Maria Angela Di Sanzo
Poesie
Storie di una volta
Ci sono storie che non si possono dimenticare e per portarle avanti bisogna raccontare, raccontare, raccontarle, riviverle, sperimentarle, ripeterle costantemente, ogni volta che si crea l’occasione, il periodo, il momento; la ciclicità delle stagioni ci consente di ripetere riti e tradizioni di un territorio, di generazioni in generazioni. Forse!
Il tempo potrebbe cancellare le tracce di un territorio, ma noi dobbiamo essere perseveranti nel tramandarle alle nuove generazioni. Il recupero della storia, la scelta di una tradizione da sostenere e riprenderla per valorizzarla, gli antichi mestieri o attività contadine oramai perse, la conservazione del dialetto come patrimonio culturale fondamentale per risalire alle nostre origini e capire perché oggi siamo quello che riusciamo a vedere di noi stessi.
Per tramandare bisogna recuperare e conservare una tradizione, bisogna rendere partecipe il successore, creare interesse e emozione in ogni erede. Ma dall’analisi generale del territorio in oggetto emerge un’osservazione obiettiva che è la triste perdita dei nonni di questa terra. Va inteso per perdita non solo la morte, ma il ruolo che una volta il nonno svolgeva, raccontare o far vedere al nipote quello che si faceva in un determinato periodo o una determinata ricorrenza. Questo scaturisce la perdita di una fonte storica del nostro territorio, che fa svanire, a lungo andare, tradizioni, usi, costumi e consuetudini.
Da conservare!
I nonni, alcuni dormono, alcuni riposano, per un attimo, ma tu non devi disturbare perchè è il silenzio intorno a te ti dà la possibilità di ascoltare il e il respiro della nonna che riposa, perché il silenzio intorno a te che ti dà la possibilità di sentire come curcuriiti la pentola del sugo sui fornelli, perché è il silenzio che ti dà l’ occasione di sentire i tuoni e lo scoppiettar del fuoco che piano consuma la legna, riscaldando l’aria, rendendo caldi i ricordi e le sensazioni. Fuori pero’ l’aria è fredda e la natura comincia ad avvertire il cambiamento delle stagioni, il vecchio inverno sta andando via e la giovane primavera lo aiuta a preparar le valigie. Infondo, vicino alla montagna, se casualmente e per fortuna ti giri in tempo, vedi ancora un rosso raggio di sole che dovrebbe anticipare il bel tempo del domani; colore rosso, intenso, tra il color del sangue e quello della terra bruciata, arida, incolta a grosse zolle, deserta, dove e come rischi di rimanere se il vecchio inverno, ogni volta, lo lasci andare via senza dar retta a cosa gli aveva detto u capitimbu e a stagiuna prima di lasciargli il posto.
A volte, il riposo è breve, i nonni si svegliano e cominciano a raccontare: “a li timpi nusti”. E da piccoli si rimane affascinati dai loro racconti, che avvengono vicino al fuoco o tra le loro braccia calde che ci stringono, forse quello che raccontano non è tutto vero, qualcosa fa parte della propria immaginazione o forse qualche ricordo viene espresso in modo buffo, come se il desiderio di raccontarlo fosse più forte della paura di farlo, perché il bisogno di esprimerlo o toglierlo dalla mente è vigoroso per timore o per gioia, ma solo con il nipote può farlo, perché l’animo innocente che è in lui procrea un’impresa ardua che non capirà mai se cio’ che ha udito è una falsa verità o una vera bugia.
Si perché l’adulto capirebbe troppe cose e spesso non proprio tutto si può o si poteva raccontare.
Munnu eriti e munnu è diceva mia nonna, ni facimmu cunti sturti, certi voti abbuscammu e certi voti ni curcammu diuni.
Nonno’-le chiedevo io- fizzi, figli, ni facisivi?
Ovvio, la domanda doveva avere sempre un velo in trasparenza, non poteva essere proprio diretta.
La risposta invece si alternava in base a chi te la restituiva.
Eeee, eccomi si ni facimmu, munnammu, scuppulammu, granianu e tuttu, a scusa ni vulimmu, facimmu figli e li lassammu puru cessa cessa, inda a li chiani comi a l’animali, quannu li pirdimmu, appari ca ni curammu.
A volte, forse, erano pensieri ad alta voce, ma quanto mancano quei momenti, al sole, all’ombra, mentre lei faceva la maglia ai ferri o tu tenevi la lana a matassa che le ricche e saggie mani facevano a gomitoli; attività che si svolgeva davanti al camino, dico camino perché il fuoco c’era stato, ma nel frattempo avinu rimasi sulu li tizzuni e il fumo faceva bruciare gli occhi, ma le tue mani non potevano lasciare la dimensione presa, perché scappava il filo e ingarbugliava il gomitolo. E allora piangevi, tanto la scusa buona era pa fuma,a fuma vati a lucchi belli ma mai nessuno avrebbe saputo se avevi avuto paura del fatto stesso raccontato o quale emozione era emersa, magari dopo, in quel medesimo frangente di quel presente sapevi ché stavi piangendo per il cazziatone dalla mamma per la puzza agre e nauseante che rimaneva nei capelli anche il giorno dopo, o l’altro ancora, considerando che l’umidità che avevi addosso aveva assorbito tutta la foschia di quel ceppo consumato tra la cenere.
Meglio andava se i ceppi ardevano e lasciavano brace per grigliare carne, salsiccia o anche solo pane, la merenda giusta con olio e zucchero.
Forse è questo il motivo per cui mi piaceva parlare dei nonni, non si faceva mai solo una cosa, ma sempre due contemporaneamente. Parlavi e mangiavi, mangiavi e parlavi, passeggiavi e mangiavi, pascolavi le pecore e parlavi di mangiare, di buffetta, di cicorie, di erbe aromatiche, selvatiche, pampanari pa frittata, cipuddini, come le trovavano o come coltivavano i campi quando erano piccoli e aiutavano i genitori. In quel momento non ci hai mica creduto e tutto questo? Certo che no!
Poi hai cominciato a studiare scienze, la materia, gli elementi, le piante, gli animali; poi ancora hai studiato storia, l’evoluzione della specie, come sopravvivevano, come allevavano, come coltivavano; allora hai cominciato a capire la ciclicità delle stagioni, della vita e della morte.
La morte!
Si un fiore rinasce, ma una nonna o un nonno potrai portarlo solo nel cuore e solo li lo vedi fiorire ogni volta che vuoi; se lo annaffi con i tuoi ricordi lo vedrai riapparire. Oh, io ci parlo ancora sai! Qualcuno non l’ho neanche conosciuto, ma ne ho sentito parlare. Di bunu e di malamenti, si perché non siamo tutti uguali, per fortuna, ma impariamo a prendere da ciascun uomo e cresciamo attraversando il bene e il male.
Il bene ci rende fieri e il male ci rende forti.
Come guerrieri, i guerrieri che “sparti” ha germogliato.
Secondo la mitologia greca, relativa alle origini di Tebe, dai denti del drago ucciso da Cadmo nacque prodigiosamente una schiera di temibili guerrieri che presero a combattersi e a uccidersi vicendevolmente. Di qui il nome di Sparti, letteralmente «Seminati». Al furibondo scontro sopravvissero solo cinque uomini (Echìone, Pelòreo, Ctònio, Iperènore e Idèo), che sarebbero divenuti i capostipiti del popolo tebano. (Sparti: Enc. Treccani. Federico Condello). Guardiani, Privuti, Suraci, Zuccaredda e Pezzangulu: quisti li Sparti di Acqualisparti.
Sappiamo bene l’influenza dei greci nel nostro territorio, in epoca assai lontana, e le parole che in dialetto sono rimaste, come a cuccuvaia, l’uccello della Dea Atene, o Calimera, il buongiorno attribuito alla montagna che probabilmente vede il primi raggio di sole al mattino. Ma anche da Calimera la gente fu costretta ad andarsene picchi si li abbriculiero grossi furmuculi e si ni ieri a Aita, a Turtura. Tortora nel dialetto arcaico veronese, quindi il latino volgare, vuol dire imbuto, magari percorrendo a piedi e mappando il terreno avevano già visto la forma che appare.
Per questo mi piace pensare, analizzare e dividere il dialetto il nome di quest’area geografica dai confini incerti: a qua li sparti.
L’analisi ha mille sfaccettature: da qua libertà (li) seminate (sparti), l’acqua li sparte (divide). E se così fosse, li divide da cosa? Il sacro dal profano. I vivi dai morti.
La Dea che a Timba i Marianu guarda il Sirino potrebbe essere il luogo sacro? E i resti di pietre disposte in modo circolare potrebbero essere probabili costruzioni a li Parati?
Allora probabilmente ad Acquali Sparti , u fussu i li Vaddi, divide proprio il popolo dei vivi dal modo mistico religioso.
Ora bisogna trovare le tombe!
Pietre e prete
Tutti hanno un posto, un luogo, che portano nel cuore, perché hanno trascorso proprio lì un’infanzia intera, insieme alle famiglie, o insieme ad amici. Diversi sono i motivi, ma negli anni ottanta lo si faceva prevalentemente per uno, a scampagnata, comunemente conosciuto come pic-nic.
La nostra infanzia, intendo per nostra la mia e quella dei miei coetanei, quiddi i cingu anni supa o sutta, fu un’era felice, rimane un’infanzia serena e segnata da una frase “ama i a mangià a Milazzo.” Ed era subito festa, perché ognuno prendeva da casa quello che aveva, se qualcosa mancava si faceva la lista e si dividevano le spese, non era difficile né chiederli due o tre mila lire ai genitori, tantomeno sottrarre qualcosa in più dal porta monete. Ma il punto non è tanto questo, quanto perché proprio quel luogo. Perché era comodo, spazioso, per un solo periodo fu un parco attrezzato da tavoli, ma vicino c’era una grande pietra, poi era comodo perché più sotto c’era l’acqua.
Dopo anni ho capito che quel posto, proprio per la presenza di acqua, risultava prezioso per tutti, per uomini preistorici, per donne riconosciute Dee, per briganti a seguire.
Quelli pericolosi però siamo noi, il popolo che rimane e aumenta rapidamente dall’Ottocento, perché incapaci di cogliere le bellezze lasciateci dagli antenati.
Chiediamoci come mai Garibaldi, in questo posto definito sperduto, già sapeva che da Laino poteva arrivare al mare passando dal Carro e scendendo a Tortora.
Forse qualcosa già esisteva, perché qualcuno lo aveva già creato. E prima che qualcun altro continui a distruggerlo fermiamoci, raccontiamo e raccontiamoci quello che sappiamo, chiediamoci perché le case vecchie e abbandonate, oggi ruderi, erano state costruite proprio lì, in quel punto, piuttosto che in altri luoghi, apparentemente oggi più comodi.
Queste curiosità che da sempre mi perseguitano, il desiderio di conoscere le mie origini, cosa facevano i nonni quando erano bambini come me, che forse non lo sono mai stata allora come ora, l’amore per la mia terra che ho dovuto lasciare, ma che non ho mai lasciato veramente, perché l’ho portata dentro e l’ho sentita fuori, ed o ho avuto sempre la sensazione di essere una pianta interrata in un vaso, con le radici sotto, una pianta che a periodi secca e a periodi germoglia, consapevole di un processo ciclico che la natura stessa ci insegna, con il cambiare delle stagioni e l’adattamento che l’uomo stesso deve essere in grado di fare.
Per oggi ci sono ancora, e voglio trasmettere il mio sapere, con errori connessi, a chi rimane, a chi il mio grembo stesso ha messo al mondo. Poi un giorno, tutta l’umanità è costretta a lasciare questa Terra, questa terra e queste pietre.
Noi andiamo via, ma Madre Terra no!
Impariamo, allora, a riconoscere i segni lasciati incisi, in codice, per riti e tradizioni, che realmente rimangono li, restano per sempre nello stesso punto, non perché li usiamo quando vogliamo, come un rito primaverile simile al falò, o il rito della rinascita identificato nel tagliare un albero e portarlo alla comunità.
Chi ci ha preceduto ha lasciato tracce indelebili, ha lasciato segni di croci, indicazioni di grotte, punti che richiamano le costellazioni, la direzione del sole, utili per riti propiziali ma anche per la sopravvivenza, per la coltivazione e i raccolti. Tutto ciò in luoghi in cui veramente il sole sembrava non arrivarci mai, come nella zona del Carro, dove sulla facciata della pietra esposte a sud è inciso il carro dell’Orsa Maggiore, da cui probabilmente prende il nome quel luogo.
Chiediamoci dove sono questi segni, questi codici scritti in modo strano e impensabile, quale era il foglio, e quale era la penna.
Intrecciamo probabilmente la fantasia e il desiderio di sapere, come la fusione tra storia e mitologia. Ed è proprio da questa combinazione che nasceva probabilmente il desiderio di incidere su pietre un fenomeno osservato e ripetuto ciclicamente.
Quindi vuol dire che il foglio era la pietra? Per fortuna si, perché l’acqua non ha cancellato l’incisione, ma ha solo scavato solchi e riempito coppelle.
Ad Acqualisparti, gli antichi, quelli ancor più vecchi dei nostri avi, forse quelli che hanno vissuto in un periodo storico denominato Neolitico, o Paleolitico, consideravano importanti le pietre, le quali acquisivano diversi significati, rappresentavano la ricchezza, la potenza, la possibilità di costruire, di nascondersi. Rientravano in una sorte di manifestazione divina tuttora presenti anche in questo territorio. Tante le pietre rimaste come libri che parlano di storia.
Proprio come un libro che non sfogli si riempie di polvere, così una pietra si copre di rovi!
Diverse sono le comunità che hanno riscoperto di avere un luogo sacro, una grotta, un altare di pietra, una pietra incisa o scavata, una pietra propiziale o che indica passaggi e sentieri. Questo territorio le ha conservate quasi tutte.
Non sono stati né i cittadini, né gli amministratori locali a conservare, ma la natura stessa.
Questo è il motivo per cui l’ho sempre amata e apprezzata, anche nelle scene apparentemente insignificanti, perché da queste emergono le mie curiosità, i miei “perché” fosse fatto in quel modo piuttosto che in un altro. Perché, e chiediamocelo il perché la Natura stessa alcune cose le crea, altre le distrugge, altre le trasforma e altre ancora le conserva.
Quattro aspetti, quattro caratteristiche che qualcuno direbbe che anche l’uomo fa lo stesso, ma a mio avviso l’ultima – la conservazione - , spesso non gli viene poi tanto tanto bene, o spesso non è proprio in grado di farlo, perché tende a trasformarlo e adattarlo alle proprie esigenze e modi di pensare. Un po’ come avvenne con il Cristianesimo quando trasformò solo alcuni dei luoghi pagani in luoghi dai riti religiosi.
Ma il tempo stesso e le testimonianze hanno dato la possibilità di generare racconti del mondo, risalendo e riscoprendo intrecci e collegamenti tra riti pagani e cerimonie religiose. Alcuni rituali, credenze, tradizioni sono ancora vive, o forse lo erano fino a qualche decennio fa, quando i bisnonni o nonni lo raccontavano, poi una generazione li ha congelati completamente. Ma il sole caldo che nasce e rinasce è la testimonianza di un nuovo giorno. Io il sole, li, lo conosco bene. Ed è per questo che ho capito.
Poi ho capito.
Il Sole era il mio gioco preferito da bambina, non avevo molti giocattoli, ma neanche ne desideravo tanti, non avevo possibilità di scelta e desiderio tra alcuni, non avevo nemmeno un cellulare da fissare a testa in giù come lo si ha oggi. Allora, come ancora oggi, mi piaceva camminare a testa alta, anche quando la luce del sole diventava accecante. Il sole mi piaceva osservarlo, guardarlo come si spostava, e in quel luogo io ricordo bene dove nasce e dove tramonta, in ogni periodo dell’anno. E ancora, la notte mi piaceva guardare le stelle, come erano messe insieme, poi ho capito che era l’Orsa Maggiore quando ero abbastanza grande. E quasi vicina al mezzo secolo ho capito quanto seguo a raccontarvi, perché la luce veramente bisogna coglierla e sfruttarla fino all’ultimo raggio che attraversa il più insignificante forellino.
Il passaggio della luce dal foro tra le rocce rappresentava proprio la rinascita.
Le pietre megalitiche, le statue, le pietre lavorate, o altre pietre simboliche sottolineavano proprio il culto di un sistema religioso o pagano. La cosa assurda e simultaneamente bella è proprio la conservazione e la similitudine che hanno questi megaliti, in quanto, nonostante chilometri di distanza risultano identiche per forma e rituali. Pietre poste in verticale, con passaggi stretti, per poter incanalare il raggio del sole, non i raggi, ma uno solo di un determinato momento, che sia a mezzogiorno, all’alba o al tramonto di una diversa stagione dell’anno.
Il sole che scende e si convoglia in un letto di pietra tra i cuscini di montagna, fino a che si addormenta al solstizio d’estate.
Ma le strette pareti erano ancora il passaggio per riti propiziali e di buon augurio alla fertilità, la stessa rassicurata anche su sedili o altari di pietra, simbolo di benedizione. Diciamo che dopo un po’ di anni andava bene anche se la benedizione non veniva dalle pietre, ma dall’uomo, che in quel caso era il sacerdote pagano del periodo che fingendosi tale benediva e fecondava. Anche in questo aspetto i soprannomi locali lasciano immaginare come probabilmente sono andate le cose. Guardiani, Privuti e Mula. Il dialetto rimane un patrimonio importante del nostro territorio, sia nell’identificazione di oggetti, di concetti e di persone, ma soprattutto nell’identificazione di luoghi: li Parati
li Gautuniddi, u Vavuzu i Sant’ Oro, Palapurtu, Carrara u Zinghiru, Fussu i li vaddi, Accannata i l’ursu, Li chiani, L’ilici, A grutta u Briganti, u Carru, Preta a mola, Timba i marianu.
Li descrivo e li elenco, non in ordine di importanza, perché bisogna ancora capirlo, ed io proprio non sono in grado, non ho i mezzi. L’unica mia fortuna è la connessione spirituale che mi sento di avere con gli antenati, li sogno, li sento, li vedo attraversare la mia mente mentre scrivo o parlo di questo luogo che ritengo fantastico, più che fantasmatico. Dee e maschere.
Pietre lavorate che indicavano personalità, briganti, uomini ricchi e potenti sessualmente, di cui “i guardiani” si vantano. Probabilmente anche questo lo si porta dietro dai tempi che furono.
E capiamo il perché!
Grafemi in lingua osca fanno ipotizzare la traccia della lettera P, che potrebbe essere l’iniziale della primavera o di Priapo il Dio della Mitologia Greca e Romana, noto per la lunghezza del suo organo genitale. Priapo è il simbolo dell’istinto sessuale, della forza maschile e della fecondità della Natura. Proprio la natura, li in quel punto, a timba i marianu, ad Acqualisparti, pare nascondere anche l’organo riproduttivo femminile.
Mi chiedo ancora, le incisioni poste sui megaliti che significato hanno, se in lingua osca o lettere greche; se anche da noi le fate slave danzavano sulla cima dei monti o se erano scesi anche a valle, a suggerirmi l’acrostico di un progetto sui quatto elementi (FuocoAriaTerraAcqua). Anche questo l’ho capito a distanza di anni dall’azione svolta ma sono sicura che alla guida c’è stata madre natura e chi l’ha vissuta prima di me questa terra, lasciandomi qui in eredità.
Per quale motivo, mi chiedo ancora, i primi insediamenti locali, del popolo ottocentesco che risale ai coniugi Cozzi Antonio e Bartilotti Caterina, originari di Trecchina e Lauria, sono avvenuti proprio in questo posto sperduto al modo, dove neanche i confini sono ben definiti, ne tra due regioni, ne tra due comuni, e ancora meno tra proprietari terrieri.
Picchi mangu li cunfini si trovunu. Prima, don Miminu u giomitra si futti sulu vinu e zupirsati.
Amuri amaru pi sta terra
Quasi quattu seculi di storia, difficili arricurdarli a i a diretu.
Tra nu cunfini e latu di na Calabria e na Basilicata.
Da Nord a Sud n’amu pirdutu
quiddu ca nu briganti avia truvatu,
A libirtà. La libertà!
Tra preti, luci e stelli, biniditti su li funtanedde
ca l’acqua cuntinia pi ficundari
si figli avì nun putì na fimminedda.
Da est a ovest lu soli girai, da Pret a Mola tuttu cuminciai.
Carru, Marianu e fussu i li vaddi,
da li parati virsu li gautuni, saglivi li gautuniddi.
Guardiani! Li figli mii su quiddi.
Forti, pasturi, fedele contadinu, fatiaturi e puru curaggiusi
Ca vanu ndippennu forchi e puru purtusi.
Se accussi nun fussi statu A zona nun averi mai crisciuta.
Da Santu Stefanu Aspromonti a genti pu sa canusciuta.
Lauria, Tricchina e Parrutta Surace, Cozzi e Bartilotti
Onore, oggi pi l’Acqualisparti.