attenta analisi, la malafede non era in me ma nello spigoloso Oreste, che avrebbe dovuto ovviare il tutto con una tintura ambrata alla Donald Tramp, ma erano altri tempi e i “mores”, tranne il color carbone di un noto personaggio di Casoria, non consentivano deroghe per tinte calde, mielose e mesciati, più o meno tresh. Ve beh, comunque, la mia reputazione era compromessa: ero una criaturella impertinente e sfrocoliatrice ma, sicuramente, non deficiente: e già è ‘na bella cosa… Altro episodio che rivelava delle capacità un’anticchia superiori alla normalità è quello che mi vede, tra le braccia di papà, al cospetto di un quadro riproducente delle immagini pompeane, in cui erano ben visibili delle donne vistosamente scollate: io rifletto, osservo, guardo con attenzione e poi me ne esco con un imprevedibile giudizio artistico-morale, quale: “a scandalosa a mbettola”?!?! Che diamine avrei voluto comunicare con tale espressione? Cosa, il Vittorio Sgarbi che albergava in me, voleva suggerirmi prima di condannarmi alla condizione caprigna, a prescindere dalla mia tenera età? Forte di un senso morale cristiano cattolico già molto radicato, la criaturella percepiva l’oscenità del dipinto, in cui due prosperose donne ostentavano il davanti, oscillante tra una settima e un’ottava: agli occhi dell’innocente creatura ciò sembrò scandaloso, provenendo la piccola dalla rigida scuola materna del “ copriti, vergognati, vergognati, copriti” e quindi, con un lampo di genialità associò il termine tutto partenopeo “mbettola” a quello che ai suoi occhi di bimba più che timorata, meglio dire terrorizzata dai luoghi comuni di una religione medievalista e oscurantista, appariva come un oltraggio al pudore pubblico ed esordì con la storica frase (storica nel nostro nucleo familiare): << ‘A scandalosa ‘a mbettola!>>: concetto molto chiaro ma piuttosto arduo se si pensa che a pronunciarlo era stata una bimbottina di pochi anni… insomma, vari erano i segnali che “Margaretella”, come in molti la chiamavano era “robba bbona”, ma poi la vita ha mostrato di questa creatura tanti lati deboli, tante fragilità, tanti fallimenti; ma procediamo per gradi, rimanendo ancora un po’ nella lieta stagione di leopardiana eco, in quell’infanzia in cui tutto è meraviglia, speranza, gioia, proiezione verso una realtà di progetti realizzabili e straordinari.. Allora, viste le mie promettenti doti intellettive, my father, un po’ per soddisfare il suo ego, un po’ perché ad ogni genitore fa gola l’idea del figlio la cui intelligenza sia al di sopra della media ( normodotato no, fa troppo poco chic, ma geniale, eh beh, è n’ata cosa… vuo’ metter o figlio miez scemo cu uno tipo Mozart? Ma io dico: nun è meglio uno mediamente intelligente? Ma io non sono genitore, e chell d’e genitor so ati ccape). Torniamo dunque a sta criaturella “ca vuleva fa a mmuina”, magari cantare e ballare e scatenarsi ma…NO! <<Poi sudi e ti ammali…>> e al minimo grondare di una goccia di sudore, ecco avvicendarsi genitori e nonne, se presenti, quasi a soccorre Gesù così come fece la Veronica: << Asciutta a cca’, asciutta alla’, piglia o phon, a maglia ca s’è seccata: e mo, statt ferma! T’avissa mover?>> Noo, e chi osava, dopo sta specie di elettrochoc, chi teneva cchiu’ o curaggio e fa niente: traumi multipli fisici e psichici richiedono un giusto tempo di elaborazione…allora facciamo un’attività calma.. e va bene: na partita e carte? Nooooo! Che cosa? Studiamo l’imperativo categorico di Kant…. voglio murììììììììììì!! Possibile che papà, “perzona e scola e studioso di pedagogia, nun capeva che a quatt’ann ‘na criatura adda pazzia’? Eh no, perché vuoi mettere la soddisfazione di ostentare questo geniaccio, “pigmeico” per le dimensioni, che illustra il nocciolo del pensiero kantiano al cospetto delle monache “nostre” ( si legga Suore Vittime Espiatrici di Gesù Sacramentato ) in base al quale la legge morale è tale solo se interiorizzata dall’individuo? Concetto nobilissimo, ma io avrei preferito un altro imperativo: Kant, Kant ‘e canzoni ‘e Massimo Ranieri: era il tempo di “Bruciasse la città” e io, armata di microfono (spina elettrica) e di paletta (che faceva da asta al filo della spina appositamente legato con l’elastico), sulla base sonora del mangiadischi Lesa (non c’era del Karaoke nemmeno la più remota o avveniristica idea) mi scatenavo in svariate performance canore e coreutiche, sollecitando l’approvazione del vicinato ed in particolare di una dirimpettaia, che soleva dire: <<ma che brava, ma com’è intonata, ma che bella vocina>> ed io, orgogliosa di essere apprezzata in quello che sentivo essere la mia vera vocazione, mi producevo in diversi pezzi, tirando fuori degli acuti non male e avrei voluto raggiungere le vette più alte delle hit nazionali…sì, sono stata sempre piuttosto protezionistica, pur apprezzando qualcosa ( non tutto, in verità) del bel canto made in GB o in USA, molto di più gradisco le chanson de France. La musica ha colorato le mie giornate di bimba e curato le ferite delle miei tempi di donna, ma di questo parlerò poi…il mondo dello spettacolo, il teatro, vuoi anche per l’influenza paterna, hanno fatto vibrare sempre e sonoramente le corde della mia anima, tant’è, che ancora criaturella, dopo aver visto una commedia sul “secondo canale”, come si diceva allora, entusiasta dell’interpretazione di Lia Zoppelli (ahimè, chi era costei? Un’emerita sconosciuta alla stregua del Carneade di don Abbondio, più o meno? Spero proprio di no…), comunque, dicevo, presa dalla bravura dell’artista, chiesi a mia madre: << Mamma, ma da grande posso fare anch’io come lei? >>, intendevo chiaramente l’attrice: la povera mamma mia mi guardò sconcertata, sbarrò gli occhi come dovette fare Beatrice su Dante delirante, poiché incapace di comprendere il pensiero celeste…la mia cara mammina dovette pensare: <<Uh Madonna mia! E chest è ‘na figlia degenere, vulesse fa l’attrice? Quale sciagura si abbetterebbe sulla mia casa…no, non può essere, mio Dio, fa’ che abbia capito male…>>; di fronte a tanto sgomento, la criaturella, sempre più che mediamente intelligente, rifletté e prese atto di aver detto un’enormità: l’attrice? La prostituta cioè? Come se avessi chiesto: mamma, apriamo una casa chiusa e io ci lavoro? Ecco l’effetto devastante dovette essere questo…. per cui, io, a poco più di sei anni o meno, non ricordo, corsi ai ripari e “apparai”: << No, mamma, che hai capito? Voglio fare le recite a scuola…>>; <<Ahhhh- interiezione accompagnata da visibile distensione dei muscoli maxillo-facciali- e quello sì, certamtente…tu poi devi studiare, devi fare la professoressa….>>…..Già, prima Kant, poi la prof., nessuno che si curasse di Margherita, dei suoi sogni, delle sue aspirazioni, di come e quando si sentisse vivo questo esserino, pare senza alcun diritto ma sovraccarico di doveri, uno per tutti: compiacere i propri genitori e quanto ruotava nell’orbita del “quant’è brava”, “com’è buona”, “ che figlia perfetta ca tenite, prufesso’>>: e io aggiungo, col senno di poi, ma quanta tristezza in questa banalità di un perfezionismo che annulla l’essenza, la sostanza, per appagare la sete di apparenza di chi procrea non alla maniera di Gilbran….ve beh, ma godiamoci ancora qualche amenità, prima di affrontare pagine tristi, che, mio malgrado, ci saranno, anche se cercherò di renderle gradevoli con quel pizzico di umorismo che non esiterei a definire “salvavita”…

Capitolo II
Dunque, sempre nella veste di bimba modello, vivevo con grande difficoltà, quasi come uno smacco alla mia presunta superiorità intellettuale, l’incapacità di non riuscire a pronunciare il suono “CI” o la “S”, diventando motivo di ludibrio, fortunatamente, e non di sberle per mio padre, il quale, piuttosto che correggermi, mi incitava a ripetere quanto mi costava così caro e imprimeva nel mio orgoglio bambino una ferita insanabile….incurante del mio sforzo psicofisico/fonetico/ labiale, mi invitava a produrmi in tale disastrosa dizione: <<Allora, nennè ( poco fui chiamata per nome…. sana abitudine delle nostre zone, per cui ci si ritrova “nennelle” a cinquant’anni: ma usi e costumi vanno tutelati e salvaguardati, perché fanno parte di un’identità che non deve scomparire…è ‘na strunzata, ma mi va di scriverla)- nennè, domani andiamo dal medico Ciccio (storico dottor Francesco Ferrara) e poi a scuola >>: ipse dixit pater e fin qui, nessun problema, ma il peggio doveva ancora venire e io paventavo che egli dicesse: ripeti! E così fu…e la criaturella, conscia del suo destino, contro cui nulla poteva, si accingeva a prodursi nella sua performance drammatica: << Allora, domani andiamo dal medico Sisso e poi a cuola>>…..<< NOOOOO!>> era la risposta tragicomica del saggio genitore: medico CICCIO, ci, ci,ccio,ccio…ripeti>>….Mado’ e che ansia…non ce l’avrei mai fatta, lo sapevo, ma ci provavo per orgoglio personale e per allietare il contrariato padre di una figlia dislessica: medico siccio, cisso, sisso….<<N’ata vota mo? Ma allora nun capisc? Ripeti più piano>>…niente…quelle accidenti di sillabe non si formavano nel modo giusto, la lingua si accavallava e io andavo in affanno, quasi in apnea….ma che cazzarola…proprio a me doveva capitare il medico Ciccio….nun era meglio Pasquale? No, no, sarebbe diventato Pacquale come cuola….oggi si sarebbe pensato ad una bella seduta di logopedia, invece io, tra una risata di papà, alternata ad un solenne cazziatone, intervallato da un’umiliazione dettata dalle mie scarse capacità mentali, con fatica e forza di volontà, pervenni al traguardo glorioso della giusta pronuncia e giunse il giorno in cui andammo prima dal medico Ciccio e poi a scuola…oddio, è vero che il bonario dottore di lì a poco non sarebbe riuscito a godere di tale privilegio, ma la Provvidenza aveva pianificato che io ne pronunciassi esattamente il nome prima del suo trapasso…grande soddisfazione per lui e, soprattutto per me… comunque, fiera dei miei progressi, varcai la soglia della scuola elementare “san Mauro”, storica e gloriosa struttura del territorio casoriano, da uditrice, proveniente da scuola paterna: insomma, un mezzo genio: aveva fa’ bella figura, pecché ero troppo intelligente….e siccome era questa una mezza verità, ecco dare prova della mia bravura, alla presenza dell’amatissima direttrice Italia Montano, una figura istituzionale per la scuola casoriana: trattavasi di“collaudo” letterario. Ricordo, eravamo in due, io e la mia amichetta del cuore Bianca Ferone e ci fu chiesto di scrivere delle brevi frasette che mostrassero il nostro livello di preparazione. Bianca si tenne sul familiare e scrisse: << Il mio papà si chiama Gisepe…e va buo’, una variazione di vocale e doppie rendeva più simpatica la mia compagnella e anche il papà, ignaro di tale “deminutio nominis”….risate, correzioni e poi toccò a me: tutti si aspettavano una produzione letteraria degna della Divina Commedia, ma io mi versai sull’anagrafico e, avendo da poco festeggiato il compleanno, ritenni opportuno fare di tale argomento l’oggetto del mio compito, per cui, senza esitazione, scrissi con piglio sicuro: << Io tego sei ani >>: tiè, beccati questo…Essere immondo e turpe, dotato di ben sei ani, degno delle bolge dantesche, travestito da criaturella, che va ad insozzare col suo turpe pensiero le bellezze della grammatica italiana…passi per il tego ma i sei ani….inutile dire che la vicenda non ebbe un’evoluzione tragica, ma anzi si risolse in sonore risate, almeno da parte della Dirigente, che tentava di correggermi e spiegarmi l’imbarazzante differenza tra ano ed anno ma fu impresa ardua e inutile, poiché le mie scarse conoscenze anatomiche non mi consentirono di identificare, tout court, l’orefizio anale a cui avevo involontariamente fatto riferimento per l’omicidio, anzi, il consonaticidio di quella stramaledettissima “N”…. va beh, comunque sia, tra un orrore ortografico, un cazziatone paterno, di cui uno lo descriverò perché ha lasciato in me un segno da ‘uniposka’, l’evoluzione grammatical-culturale della criaturella emergeva, ero una promessa del panorama scolastico, ero un ‘talento talentoso’ e basta, non si discuteva: così era, così doveva essere! Ipse, anzi, a tal punto, ipsi ( genitori, parenti, amici, affini e conoscenti: uahnm e che complotto intenazionale!!) dixerunt. Torniamo brevemente all’errore orribile che mi sarebbe costato la morte immediata e le pene dell’Inferno: la mia maestra, la signora Granata Rosa, vedova Iodice ( pecchè s’adda essere precisi), un bel giorno di dicembre, all’approssimarsi della ricorrenza dell’Immacolata ci assegnò un tema sulla figura di Maria e la sventurata piccina (son sempre mi) ebbe la sbadataggine di scrivere Madonna con la M minuscola….tuoni , fulmini e saette, mio padre si scatenò come una ‘furia scatenata che si scatena’ e lanciò contro di me il suo anatema: << Ma come? Hai scritto Madonna con la M minuscola? Quella la Madonna ti fa morire mo’ mo’, he capito? E vai pure all’Inferno, perché oltre all’errore ha fatto pure peccato!!!>>….avrei voluto sprofondare, primo perché non intendevo offendere la Santa Vergine, secondo perché vidi intorno a me già prendere forma le fiamme dell’Inferno, ebbi esatta la percezione di un colore cupo e angosciante che pesava sul mio cuore di bambina come le parole di mio padre sul mio intelletto di infante, ancora non pienamente capace di discernere il vero dalla cazzate…eh sì, mi perdoni papà, ma quella fu proprio una stronzata! Eppure di pedagogia il mio genitore se ne intendeva, come poté quindi realizzare questa sorta di terrorismo psicologico nei miei confronti? Qualcuno obietterà: sì ma da allora non avrai mai più commesso quell’errore ortografico! Forse no, però sono stata e sono un’assidua frequentatrice di neurologi e psicoterapeuti…nun se fa accussì, e che cacchio, papà! Ne è stata compromessa anche la mia visione religiosa: scusate, ‘na Madonna ca te fa murì e subbet per così poco e poi non ti riserva manco il Purgatorio ma addirittura l’Inferno, era temibile assai, era una spada di Damocle: e chesto era Essa che è Mamma, figurammece o Pate, cioè il Padreterno: altro che timor di Dio, io ho vissuto per decenni con il “terrore” di Dio, grazie a papà e al contesto socio-culturale- religioso del mio ristretto nucleo familiare… cose ‘e pazze….o meglio, cose ca te fanno addeventà pazz… ma tant’è… ovviamente, a papino, come all’epoca lo chiamavo, era consentito e perdonato tutto, però il tempo ti permette di discernere e di renderti conto di quante abiezioni compiano i genitori nella convinzione di operare per il tuo bene e chissà quanta guaie avesse fatt i’, cu chesta orchestra ‘ncapa, con i figli che non ebbi, e per questo sono sempre più convinta che “Dio vede e provvede” e, in tal caso, provvide bene, pecchè, nel caso contrario, povere criature chilli pover figli ‘e chesta mamma….riflessioni a parte, torniamo alla mia infanzia, fase allegra questa, prego notare, pecchè po’ accummenciano e guaie. Allora, come si è potuto evincere da quanto fin qui esposto ( guarda ccà, parlo, anzi, scrivo comme nu’ verbale ), la stragrande maggioranza del mio tempo lo trascorrevo con mio padre e forse fu un male, perché poi, per volere di un destino non proprio favorevole, la sua presenza, non fisica ma morale, si ridusse notevolmente; ma di questo ci occuperemo più avanti e in maniera piuttosto breve, onde evitare l’ammorbamento del lettore, che già di suo, per svariati motivi esistenziali, è dotato di due air bag, per così dire, niente male, per cui il nostro intento ( redivivo attacco di plurale mjestatis…ma fa bell a nu cert punto) consiste nel dilettare, ove mai la storia lo consentisse e non nel provocare crolli depressivi irreversibili con “iastemme associabili”, a seconda della sensibilità dell’utente… allora, dicevo, stev sempe cu papa’: la mattina mi accompagnava a scuola, dopo le ore di lezione mi trattenevo con lui in ufficio, dov’egli svolgeva la mansione di segretario, poi tornavamo a casa, si pranzava e…si facevano i compiti insieme….tempo per il gioco? Poco. Tempo per stare con le amichette? Poco. Tempo per studiare? Tanto e sempre sotto il vigile controllo paterno. A mamma non era consentita l’intromissione, non per carenza di istruzione, mia madre infatti aveva conseguito la maturità liceale in tempi in cui gli studi liceali erano “c….i amari”, ergo, non era la competenza pedagogico- culturale ad essere messa in discussione ma il prevalere della convinzione del “m’o vveco io, tu va’ a ffa ‘e servizi alla’ ”, ecco, papà la pensava così. E lui se la vedeva anche per quant’altro mi riguardava, tipo le uscite: raramente ho passeggiato with my family, ma sempe cu papà, papà, che poi si fermava in piazza e chiacchierava con i suoi amici e qui ritorna il discorso degli air bag….va beh, dal basso della mia statura, vedevo ergersi i più strani figuri, vigili, vecchietti, giovani, monache…già, monache…papà era molto amico del clero locale, sia esso maschile che femminile, e quindi, protagonista di questo aneddoto fu tale suor Rita, dotata di una chiacchiera divinamente abbondante, per cui la criaturella, ormai un po’ piu’ cresciutella, cominciava a reclamare i suoi diritti e timidamente chiedeva, a bassissima voce: <<Papà, ce ne andiamo?>>, risposta: << Sì Sì, mo’ ce ne andiamo>>: il copione ebbe a ripetersi svariate volte, fino a che, indispettita e infastidita, lanciai a terra il pettine ( mo’ direte: e che ci azzecca stu pettn? Ehhhh, una cosa per volta… ) per attirare l’attenzione di un padre troppo preso da gossip manacheschi e elucubrazioni varie….la suora non si scompose, ma se la rideva alla grande, perché era consapevole di aver messo a dura prova la mia pazienza di bambina, ca vuleva sta cu’ ‘e criature e aveva sta cu e gruosse….Mio padre guardò il pettine di avorio bianco un po’ perplesso ma poi sentenziò : << Suor Rì, chella a criatura s’è sfastriata, ave ragione >>…. Giustizia era compiuta! Mi veniva riconosciuto il mio diritto all’ infanzia ma, in compenso, ungeva pettinata…. Eh sì, perché lor signori devono sapere che il mio genitore era patito dei capelli brillantinati, ma non potendo usare su di me la famigerata Linetti, optava per l’acqua, creando un effetto bagnato/lucido degno dei coiffeur del terzo millennio, ignaro di due terribili verità: la prima, farmi sembrare Rodolfo Valentino, la seconda, contribuire all’instaurarsi di una sinusite stabile e perenne, che tutt’ora affligge la scrivente e che bisogna giustificare con una non adeguata cura dei turbinati e altre velleità, per difendere il babbuccio ca me faceva cammena’ ca capa nfosa pure a vierno…e così, siccome la mia chioma gli dovette apparire eccessivamente sconvolta e pomposa alla guisa del cespuglio di Marcella Bella, lavò il pettine cotanto oltraggiato presso la fontanina della piazza ( io sperai fosse mera questione di igiene: come mi sbagliavo…) e poi, con fare solenne, via, una bella ammaccata alla zella vertiginosa, una ‘ncasata con il palmo della mano e voilà: patanella era pronta, così come piaceva a papà, tipo stile Umberto, capelli corti, lucidi e ammaccati: mio padre avessa avuto avè ‘na figlia cinese….sarebbe stato il massimo del godimento estetico, invece, la povera capinera non aveva più nulla dei ricciolini neonatali, ma capelli fini, ribelli e fragili, insomma, a schifezza de capilli, ma che vuo fa’….a questo poi si aggiunse il problema chieriche…eh sì. Me vulevo fa prevete…no no, non fraitendiamo, ho avuto, alla veneranda età di quattro anni, una evidente forma di alopecia: motivi genetici, stress ( e ce crero…) comunque mi ritrovai con una macchia grande quanto una foglia di geranio ( ma comme so’ poetica) sul lato destro della capoccia….e che succedette ! Era quello il segno visibile di punizioni divine irrefrenabili: ‘a nonna chiagneva e imponeva: nun s’adda dicere a nisciuno, manco o sole, manco o sole….eh già, perché la malattia è vergogna, scuorno, segno della malevolenza di Dio…quindi il dramma si consumò nella segretezza più totale e tra gli appiccichi continui di mamma e papà…eh sì, perché nacque un contenzioso tra i miei genitori e mio padre, per occultare la familiarità della patologia e sentirsi, ove mai fosse stato opportuno, scagionato del suo contributo genetico, accusò con piglio deciso la povera mamma, colpevole di aver voluto dare alla sua creatura un’immagine un po’ più femminile di quella di Rodolfo Valentino, osando farmi le “trezzelle”, pertanto, rea di tale colpa, le fu sentenziato: << ‘e capill a chesta nce le fatt cadè tu, nce le tirato tropp assaie>>, <<ma non è possibile- si difendeva la povera donna- io non ci ho messo nemmeno gli elastici, sul ‘o nastro, tanto ca se sciuglieven sempe>>, << e tu nce turnava a fa! Vide quanta vote nce le tirate>>: non so se si è capito, ma papà doveva avere sempre ragione, quindi le repliche erano pressoché inutili o potevano avere una loro utilità se si voleva arrivare all’appiccico sine fine ….quella volta l’appiccico non fu tale, perché mia madre realmente credeva, povera stella, di essere stata causa di cotanto sfregio e allora: niente più codini, capelli ancora più corti, ammaccature più radicali, onde evitare che il vuoto pilifero fosse visibile…eppure, qualche scaltro osservatore notò: <<ma che tene sta criatura?>> e papà pronto alla difesa d’ufficio: << no, niente, si è ciaccata sotto la tavola, mo tiene la tintura di iodio>>; effettivamente la tintura di iodio c’era, come c’erano le punture di vitamina e altre lozioni, che nel giro di alcuni mesi risolsero il problema, che però si ripresentava periodicamente, sintomo di una situazione stressogena vissuta dalla criaturella, ma, ciò che contava era che “ manco o sole l’aveva saputo” ed il ritorno alla normalità ripristinava l’interrotta alleanza con l’Onnipotente, come se una colomba avesse portato il biblico ramo d’ulivo o fosse riapparso l’arcobaleno in segno di alleanza.
CAPITOLO III

Passo dopo passo, siamo giunti al periodo natalizio, nella realtà e nella narrazione. Allora, Natale, in casa mia, era preceduto da una processione, assai gradita, di amici, maestre, suore, che venivano a rendere omaggio al professore De Rosa, alias segretario del primo circolo didattico di Casoria, alias una vera e propria istituzione. Si iniziava qualche settimana prima e il tutto si protraeva fino alla Vigilia, con qualche richiamo tardivo a Capodanno e raramente all’Epifania. Dunque, un’atmosfera festosa c’era, ma svaniva appena si rimaneva in tre per consacrare i momenti clou delle festività e raramente ci spostavamo nelle altrui dimore, solo raramente ospitammo mio fratello e fidanzata poi consorte, ma fummo molto parchi di pranzi, feste e festini vari. Motivo? Un’aurea luttuosa che aleggiava nel DNA e che di generazione in generazione colpiva spietatamente chiunque avesse voluto godere pienamente i piaceri della festa e della vita: nun se puteva fa, si dovevano piangere i trapassati e farsi due o più famosi air bag: tristezza, dice la Vanoni, per favore vai via….col cavolo, da noi era “tristezza, ma pe caso ten’avissa ‘i? Resta, sta casa aspetta a te!>>. Non mi si chiedano i motivi di tale atteggiamento doloroso per tutto ciò che afferiva alla leggerezza del festaiolo e della mondanità, ma penso che nel sangue dei miei prossimi scorresse medioevo a zuffunni, a cascate, ad alluvioni: uahnm d’’a miseria….ergo, il tanto oggi citato “fridd nguollo”, e si badi, non per l’emozione, bensì per quel gelo che s’impossessava della criaturella cresciutella, a metà strada nel giudicare più auspicabile una mosciaria tranquilla da 24 dicembre o un appiccico natalizio che rendeva un po’ più vivace l’atmosfera… comunque, cominciava ad allignare in me un malessere che non mi avrebbe più abbandonato, compagno fedele e crescente senso del male di vivere che affondava le sue radici in un quotidiano, posto a metà strada tra l’urlo di Munch, il “funesto a chi nasce è il dì natale” di leopardiana memoria e i fuochi d’artificio della tristezza più totale di giorni che il calendario cattolico vuole gioiosi, gai, scoppiettanti di agape fraterna…. Bene, non vorrei indurre il già esiguo numero di lettori a desistere dalla lettura, pensando: oima’ e che sarrà mai st’ammurbamiento? No, non si tema, v’erano anche momenti spensierati e piacevoli, rari, moooolto rari, ma c’erano e mi apparivano addirittura celestiali: un vera dimensione parallela quella che si creava quando mamma e papà comunicavano civilmente, tanto da farmi pensare che il paradiso fosse quello e, ancora oggi, nei momenti di maggiore ambascia, il ricordo di quegli attimi in cui la mia famiglia era tale anche nei fatti mi solleva, mi trasporta in un mondo di serenità e pace interiore specialissimi, praticamente irreale, come irreale era questa sorta di brevissima pax augustea tra i miei…comunque, veniamo alcassatine, eh sì perché le cassatine erano il motivo portante del Natale ed in particolare del Capodanno. La tradizione voleva che, intorno alle cinque, quando i pochi bagliori di un sole al tramonto tra nebbie che preannunciavano ben altri fumi, quelli dei botti della mezzanotte, mentre mamma si affaccendava per i preparativi del cenone for three, io e papino scendessimo nella famosa piazza Cirillo, ove il pater poteva fare ancora due chiacchiere con gli amici di sempre, prima di recarsi allo storico bar Mugione per acquistare ….dodici cassatine….<< Ma so, assaie pe’ tre ‘e nuie>> replicava interdetta mia mamma, preoccupata anche per la predisposizione al diabete di papino, che di astenersi dai proprio non ne voleva sapere e in questo mi ha consegnato lo scettro della golosità a 360 gradi: io posso digiunare, nel vero senso della parola, perché i miei trascorsi di anoressica mi danno ancora un certo potere sul cibo, ma sui dolci e le schifezze in generale no: aggio pigliat ‘a papà, senza diabete per il momento, ma se qualcuno mi chiedesse: << vuo’ ‘e cannelloni o ‘e cannuoli >>, ebbene, nonostante la somiglianza della forma è il contenuto per me che fa la differenza, è “o ddoce”, e mo’ i lettori più malpensanti non si scatenino in fantasie oscene circa la scelta dell’elemento gastronomico: stamm parland e mangià, lasciamo il grande Freud e i suoi simbolismi nello studio dello psicanalista, ma se poi sorgesse spontanea l’allusione, fate pure, c’aggia fa’? l’inconscio è insondabile e mo’ si stu’ cannuolo e stu’ cannellone so’ asciut mmiez, qualche motivo ci sarà: io direi che è fame, ma tornando allo specifico della nostra narrazione, dicevo che la gara dolce-salato, si chiude con un 5 a 0 a favore dello sweet… torniamo alle dodici cassatine: effettivamente un po’ troppe, ma, tanto, il giorno dopo sarebbe venuto mio fratello e quindi avrebbe contribuito, con il suo appetito da giovinotto, a dare un serio taglio alle risorse pro-glicemia di casa… le ricordo ancora, le cassatine e i dolci di don Pietro, erano una delizia o forse era l’età…comunque il rito si compiva con mia grande gioia, sia perché mi era dato di uscire il 31 dicembre, sia per soddisfare la mia brama zuccherina… ho ricordi poco piacevoli di san Silvestro, tranne di uno, quello trascorso a casa di amici, in cui si cantava, si ballava, viva Dio, ci si ubriacava e la mia amichetta volle darmi un saggio di come si sparavano i fuochi…in casa…eh sì, pecchè sta’ cosa dei fuochi all’esterno era usanza vetusta e obsoleta e allora, una botta, è proprio il caso di dirlo, di novità ci voleva! E così, la mia compagnuccia, che nemmeno ricorderà l’episodio, chissà, si attivò per sparare nell’ampio salone un…tracco? Nooooooo, un vero e proprio razzo: pronti? Appiccato il fuoco alla miccia, lasciato quella specie di serpentaccio ardente sul pavimento partirono fischi potentissimi, manco fossero aerei da guerra nel bel mezzo di un attacco al cuore della città. S’arrevutaie tutt cos: chill’aggeggio curreva p’o salone, noi, impavide eroine, non sapevamo che cazzimbocchio fare, anche se la mia coraggiosa compagna mi tranquillizzava, dicendomi: <<mo’ si spegne, mo’ si spegne>>, già ma intanto tappeti e tende s’a vedetter brutta veramente….poi, con un’irruzione violenta fece il suo ingresso nella stanza la mamma dell’eroica creatura, esordendo con uno sgomento: << Ma che state combinando…>> e realizzando in un batter d’occhio che qualche santo aveva taumaturgicamente reso ignifugo l’ambiente, pecchè là, se pigliava “il famoso piede”, se ne partevano cosce, braccia, tronco inferiore e superiore…comunque, laconica, la mia amichetta replicò: << Mamma, volevamo fare una prova ad accendere un botto >>; << ‘na prova? Int’a casa? Uscite, mo’ è meglio che uscite>>: il messaggio subliminale era chiaro: << o ve ne jate o ve piglio a mazzate democraticamente a tutt e ddoie…>>: e noi, a testa bassa, ci allontanammo, mentre il razzo dava gli ultimi segni di vita, guaendo come un cagnolino ferito: az, mo s’allamentava pure, avev cumbinato chellu poc! Se erano i nostri tempi il vicinato avrebbe pensato mimimo ad un kamikaze infiltrato in una festa di fine anno, ma allora queste preoccupazioni non c’erano, per fortuna, anche se si avvicinavano gli anni di piombo e altre situazioni poco divertenti….ma torniamo a quel fatidico 31 dicembre 1974: ricordo due episodi in particolare, uno che suscita in me ancora tanta ilarità, quale la solenne ubriacature di un ospite al quale nel vino fu messa una massiccia dose di sale: immaginare le conseguenze è facile. Il morigerato professore perse la tramontana, “ascese” prima sulla sedia e poi sul tavolo, urlando come un pazzo alla guisa di un redivivo duce, mentre gli astanti aizzavano e istigavano il povero e ignaro prof, che si sentiva sempre più carico e sbrodolava scemenze a volontà, grondando sudore e sale, eh già, tanto sale, finché non sbollirono i fumi dell’alcool e le esalazioni del cloruro di sodio. I postumi delle varie bevande non propriamente analcoliche produssero il loro effetto su un’eccentrica ospite che, alla maniera russa, beveva e scassava tutti i bicchieri: ecco, oggi non sarebbe successo, usiamo tutti i bicchieri di plastica, anche per il brindisi di fine anno, che schifo… beh, fin qui, dispiaceva per la padrona di casa che nce stev refunnenno ‘nu sacco e bicchieri, ma il dolore lancinante, provato dalla scrivente si manifestò allorché l’”eccentrica”, sentenziando che bisognava buttar via tutto ciò che apparteneva all’anno vecchio, precipitò dal balcone un vassoio di chiacchiere buonissime, che io avevo appena assaggiato e che mi ripromettevo, da brava golosa, di bissare…ma che…quelle povere chiacchiere fecero il volo degli angeli, anzi, fu il loro volo molto meno glorioso visto che si spiaccicarono al suolo tra i botti, i cocci di bottiglia e le immondizie varie che il 31 è d’uopo vuttà a copp o balcone, nonostante la civiltà, perché quello poi porta bene…già, porta bene…ma non alle chiacchiere, che me so rimaste nganno, anche perché buone così non le ho più assaggiate, va beh, ma questa sarà sempre una questione di età….

CAPITOLO IV

Tra un ricordo e l’altro, mi sovviene ora dei miei divertimenti estivi, che mi vedevano regina incontrastata delle balconate di casa mia e del pianerottolo; eh sì, effettuavo passatempi esterni e interni, oltre ad imbrattare la stanza adibita a studio di compiti elaborati da una decina di alunni immaginari (io) e corretti doviziosamente con lapis rosso-blu (da me), corredati di voti opportunamente motivati e trascritti rigorosamente su registri da me realizzati con attenzione, manco aspettassi la visita del ministro dell’allora Pubblica Istruzione. La mia classetta era piuttosto silenziosa, essendo composta da: Cicciobello, in primis, una sorta di boss dei bambolotti, poi c’era Cipollina, che ai bei tempi camminava e parlava ma, ora, per un destino avverso, era stata privata di entrambe le facoltà e quindi faceva quel poteva, ma io la gratificavo scrivendo per lei i compiti più belli, così Pierino, il bambolottino rossiccio al quale, tirando una cordicella posta sul retro del busto gridava: << Abbasso il maestro e abbasso la scuola>>, schiattava di invidia, perché a lui più di cinque non mettevo: tenev ‘e preferenze, embe’ che è? Io ero dalla parte dei deboli, e la bambola invalida era la mia prediletta. Poi c’erano orsacchiotti, coniglietti, qualche Barbie, ma quella veniva dal corso serale, insomma, un’utenza eterogenea, che profetizzava la scuola del futuro, aperta a tutti, anche ai peluche….alternavo all’attività scolastica quella di farmacista: ricette sempre rigorosamente scritte da me, scatole vuote di farmaci dai quali staccavo un improbabile bollino, che spillavo, come si usava all’epoca, quando non c’era il sistema dell’ autoadesivo, attentamente sulla pseudo ricetta e riempivo le buste di farmaci: non si pagava nulla, allora non c’erano ticket e il cliente (io) andava via soddisfatto…ma poi c’era anche spazio per l’attività di salumiere, insomma, commerciare mi piaceva molto, ma era una fatica immane, eh sì, facev tutt cos ‘i…vennevo, accattavo, cuntav e sold ( eh sì, perché il mio ero un gioco “verista”), m’appiccicavo ca commerciante (semp’i) pecchè nun nce truvavemo cu e cunte, insomma, na’ muina mai vista…e la cucinella? Dove la mettiamo? Facevo delle schifezze uniche, degne di una lavanda gastrica solo a guardarle, erano tentativi gastronomici che somigliavano più ad esperimenti da piccolo chimico “folle” che a pietanze compatibili con la sopravvivenza umana…e poi, l’amore dei miei amori era esercitare l’arte medica, in generale, e quella infermieristica, in particolare, soprattutto nel praticare iniezioni a destra e a manca: quanti culi di peluche ridotti a colabrodo, quante patate efferatamente perforate per il mio praticantato…le siringhe, in verità, erano utilizzate anche come pistole ad acqua, dalla sottoscritta, che, un po’ birichina lo era, mi consentano…infatti, caricavo le mie armi e mitragliavo con gran foga le lenzuola stese dalla mia dirimpettaia, ovviamente quando la poverina era lontana dalla balconata e la biancheria era asciuttissima; poi, sempre con un uso improprio del cotone idrofilo, mi divertivo a “spugnarlo” letteralmente nell’acqua e, dopo averlo a mala pena strizzato, via, lo lanciavo in direzione dei vetri ( uh Maronn!! ) e dei muri….sotto l’effetto dei raggi solari, l’ovatta si asciugava, si corrugava assumendo strane forme, per cui la signora, incuriosita e preoccupata, si soffermava onde comprendere <<e quala specie e bestie se trattava…>>, eh sì, perché quella roba molliccia assumeva la forma di un essere strano, di un insetto sconosciuto, per cui, la povera donna si sentiva vittima di una maledizione biblica…<<sempe vicin a sti mmure e stu balcone sta rrobba schifosa>>…si guardava intorno circospetta, ma non ne veniva a capo….io me la ridevo, contando anche sulla bonarietà della mia vittima predestinata…e che diamine, o vvuo’ capi’ che è nu’ poco d’ovatta? Nooo, n’atu ppoco chiammava l’ASL, ma non erano tempi, oggi forse la signora si sarebbe attivata in tal senso, ma all’epoca, quel che contava è che la sottoscritta compisse i suoi agguati nel più completo anonimato….e così fu!
Diverso invece era il rapporto con le più giovani dirimpettaie dell’altra balconata, quasi mie coetanee, con le quali c’era un dialogo più aperto, talvolta, più che aperto, sboccato…eh sì, perché la più piccola delle mie interlocutrici, imperterrita, ogni volta che mi vedeva approssimarmi alla ringhiera, senza dire né buongiorno, né buonasera, né tanto meno ciao, avanzava la sua perentoria richiesta: <<Vutt’ a pazziella>>; quasi io fossi un erogatore automatico di giochi e affini, oltre che una specialista del lancio a distanza, dovevo cimentarmi nella bella prova ginnica del “vuttamento della bambolella” o di altri generi similari; certo, la bimbetta ricambiava, a modo suo, una volta mi lanciò una chiave che, cazzarola, me jette primm ngapa, poi rimbalzò e finì sul terrazzo del rpimo piano. Era, si badi bene, chiave dell’armadio di casa, di grande utilità: quando io chiesi all’innocente: << ma è una chiave che serve?>>, candida rispose: << sì, chell a mammà nce serve>>. Panico totale…eh mo? << chiamami tua sorella, urlai >>, facendo riferimento alla sorella maggiore, alla quale spiegai l’accaduto e lei di rimando: << e tu te fai vuttà e cchiav?>> e io risentita in un italiano purissimo: << senti io a tua sorella lancio giocattoli buoni, nuovi, lei voleva ricmbiare e mi ha lanciato questa maledetta chiave, mo che vuoi da me?>>, << vall’a piglià>>: io? Andare a prendere la chiave non mia giù alla sede del PCI? Nooo, ma non esisteva proprio e poi i miei, causa vigilanza estrema e perenne, non mi avrebbero fatto scendere: dal terzo al primo piano, in un luogo tutto al maschile? A ri-nooooooo! Comunque, intervenne la mamma delle fanciulle e, molto pacificamente, risolse il problema, recandosi nella gloriosa sede casoriana dell’ancor più glorioso PCI, quello di bandiera rossa, avanti popolo alla riscossa, di Berlinguer e degli uomini seri, ma ora non sforiamo su altri argomenti e torniamo alle dirimpettaie. Da quel giorrno, visto l’equivoco, decisi che il vuttamiento delle pazzielle era storia chiusa, ma la piccola non demordeva e, puntualmente, mi sollecitava con un lancio “a volo a volo”; al che cominciai a dire che le pazzielle le avevo finite, che ero grande e non giocavo più, quindi non c’era trippa per gatti: la reazione dell’innocente fu a dir poco stupefacente: munita di carta e penna, con le sue poche competenze linguistiche, mi invio’, con la posta prioritaria della molletta per i panni, una missiva in cui si faceva riferimento ad una mia presunta sorella, dedita a pratiche erotiche poco ortodosse….<< A-richiamami “tua” sorella”>>, fu la mia risposta e il copione si ripeté, ma la ragazza sosteneva che non trattavasi di grande offesa e concluse che io non sapevo stare al gioco….bene, finiva così una pluriennale storia di amicizia balconare, colpa di una chiave e di una non condivisa visione delle maleparole…Oggi, però, quando ci incontriamo ci salutiamo affettuosamente, perché abbiamo in comune dei ricordi, che, importanti o meno che siano, sono sempre straordinari perché appartengono a quella stagione che anche Leopardi definiva lieta: l’infanzia e quindi, tutto ciò che ne fa parte è bello, è unico, è sacro…. Poi parlavo del pianerottolo, bene, qui la storia diventa un po’ più triste, perché, spesso, mentre papà si dedicava al suo passatempo preferito, cioè telefonare, e mia madre era in visita dalla nonna ammalata di cuore, io mi sentivo tanto sola e quindi, non avendo altre risorse, aprivo la porta d’entrata e alle mie coetanee di passaggio chiedevo se volessero giocare con me o, in alternativa, essere mie amiche… non ci facevo una gran bella figura, ma evidentemente, il bisogno di interagire era così forte che mi trasformavo in un essere senza vergogna….altre volte poi, lasciando prevalere il mio lato gianburraschesco (?????) bussavo a tutti i campanelli e poi via…..diritta a casa con la porta sprangata mentre tutti aprivano e parlottavano: << ma hanno bussato pure a voi?>> << e chi è>> <<e so chill fetient de guagliune ca se ne fuiene>> << ma si e cchiapp nce faccio nu mazziatone>>: bene, nessuno sospettava di me e io quasi tutti i pomeriggi, pecchè ero na criatura precisa, legata alle tradizione, gghiev a sfottere i pianerottolai del terzo piano, ma un giorno, ahimè, “inciampicai” e persi foga nella corsa, quindi qualcuno adocchiò la chiusura rapida della porta e dopo qualche minuto <<DLIN DLON>>….Madonna, vulev murì…e mo papà che avrebbe detto? Comunque, il genitore fu solennemente avvertito dall’odiosa vicina, che minacciò punture di spillo sulle mie manine, affermando perentoriamente che una bambina perbene certe cose non le fa…mio padre, invece, si cui temevo il cazziatone, dichiarò dal canto suo che erano bambinate e quasi mi giustificò, così come fu molto comprensivo il preside Storti, mio vicino di casa, che mi ha sempre voluto un gran bene e che io ricordo con grandissimo affetto. Poi il periodo delle bussate a tradimento passò e con esso anche il tempo più spensierato della mia vita, per cui il mio racconto si interrompe, altrimenti dovrei affliggere i lettori con una narrazione non proprio amena e non mi pare il caso, dato che oggi c’è bisogno di stare su, e tanto, quindi vuol dire che scriverò di altro ma sempre di qualcosa che faccia piacere e non sia causa di tristezza; d’altronde la vita è per tutti una sfida, c’è chi l’affronta con più determinazione, chi con maggiore fragilità, quindi, ognuno ha i suoi problemi e io, nel mio piccolissimissimo, vorrei regalare un sorriso piuttosto che una lacrima…. Ciaoooo!


 

Qualche minuto in farmacia…

Onde evitare di apparire egocentrica, stavolta non parlerò di me, ma di quanto avviene, puntualmente, in farmacia: so che esistono anche dei siti on line appositi, in cui vengono riportati degli strafalcioni pronunciati dai pazienti-clienti, ma di quanto verrà fatto ora oggetto di racconto, la scrivente è stata testimone e quindi, si tratta di scene melodrammatiche alle quali ho assistito senza poter né ridere e né piangere. Tacerò il nome della farmacia per ovvi motivi, ma, per correttezza informativa, mi sembra opportuno riferire che qualcosa di simile è stata da me pubblicata sul Giornale di Casoria, anni addietro, ma ora il numero delle novità è aumentato o è mutata la qualità dell’improprietà linguistiche…. l’ultimo episodio è recentissimo, a ridosso delle feste natalizie. Entra un tipo abbastanza affranto in farmacia e chiede del dottore, al che, un impiegato, gentilmente, gli fa presente che può riferire anche a lui dell’eventuale problema, al che il tizio replica: << seehhhh, mo perd o tiemp cu vuie….sit o duttore vuie?>>, << no >>, replica il poverino, molto mortificato ma non demotivato, per cui insiste:<< però potrei risolvere anch’io il suo problema, se me lo riferisce>>; <<n’ata vota mo: ma sit o duttore?>>, <<No, ma qualcosa ne capisco, faccio questo lavoro da vent’anni>>; << abbuo’ ja, o duttor nun nce sta, me ne vaco>>. Il tizio, indispettito, fa dietro front ma in quel momento esce dall’interno “O duttore”, che tutti salutano e lui come un falco si precipita sulla sua preda, si lancia sull’oggetto delle sue attenzioni e dice: << duttò, duttò, statev accort, cca’ se vonn piglia o post vuost!>>; << ma non vi preoccupate, nessuno prende il mio posto, i miei impiegati vogliono solo rendersi utili>>, <<Sì? Comunque stateve accort o stess, io ‘o dico pecche ve voglio bene, vuie m’avite risolto nu sacc e prublemi, compresa l’unghia reincarnata>>; <<incarnita!>><< Eh Eh, nun v’arricurdate?>>; <<va benissimo , ma ora di cosa avete bisogno?>>; <<allora dutto’, in questi giorni festivi di festa ho un poco esagerato con l’arcol…vino, limoncello, schiumante, pure un poco di grappa insomma i superarcolici….e mo me sento il fetaco sott’e ngopp; vuless nu poco e soluzione Schulz>>;<< soluzione Schoum, tutt’al più>>, <<pecchè, i c’aggi itto dutto’? ma nun è che stissene mbriaco pure vuie?>>, <<no, sono sobrio, comunque va bene per la soluzione, ma po’ basta alcool>>; << va beh, nu’ poco e birra, nu’ poco e vino>>, << no, vi dovete disintossicare, almeno per una settimana niente di niente>>; <<eeeeh dutto’, comme a facite grave, chelle è sul ca me fa male a sinistra, e a sinistra nce sta o fetaco? E i me so preoccupato>>; a questo punto il medico, seriamente compreso nella situazione: << Signore, ma il fegato è collocato a destra, se vi duole a sinistra sarà il colon>>; << e che è?>>; << è una parte dell’intestino, ma perché non vi fate visitare?>>; <<Ah, e ja!>>; << Dove?>>; <<A visitare!>>; << Vi devo accompagnare dal medico curante?>>; <<No no, m’avita visità vuie>>; << Ma io non posso, io non sono medico>>; << comm’è nun site duttore? E che nce state a ffa cca dint: cca nisciun è mierc allora: mo ve denuncio a tutte quant, sta massa e mbrugliun…>>; << Signore, moderi il linguaggio, io sono dottore in farmacia, non medico come intende lei>>; << allora l’unghia reicarnata me la fatta guarire sant’Antonio>>; << Ma mo che c’entra sant’Antonio?>>; << e i’ so devoto e m’ha aiutato, anzi m’ha protetto da voi ca site nu’ mbruglione>>; << Adesso stiamo esagerando, se non la smette la denuncio per diffamazione>>; << vuie a me? Vuie can nun site mierc?>>; << glielo ripeto, sono farmacista, sono dottore in farmacia, posso suggerirle farmaci, darle consigli, ma visitarla no…>> ; << dottore e non visitate, e dicitelo can un site buono, siato umilo, e ringraziate a Dio ca me truvate diritto, i’ mo vaco a chell’alta farmacia e me faccio visità, statev bbuon>>; << ma non vi visitano nemmeno in altre farmacie….>> commenta avvilito il farmacista, ma il tizio replica minaccioso. << E ppo verimmo, si nun chiamm e carabiniere!>>. L’uomo esce, senza soluzione “schultz”, con un fetaco spostato a sinistra e con l’incognita di cosa sia il colon, mentre il farmacista è avvilito, sconfortato ma non ha il tempo di applicarsi, perché arriva a consolarlo un altro cliente, è un ragazzo, trafelato, che esordisce: <<Dottò, sorema tene tutti puntini rossi: nce prorono, il medico ha detto che tiene la rosalia, ma quella si ratta continuamente: c’amma fa?>>; << generalmente la rosolia non dà molto prurito….>>; << e può darsi ma quella c’ha la rosalia, è un’altra malatia….ja duttò, dateci un contropruriginoso>>; << un contropruriginoso? E va beh, vi do il talco mentolato>>; << ah, e va bene: lo scioglie nell’acqua?>>; <<no, per carità, quello si mette addosso, è polvere, è come il borotalco, perciò si chiama talco>>; <<Sì? Si ho dicite vvuie…e quante vote se l’adda mettere?>>; << e anche quattro cinque volte al giorno>>; << e si nce fa male?>>; <<non signore, nun nce fa male, se leva ‘o prurito>>, risponde spazientito il ferreo farmacista. <<Va buo’, vi do fiducia ja, arrivederci>>; << eh, e grazie assaie>>: nel frattempo la farmacia si è riempita di clienti, tra loro c’è anche una distinta signora, ben vestita, ma ca s’avesse sta zitta, mentre lei, nel suo idioma napoliano (napoletano e italiano), dichiara: << sentite, l’ata volta, la signorina con la cora di cavallo, mi dato una tintura che mi aggio truvato morto bene; mo la volessi, nce sta?>>; il dottore, lieto che non tocchi a lui, si affretta a chiamare l’addetta e il dialogo è più o meno questo: << senti, lei mi rette una tintura troppa bella, me la vulit da n’ata vota>>; << certo signora, ma se non mi dice la marca e il colore>>; << Uh Gesù e o culore nun o vedite, o teng ngapa…>>; << si ma ci sono dei numeri, delle gradazioni>>, << senti, mi dispiace per lei ma lei sei esperta, guarda bene ncapa, vedi è russo…>>; << va bene, sarà mogano probabilmente, ma la marca…Va beh, ora vedo un po’…ah, ma è senza ammoniaca?>>; << Come? Senza che? Io ho letto che nce sta un uoglio…aspetta…ah sì sì, l’uoglio e giorgio>>; <<cosa c’è?>>; <<ehhhh, m once mettimm mezz’ora: ma tu, tu me l’è cunsigliat, mo te scuord tutt cose mannaggia!>>; << signora, si calmi, e la prossima volta conservi la scatola, così facciamo prima….comunque credo di aver capito, tintura mogano, senza ammoniaca e con olio di jojoba….eccola la qua>>; << ah oì, allora lei ti ricordi eh, me vuo’ fa perdere o tiempo a me…ma mo ‘o russo è ugualo a questo?>>; interviene un commesso: << Sì, signò, è talo e qualo, nun ve preoccupate>>; <<ah ah beh, e quanto costa?>>; << sette euro e novanta >>; << nooooooo, uh Maronna mia, e quann mai, l’ata vota t’è pigliat quatt o cinq euro>>; << infatti, la volta scorsa era in promozione, questo è il suo prezzo reale, senza sconto…>>; << Ehhh se se….e o sconto quanto o fai?>>; << Forse il mese prossimo, non lo so>>; << e allora nun o vvoglio, nun m’a faccio sta’ tintura, mo pave tre eur e cchiù….noo, mo m’accatt chella ca tene cinquanta centesimi, duie euro, nun fa niente ca nun ce sta l’uoglio e giorgio>>….La “distinta” signora se ne va, lasciando di stucco la povera commessa…ma la tortura continua… alla prossima!