Maria Grazia Del Puglia - Poesie

IL SOLDATO IN AFRICA

Bengasi, Giugno 1942

Il mare scuro, la città buia appariva abbandonata dopo che le sirene avevano ululato per avvertire degli attacchi aerei. Le nostre 6 mitragliere erano ben posizionate lungo il molo e attendevamo, io, il capitano, e gli uomini della batteria di cui ero responsabile, l’arrivo dei bombardieri inglesi. Noi dovevamo sparare, colpire più aerei possibile, abbatterli o farli dirottare, prima che ci crivellassero di bombe. Le mitragliere erano pronte, una parte dei soldati, con i muscoli in tensione guardava il cielo ed aspettava il mio ordine di sparare, gli altri erano pronti per fornire altre munizioni. L’attesa era sempre qualcosa di sospeso, il silenzio dominava su tutto, tutti speravano che terminasse e nello stesso tempo sembrava che non avesse mai fine.

Ed ecco, sullo sfondo buio del cielo materializzarsi delle luci lampeggianti e, come di ritorno, il rombo lontano dei motori. Fu un attimo: due Hawker Hart inglesi erano al centro della baia che formava il porto e si dirigevano in picchiata verso il molo. Era un attacco rapido, che non ci lasciava la possibilità di riflettere. Ero lì, in mezzo ai miei soldati, erano tutti bravi giovani strappati via dalle loro case, che credevano in me, che ormai ero diventato il loro padre protettore. Le nostre mitragliere non avevano una gettata molto lunga e quindi occorreva aspettare il momento opportuno, prima che gli aerei lanciassero le bombe e si rialzassero nel cielo. Con uno sguardo vidi che le posizioni erano perfette e detti l’ordine di sparo: tutti lo eseguirono. Una raffica assordante di colpi ci scosse e si allargò dal molo verso la baia attraversata da fasci di luce. Uno dei due aerei si illuminò come un sole improvviso, si piegò, vacillò nel cielo e scomparve come una meteora nel mare. Dalla base italiana due Fiat Centauro si erano alzati ed erano ancora alle nostre spalle. Fu eseguito il secondo ordine, ma le palle di fuoco ora si dispersero nel buio, l’altro bombardiere si era innalzato e non era più a tiro; lo vedemmo allontanarsi mentre i due caccia perlustravano la baia per poi ritornare alla base.

I miei uomini mi circondarono con occhi che brillavano nel buio aspettando un segno di approvazione: si, erano stati bravi, sorrisi e li incitai a tornare ai loro posti. Furono decisi dei turni di guardia, la notte non poteva passare senza un controllo continuo, i miei mi incitarono a riposarmi ed ad avere fiducia in loro. Quella notte non potei dormire: vidi la mia adorata Tina, come l’avevo vista partire, circa 9 mesi prima, alla stazione di Napoli; lei così delicata, sottile e nello stesso tempo così forte. Fui travolto dal ricordo della passione senza limiti che ci aveva unito in quei giorni in attesa del momento in cui ci si sarebbe dovuti dividere senza sapere se e quando ci si sarebbe potuti riabbracciare. Un nodo alla gola mi toglieva il respiro: non avevo notizie né di lei, né dei miei genitori, né dei 2 bambini che avevo lasciato e neppure di quel piccolo essere che doveva stare per nascere.

Ora stavo scrivendo alla luce fioca di una piccola lucerna: rinnovai la mia fedeltà, il mio amore per quella donna che forse, proprio in quel momento, stava dando alla luce una bambina (lei desiderava tanto una bambina) con gli occhi neri e profondi, da piccola scugnizza. Volevo che si chiamasse Giuliana come il molo in cui mi trovavo in quella notte di battaglia.


UNA NOTTE del 1944

Era una buia notte di Dicembre del 1944.

La Fattoria era posta in cima ad una bassa collina e costituiva un piccolo borgo con il piazzale centrale e gli altri edifici che lo delimitavano: una grande casa colonica, con la tipica loggia e torretta centrale, i vasti magazzini, la tabaccaia e l’oleificio. Nonostante fosse già notte profonda, vi erano ancora alcuni carri attaccati a giganteschi buoi bianchi in attesa dell’olio appena spremuto che, con il suo odore acre, impregnava tutta l’aria. Voci smorzate provenivano dalla porta chiusa dell’oleificio.

La Villa, circondata da un ampio giardino, era collegata al nucleo centrale della Fattoria da una strada delimitata da una siepe di bosso. Nella cucina della Villa, invasa da un buon odore di brodo, due donne stavano sedute tenendo sulle ginocchia due piccoli ( Aldo ed Angela ) che, stanchi, si erano abbandonati fra le loro braccia, in attesa della cena.

Un bussare rabbioso sulla porta fece sobbalzare tutti. Una delle donne si alzò stringendo al petto Angela. Si sentì un “ Aprite !” imperioso seguito da altri duri colpi sulla porta.

La donna aprì, pensando che fosse accaduto qualcosa all’oleificio. Si presentarono in tre, con il viso coperto da una maglia nera. Spalancarono la porta e due di loro sospinsero indietro la donna e la bambina con le fredde canne del loro fucile, mentre il terzo rimase sulla porta con la propria arma appoggiata alla spalla, una mano sul grilletto pronto ad agire.

Si udì il pianto sommesso di Aldo ed uno dei tre comandò: “Dov’è il padrone? Vogliamo il sor’ Ugenio”.

In quel momento entrò Tina, la mamma dei piccoli, minuta e fragile, quasi una ragazzina, che con tono deciso disse:

“Venite vi porto io dal padrone, seguitemi”.

Angela, fino a quel momento immobile e silenziosa, porse le sue piccole braccia alla mamma in cerca di protezione. Tina l’accolse fra le sue ed ora da una parte aveva una lucerna e dall’altra sosteneva la piccola che si era stretta forte al suo collo. Fece strada, sicura, lungo uno stretto corridoio, illuminato dalla lucerna che teneva, con la mano, davanti a sé.

Arrivò sulla porta ed “Eugenio” chiamò con voce sommessa. Lui alzò la testa e capì immediatamente.

“Cosa volete?” disse rivolto alle due figure incappucciate che tenevano, sempre, il fucile spianato contro di lui.

“Svelto, tira fuori i soldi di questa mattina !!!” “Non li ho. Qui, non ho niente.”

“Non fa’ scherzi. Sappiamo che ha’ riscosso una grossa partita di vino.”

“Non li ho qui. Lo giuro sulla testa di mia nuora e dei miei nipotini.” Ribatté Eugenio alzandosi.

Uno dei due appoggiò, sempre più minaccioso, il fucile sullo sterno di quella persona anziana, ma non certo debole, mentre l’altro si fece avanti e iniziò ad aprire i cassetti della scrivania ed a cercare fra i documenti, lettere, fatture che venivano fuori.

Eugenio rimase ben dritto davanti a quell’ energumeno e lo guardò fisso negli occhi che apparivano, cupi, dai buchi della calza nera. Aprì un cassetto che stava, nascosto, dietro gli altri e tirò fuori qualche biglietto da 100 Lire e altri spiccioli.

“E’ tutto quello che ho in casa.”

“Smettila, madonna m…..la. Avrai pure de’ gioielli, una cassetta di sicurezza. Portaci su in camera.”

Si formò una corta carovana che, uscita dallo studio, saliva la scalinata di pietra grigia che portava al piano superiore: per primi Angelo con accanto la moglie Grazia (che era da poco arrivata richiamata da quelle voci estranee alterate ), quindi i due malviventi sempre più agitati e rabbiosi ed infine Tina con in braccio la bambina che la stringeva fino a toglierle il fiato.

Le scale terminavano in un ampio ingresso sul quale si affacciavano varie porte. Eugenio, seguito dalla moglie, si incamminò verso la prima porta sulla destra ed anche i due vi entrarono. Il silenzio fu rotto da minacce urlate:

“Ora niente più scherzi, Dio me….a, se vo’ salvà’ la pelle:”

Nel frattempo Tina aveva indugiato nell’ingresso e all’improvviso le sembrò di trovare la salvezza, l’unica possibilità per farsi sentire e chiedere aiuto. Con il cuore che batteva all’impazzata, più silenziosamente che poteva, raggiunse la corda che si trovava di fianco alla porta opposta, dette uno strappo, poi un altro con tutta la forza che aveva ed ancora silenziosamente raggiunse gli altri.

I contadini che lavoravano nell’umido tepore dell’oleificio sentirono la campana e si allarmarono.

Grazia ed Eugenio erano appoggiati al letto matrimoniale con i due che ormai vomitavano più bestemmie che minacce. Grazia tremante giunse le mani, e:

“Vi prego, non vedete, siamo solo due persone anziane ed indifese. Nostro figlio è lontano e non si sa quando tornerà. Abbiate pietà perlomeno dei bambini.”

All’improvviso si sentirono sibilare tre colpi di mortaretto, giù in giardino e fu l’inferno.

Il rumore di due colpi di fucile invase tutta la villa come un boato, i vetri tremarono. Eugenio cadde, riverso sul letto, un fiotto di sangue imbrattò immediatamente i vestiti, le coperte; Grazia si accasciò su di lui, i due sciagurati si dettero alla fuga giù per le scale.

Tina, dalla balaustra, gettò la lanterna che aveva in mano contro di loro in un ultimo disperato tentativo di fermarli, urlando:

“Vigliacchi, vigliacchi” ed il buio avvolse tutto.

Altri colpi di fucile si sentirono provenienti dalla cucina e dal giardino e poi voci concitate, urla, pianti esasperati.

La piccola Angela, era rimasta, per tutto quel tempo, aggrappata alla madre con gli occhi sbarrati, ammutolita, ma il sangue che si allargava sul letto, lo schianto di quei due colpi ed infine il buio profondo che l’avvolse penetrarono nei meandri più profondi del suo cervello di bimba.


IL RITORNO DEL SOLDATO

Maggio 1945

All’alba mi svegliarono, salii su un camion, in mezzo ai soldati e partimmo. Le strade erano completamente rovinate, molti ponti saltati e quindi il viaggio fu pieno di fermate ed imprevisti. Non pensavo più a niente, guardavo il paesaggio intorno; si delineavano sempre più le linee delle colline dai lati della valle, in alto, le sagome dei paesi che spuntavano con le loro torri, le loro mura di mattoni, i campanili. Il cuore galoppava e sembrava che mi dicesse: a casa, a casa, a casa……… Arrivati a Chiusi scesi, salutai e ringraziai. In paese vi era il mercato settimanale: i carretti di legno con le mercanzie della campagna, utensili per la casa, per il lavoro, le massaie con il fazzoletto in testa, i vestiti di cotonina scura, gli uomini con i pantaloni di fustagno, la giacca e il berretto di feltro, anche se la temperatura era di primavera inoltrata, in un angolo della piazza vari carri di legno colorati attaccati a giganteschi bovi bianchi. Ancora l’odore degli animali, della mia gente mi investì; sentii le lacrime che mi bagnavano il viso. Mi sentii chiamare:

“Dottore, ma dottore, è lei?” Guardai “’Un mi riconosce? So’ Rizieri di’ Mencucci” “ Si, si, ti riconosco, sono appena arrivato. Sono stato sbarcato a Napoli”

“Ma i padroni lo sanno?

“No, non sanno niente. Come stanno?”

“ Ora per fortuna il Sor’ Ugenio sta abbastanza bene” “Dimmi, ti prego, cosa è successo”

“ Come, ‘un sa niente? E’ stata una vigliaccata, volevano rubà’ i soldi del vino che ‘l Padrone ha venduto. Ora è tutto a posto, lo giuro. Guardo se c’è qualcuno che lo po’ portà a casa. Arturo, Arturo,”chiamò “ Alò, vien qua, ‘a detto che volevi andà’ a casa, poi porta il Dottor’ Angelo alle Valcelle ? E’ tornato dalla guerra.”

Arturo si avvicinò e mi guardò con aria infastidita, lo conoscevo bene, era stato varie volte operaio su alla Fattoria, un accanito e convinto fascista, a quel che ricordavo.

“ Va bè, per oggi, ma anche lui deve sapè’ che co’ comunisti tutto sarà diverso, i padroni ‘ un saranno più i padroni”

“ Lascia fa’, ‘ un vedi com’è ridotto e lo sai ch’è una brava persona”

Montai sul sedile posteriore di una vecchia Guzzi, Arturo accese il motore, un fumo denso che mandava un odore nauseabondo di olio bruciato uscì dal tubo di scappamento. Le strade erano più dissestate che mai, ma l’ansia di vedere la mia casa mi attanagliava la gola in una morsa, brividi mi attraversavano le spalle, le gambe e le braccia scosse da un tremito incontrollato. Ci fermammo forzatamente varie volte, altre persone mi riconobbero e mi fecero coraggio. Passato Montepulciano e poi il paese di Torrita, arrivammo alla strada che portava alla Fattoria. La moto si fermò: ringraziai, detti quei pochi soldi che mi erano rimasti e ripartì.

Ero contento di fare quel ultimo tratto di strada a piedi, riprendere fiato, coscienza di me stesso. La strada si alzava diritta per un buon tratto fino a due cipressi che stavano, come guardiani, ai due lati, poi la strada curvava e mi mostrava solo la collina verde, gli olivi, i filari di viti. Arrivai ai cipressi e dopo la curva la strada andava, con una maggiore pendenza, diritta fino alla Fattoria. Lassù in cima vidi le sagome di varie persone che sembravano in attesa del mio arrivo. Alzarono le braccia festose, in segno di gioia e di saluto, anche io mi misi ad urlare, piangere, mentre correvo come un pazzo. Giù per la discesa vidi un ragazzino con i capelli castani che mi stava raggiungendo e, dietro, lei, che dava la mano ad un bambino paffutello ed ad una bambina con

due codini svolazzanti. Erano loro, la mia famiglia. Fu un momento magico, di amore e riconoscimento reciproco. Terminai la salita con i due piccoli in braccio, la tenerezza delle loro carezze e finalmente i miei genitori. Non ci furono parole, ma soltanto sguardi, abbracci, baci che ci univano come qualcosa di unico ed indissolubile. Presto si formò un gruppo di persone intorno a noi; i contadini, gli operai, le donne di casa, tutti che volevano esprimere la loro emozione ed affetto. Cercai di non perdere il controllo, chiamai Giangetta, il capoccia più anziano e più influente raccomandandomi di essere presenti il giorno successivo alle 10, allo studio, per parlare ed affrontare tutti i problemi da risolvere.

Poi in casa, con i miei cari: domande, risposte, racconti, si intrecciarono per sapere, per riempire un vuoto che ci aveva diviso per più di 5 anni.. Ed infine il momento della buona notte, i miei genitori commossi, i due piccoli, eccitati, continuavano a saltare sul letto ed il mio ometto mi guardava con occhi profondi, io e lei per mano. Quando è caduto il silenzio ero nel mio letto, con accanto la mia Tina, la sentivo, ma non avevo il coraggio di toccarla, di sentire il suo corpo vibrare sul mio. E’ stata una notte di amore puro, di progetti e promesse per una nuova vita che iniziava da quel momento.


L’ULTIMA SERVETTA

Vera camminava silenziosa sulla strada sterrata, fiancheggiata da cipressi, che si dirigeva verso la sommità della collina dove, a guardia e protezione della grande casa colonica, si ergeva una quercia centenaria. Era fine Maggio e, nel mezzo del giorno, il sole batteva, sulle spalle delle due viaggiatrici, in modo deciso. Annètte, la graziosa cugina di Vera, si tolse il golfino che aveva sulle spalle, mostrando le sue braccia candide e lisce che uscivano dal vestitino sbracciato e le propaggini del suo morbido petto. Vera la guardò abbagliata:

“Come se’ bella, io sarò sempre brutta e lentigginosa” disse sconsolata.

“No, no vedrai che sarai una bella citta anche te” rispose Annètte con tono scherzoso.

Erano arrivate davanti al grande piazzale e si fermarono all’ombra della quercia per riprendere fiato. La casa apparve enorme alla piccola: al piano terreno si trovavano le stalle, due rampe di scale portavano alla loggia centrale e sopra il colombaio si alzava verso il cielo. Annètte la prese per mano e si spostarono ai piedi della prima rampa, formata da scalini di pietra grigia e: “Assunta, Assunta…” chiamò a gran voce.

“Oh, siete voi !” sentirono rispondere dalla finestra e videro scendere una donnetta minuta con un grembiule azzurro sull’usuale vestito di cotone scuro.

“Oh come se’ bella Annètte, sei fatta una gran bella figliola! E questa è Vera? Ha’ 9 anni vero?

Se’ robusta pe’ la tu’ età”. Baciò le due venute e continuò: “Venite su!”

“No, no, grazie” disse Annètte “Lo sai che non posso perde il treno per Siena. Magari, se c’è qualcuno che mi po’ accompagnà.”

“Sì, sì, c’è Sante nell’aia, ti po’ accompagnà col motorino.”

“Ciao Vera, fa la brava, vedrai che sarà meglio qui, con Assunta, che su al monte. Ciao Assunta, sono sicura che sarai contenta di lei”.

Vera era rimasta silenziosa, si strinse ad Annètte con forza e disse piano: “Non andà’ via, rimani un po’…”. Ma Annette rispose decisa:

“ Lo sai che non posso perde’ il treno; la Signora mi aspetta e se fo tardi mi prendo una bella brontolata”. Si staccò dalla bambina e si diresse sul retro della casa a cercare Sante.

“E la tu’ roba bah è tutta lì?” disse Assunta prendendo la piccola valigia di cartone che Annette aveva appoggiato sul primo scalino. Vera fece cenno di sì e la seguì mentre saliva lentamente le scale; Assunta si girò e notò la folta capigliatura riccioluta, di un colore rosso ambrato, della piccola.

“ Che capelli ribelli che hai, ti metterai la pezzola, come me, per ‘un avelli sempre polverosi.

Alò, entra”.

Vera si trovò davanti ad una grande cucina, un angolo occupato dal focolare, al centro uno spesso tavolo di legno contornato da panche, l’acquaio di pietra grigia con sopra la piattaia, una capiente madia; si sentì tirare per un braccio:

“Vieni, ti fo vedè’ dove dormi e po’ mette’ le tu’ cose”.

Percorsero uno stretto corridoio sul quale si affacciavano varie porte. Assunta si fermò davanti all’ultima e l’aprì: era una stanza piccola e stretta dal soffitto basso con robusti travi di legno, un pagliericcio sostenuto da tavole, un armadio, alcuni scaffali.

“ Se’ fortunata. Prima qui stavano i mi’ cognati, ma so’ andati in città, dopo è stata la camera di Attilio e Bruno (so’ a scuola, po’ le conoscerai), dopo è morto il mi’ socero e vedi è rimasta libera per te. Ti piace?”

“Sì ,sì,, non ho mai avuto una stanza per me. E’ bella e c’ è anche la finestra”. Vera si affacciò e: “Quante cose si vedono…!”

“Eh sì, si vede tanto mondo di qui, là le colline di Sinalunga, poi la piana ed ancora le montagne laggiù. Ma ora sistemati e poi vien’ di là, c’è tanto da lavorà’.”

“ Ma io lavoro volentieri “

“Sì, ho capito che se’ proprio una brava cittina; ti porto un grembio per non sporcatti il vestito, poi cercherò de’ pezzi di stoffa e ci penserò io a vestitti, sai, so cuci’ ed ho desiderato tanto una cittina, invece di que’ du’ cittacci che mi ritrovo”

“Grazie” disse la bambina e fece l’atto di abbracciare Assunta, che però si era già girata verso la porta e stava uscendo. La donna si girò di nuovo, all’improvviso, la strinse per un attimo e se ne andò borbottando:

“Non bisogna essere troppo teneri, ma sono contenta che tu se’ qui, cittina”.

Vera aprì l’armadio, fu colta dall’odore di resina e lavanda, mise le sue poche cose in ordine ed infine prese, dal fondo della valigetta una cornice a fiorellini rosa, la pose sul primo scaffale e si assicurò che fosse in una buona posizione per vederla dal letto. Era la foto in bianco e nero di una giovane, i capelli mossi, grandi occhi sorridenti: la sua mamma ( era stata fatta per darla al suo babbo quando era stato richiamato, ma non era mai tornato). La voce di Assunta che la chiamava la scosse dai suoi pensieri: così aveva iniziato la sua vita con una nuova famiglia.

Gli anni erano passati molto velocemente e Vera era ormai una ragazzina di 14 anni, di corporatura robusta, non molto alta, ma ben sviluppata; aveva l’incarnato molto chiaro e lentigginoso che doveva proteggere dai raggi solari con leggere camicette dalle maniche lunghe e gonne increspate alla vita (preparate da Assunta). Il viso dai lineamenti marcati, gli occhi verdi ed una gran massa di riccioli rosso cangiante che scopriva solo quando andava alla Messa e al mercato del Venerdì con Assunta che faceva tutti gli acquisti per la casa, il pollaio, i maiali, gli utensili, le stoffe, tutte cose che incombevano alla massaia. Aveva imparato tutto con tranquillità e metodicamente, le piacevano molto le giornate dedicate ai grandi lavori: la preparazione del pane, i bucati, i grandi pranzi per la mietitura e la trebbiatura, la preparazione del maiale e così via. Sante faceva i lavori nei campi e nella stalla, dove aveva iniziato ad aiutarlo Bruno, mentre Attilio continuava ad andare a scuola a Siena. Le giornate passavano piene di lavoro, di attività scandite dall’andamento delle stagioni; non aveva più sofferto la fame e il freddo come gli ultimi tempi sul monte. Sante era burbero, ma stava attento a non farle fare i lavori duri nei campi, i due ragazzi la ignoravano, lei si sentiva molto legata ad Assunta con la quale, però non era riuscita a stabilire un rapporto di confidenza e di vero affetto: si considerava fortunata, ma capiva di non appartenere alla famiglia, di essere, comunque, la serva, anche se ben trattata. Il suo temperamento timido e taciturno l’aveva portata ad eseguire tutto quello che le veniva richiesto in silenzio o con le poche frasi strettamente necessarie per comunicare. Oramai era talmente abituata a questo che fare una chiacchierata più lunga o esprimere i suoi sentimenti le sarebbe costata molta fatica.

Sante, una mattina, la chiamò per andare a zappare le piante del tabacco. La primavera era esplosa prepotente, le piantine crescevano bene, ma rischiavano di rimanere soffocate dalle erbacce. Vera acconsentì contenta: sarebbe stata una giornata faticosa, con una breve sosta solo

nell’ora del mezzogiorno, sotto l’ombra di un olmo, dove avrebbero mangiato fette di pane e salame, preparate da Assunta con acqua, tenuta al fresco in una borraccia, ed anche un sorso di un buon vino rosso. Fra loro vi sarebbe stato silenzio, solo pochi gesti di intesa sul lavoro da fare, riempito da migliaia di suoni che emergevano dalla terra al cielo: il frusciare delle foglie, il tac- tac del picchio, lo sbattere delle ali di un fagiano che si alzava in volo, il canto melodioso degli uccelli. La giornata passò velocemente, erano circa le sei e Sante decise che era l’ora di andare a casa. Vera chiese di rimanere ancora un po’ per terminare il campo, l’aria era fresca, si stava bene. Sante rispose di non fare tardi, riunì gli arnesi da lavoro e si incamminò sul sentiero che si snodava sulla collina fino, in alto, alla casa colonica. Vera continuò a zappare, contenta di terminare il lavoro. Si sentiva la gola secca, posò la zappa, saltò il fossetto e il greppo che delimitavano il campo e andò verso l’olmo dove era rimasta, all’ombra, la borraccia. Il sentiero divideva i campi della propria famiglia da quelli della famiglia che viveva nell’altra metà della casa colonica. Li conosceva tutti, ma li salutava appena, come aveva sempre visto fare a Sante ed Assunta (sapeva che fra i due capoccia non correva buon sangue). Aveva sentito, poco prima, arrivare Olinto con il carro trainato dai buoi (aveva riconosciuto la sua voce urlare bestemmie e comandi ai due bestioni) per raccogliere i barcaioli, preparati dalle donne durante la giornata. Lui era un ragazzo sui 22 anni e si occupava della stalla, amava le sue bestie, alle quali dedicava tutto il suo lavoro e la sua attenzione. Mentre stava per chinarsi per prendere la borraccia, si sentì bloccata alle spalle da due mani ossute e forti. Istintivamente le venne di gridare aiuto, ma quelle mani ora le tappavano la bocca ed Olinto le diceva all’orecchio:

“Sta’ bona, come se’ bella, bella. Non ti fo niente.”

Vera sentì un sudore freddo che le bloccava tutte le membra con la sensazione di essere diventata di ghiaccio. Le mancava il respiro e non poteva muoversi, Olinto le tolse il fazzoletto, le aprì il vestito abbottonato sul davanti. Ora la baciava e l‘accarezzava in modo convulso sul collo e sul petto. Cercò di divincolarsi, ma si accorse che lui era molto forte ed agile e riusciva a bloccare qualsiasi suo tentativo. Era inginocchiato davanti a lei, le accarezzava le gambe, chinò la testa, tirò su il vestito e lei avvertì qualcosa di umido e caldo che si insinuava fra le cosce. Veri e propri brividi la scuotevano e le toglievano le forze. L’aveva trascinata nel fossetto pieno di erba fresca e profumata, era sopra di lei, aveva aperto il laccio dei ruvidi pantaloni che portava, la forzava ad aprire le gambe ed il suo membro entrò dentro di lei con forza. Si lasciò andare completamente, si sentì lacerare dentro, ferita mentre lui ansimava. Rimase fermo ancora per un pò, sopra di lei. Si alzò, la sollevò, le sistemò i vestiti come fosse una bambola.

“ Non lo di’ a nessuno. Io so’ qui tutte le sere a quest’ora. Ha’ capito”.

Salì sul carro e se ne andò. Rimase seduta sul greppo con le gambe nel fossetto; un liquido denso e caldo le stava calando dalle cosce lungo le gambe. Si alzò, cercò di pulirsi con l’erba fresca, si legò il fazzoletto stretto in testa, prese le sue cose e si avviò verso casa: si sentiva stordita, un vuoto dentro fatto di solitudine profonda le toglieva l’ultima gioia che le era rimasta: la pace che le donava il contatto con la natura.

Nei tre mesi successivi Vera aveva continuato la sua vita, cercando solo di dimenticare e di evitare Olinto.

Si sentiva seguita, guardata quando andavano alla Messa o lo vedeva apparire sul carro alla sera quando era a lavorare con Sante nei campi. Non aveva più avuto il mestruo, la mattina erano subentrate delle nausee, ma durante il giorno si sentiva forte ed affamata, le gonne di Assunta le stavano leggermente strette sulla vita. Una sera Assunta, mentre erano sugli scalini a prendere un po’ di fresco, si mise accanto a Vera e le disse piano:

“Vera, t’ è successo qualcosa. Dì, chi è stato?”

Vera si piegò in avanti, si prese il viso fra le mani e rimase così, immobile, come se non volesse sapere o sentire niente. Assunta la scosse sulle spalle e chiese ancora:

“Chi è stato?” “Olinto”

Disse Vera fra i singhiozzi che cercava di trattenere. “ Lui, lo sa?”

“No, non l’ho voluto più vedé’”. Assunta sospirò:

“ Devo parlà’ co’ la Mena, ma se siamo tutti d’accordo chiamo la Giancarla, lei sa’ come fa’!”

La mattina dopo Assunta, vestita di tutto punto, come se fosse dovuta andare alla Messa, si mise ai piedi delle scale dei Rossi e chiamò:

“Mena, Mena….”, che si affacciò subito e: “Viè’ su Assunta”.

Assunta riscese le scale poco dopo, pensierosa, chiamò Vera e le disse:

“Olinto ti vole sposà’ e anche la Mena è d’accordo. Ma te lo vò sposà’ o no! Se no, chiamo la Giancarla e ‘un se ne parla più”.

Vera rimase ancora lì, muta, rendendosi conto che ancora una volta avrebbe dovuto lasciare la casa, le persone, le abitudini ed adattarsi ad una nuova vita, ma che non aveva scelte, che non poteva fare altro.

“Si, lo sposo” disse con un filo di voce.

Tutto fu sistemato velocemente, Assunta preparò un po’ di corredo (biancheria e qualche vestito per la gravidanza), fu avvisato l’Arciprete che stabilì la data del matrimonio; Assunta chiese se le avesse fatto piacere invitare qualche parente, Vera disse di no; semmai Annétte, ma non sapeva neppure dove fosse.

La sera prima del matrimonio Olinto arrivò per la cena. Vera lo guardava di profilo, ogni tanto: era scuro di pelle, poco più alto di lei, le braccia con i muscoli a fior di pelle, il naso aquilino, gli occhi infossati, i capelli neri e irti sulla testa; solo le labbra avevano un segno di morbidezza.

Non provava disgusto, ma sentì brividi di freddo che le attraversavano il corpo, con la consapevolezza che il suo destino era ormai compiuto. Terminata la cena, si sentì prendere la mano da quella dura, di ferro di lui. Assunta disse:

“Portalo in camera, domani lo sposi”. Tutto fu come si aspettava.


INCONTRO CON L”ARNO

Primavera 1947

Tetta e la piccola Angela stavano viaggiando da varie ore sul treno dal momento che erano partite da Sinalunga, avevano raggiunto Siena e cambiato treno per raggiungere Empoli dove, senz’altro, avrebbero incontrato lo zio Nicola. Nonostante la stanchezza la bambina continuava a stare vicino al finestrino per non perdere niente di quello che riusciva a carpire dei paesaggi che scorrevano davanti ai suoi occhi. Era primavera e il colore che dominava era il verde in tutte le tonalità, chiazzato da macchie gialle o rosse. Lo scorrere del panorama si fermava solo alle stazioni e Teresa guardava le persone che salivano o scendevano dal treno facendo spiritosi commenti come:

“Mamma guarda come è grassa quella signora e quante valige vuole portare! Guarda, quello secco che sembra uno spaventapasseri, mi fa proprio ridere.”

Mamma Tetta sorrideva nel vedere la sua piccola, che aveva tanto desiderato, così avida di vedere e di conoscere.

Finalmente arrivarono a Empoli, scesero rapide con le loro valige, la bambina ansiosa si guardò intorno e vide lo zio Nicola, nel suo elegante completo grigio, che si stava avvicinando; con un vocione da orco, ma il viso illuminato da un sorriso da buono:

“Ecco le mie bimbe, finalmente!” e rivolto a Angela:

“ Come sei cresciuta, anche i codini sono cresciuti tanto da quando ti ho visto a Settembre. Andiamo, Mina ci sta aspettando ed ha preparato, con Angiolina, un pranzetto da leccarsi i baffi. Non vogliamo mica rovinarlo”.

A dire la verità Angela aveva una fame da lupi, ma c’era ancora da arrivare a Castelfranco di Sotto, dove gli zii vivevano e li avrebbe portati là Nicola con la sua Topolino tirata a lucido. Salirono in macchina e Teresa, poco a poco, fra uno scossone e l’altro dovuto alle buche sulla strada, si appisolò, ma fu presto scossa dalla voce di mamma Tetta che diceva:

“Angela, bambina mia, non addormentarti, vedi abbiamo attraversato l’Arno e stiamo arrivando a casa degli zii”.

Angela aprì gli occhi, ma non fece in tempo a vedere il fiume che ormai avevano attraversato, le rimase solo l’immagine, che volava via, di una lunga striscia, rilucente sotto i raggi del sole, che si allungava a perdita d’occhio fra due alte sponde.

La macchina, superato il centro del paese, si fermò davanti ad una villetta contornata da un giardino traboccante di fiori dai tanti colori. Tutti scesero, riunirono le valige mentre zio Nicola suonava il campanello: il cancello si aprì cigolando, si misero in cammino sul vialetto che conduceva al centro della villetta dove, con una breve scalinata, si raggiungeva la loggia; là videro Mina, snella come un fuscello delicato, che chiamava i suoi cari. Nicola pensò alle valige e alle giacche delle ospiti, mentre le due sorelle si abbracciavano commosse; poi fu Teresa a stringere la delicata zia, che tante storie le aveva letto o raccontato quando lei e lo zio erano venuti, durante l’estate, a far loro visita. Fu l’abbaiare del barboncino Fuffi, che volle, anche lui, attenzione e carezze a interrompere quel quadretto.

Entrarono tutti nell’ingresso, per passare poi nella sala da pranzo, attirati dal buon odore che usciva dalla zuppiera posta al centro della tavola tonda, apparecchiata con fini piatti di ceramica dal bordo rosa antico e bicchieri di cristallo scintillante. A questo punto entrò l’ultimo personaggio di quei giorni, per Angela, da fiaba: la domestica Angiolina con i capelli grigi, raccolti in strette trecce intorno alla testa, il viso burbero, il corpo pesante coperto da un ruvido grembiulone che:

“Via! Lavatevi le mani e a tavola!!” ordinò.

Le chiacchiere di tutti i presenti, la stanchezza per il lungo viaggio, l’emozione per le tante novità, fecero si che la piccola Angela, senza accorgersene si addormentasse veramente. Si

svegliò all’improvviso, chiamata da mamma Tetta, e ci volle un bel po’ per rendersi conto di dove si trovasse.

“Vieni, svegliati, hai dormito un bel po’. Ma ora devi venire, noi siamo tutti pronti per andare a fare una passeggiata sull’argine dell’Arno. Mi ricordo quando, io ancora bambina, zia Mina mi portava con sé, lei sempre con la cassetta dei pastelli, a raccogliere giunchiglie o a pitturare”.

Tutti furono presto pronti per la passeggiata, lo zio Nicola, addirittura, con il bastone e Fuffi con il guinzaglio e partirono dal dietro del giardino incamminandosi su un sentiero che conduceva all’argine del fiume. Teresa era abituata a camminare in campagna, fra verdi campi coltivati che la circondavano, ma la sorpresa fu quando si trovò vicino all’argine (così alti non li aveva mai visti), ma ancora di più quando, con Fuffi che le scodinzolava intorno, raggiunse la sommità; davanti a lei il corso del fiume, contornato da alte sponde verdeggianti si allungava e sembrava congiungersi con il cielo in un punto lontano. All’improvviso si mise a correre con Fuffi dietro, per raggiungere quel punto. A nulla valsero i richiami della zia e mamma Tetta, ci volle l’intervento di zio Nicola che, correndo anche lui, riuscì a fermarla:

“Ma dove corri?” disse.

“ Laggiù, nel cielo” rispose la bambina. Lo zio la prese in braccio e le disse:

“Bambina mia, un giorno andremo laggiù con la macchina e vedrai l’Arno che diventa ancora più grande, grandissimo quando si congiunge con il mare, infinito fino all’orizzonte”


A MONTEPULCIANO CON I NONNI

Avevo 4 anni e mezzo e quell’inverno è stato il primo dei tanti nei quali sono vissuta con i miei nonni ed i miei fratelli in città (prima Montepulciano e dopo Siena), mentre i miei genitori vivevano in una Fattoria nella campagna senese. All’inizio dell’anno scolastico ci trasferimmo, infatti, a Montepulciano, in un appartamento che si trovava al quarto piano. Di quell’inverno ricordo in particolare tre cose: il freddo (la mattina non avevamo acqua perché la tubature erano congelate), la stretta e buia scala che portava all’appartamento e, unica consolazione, lo stretto ed insostituibile rapporto che avevo con il mio fratello Aldo, di soli 21 mesi maggiore di me. Per quanto riguarda i miei nonni e il mio fratello maggiore posso dire che:

    • nonno Eugenio era veramente eccezionale; sempre pronto a consolarci ed a riscaldarci fra le coperte fra le quali era sempre avvolto. Le sue condizioni di salute erano, a quel tempo, molto delicate dato che aveva una ferita al torace, riportata in una aggressione avvenuta 2 anni prima, non ancora risarcita dato che in Italia non vi erano ancora gli antibiotici;

    • Nonna Grazia era invece una Signora molto autoritaria, decisa ed efficiente. Per me non è stata, certo, una nonna tanto amata data la sua particolare predilezione per i nipoti di sesso maschile e la sua capacità di farmi sentire una piccola Cenerentola;

    • Mio fratello Alberto aveva ben 9 anni più di me per cui non si perdeva dietro a noi piccoli; da quello che ricordo, erano ben poche le situazioni fra noi condivise.

Ho già detto delle scale, incubo per me, Angela, e mio fratello Aldo sia a salirle che a scenderle: orribili mostri si annidavano dietro ogni angolo, ragnatele gigantesche tessevano le loro reti per prenderci e portarci via. Ci davamo la mano, tenendola più stretta possibile e correvamo sempre, sia in salita che in discesa, trattenendo il respiro per riprenderlo solo alla fine. La nonna ci chiamava, ci implorava di fare più piano, ma senza successo. A tutto questo si aggiungeva il fatto che il gabinetto, un pertugio con una tazza maleodorante e, per fortuna, una catenella per l’acqua, si trovava sul pianerottolo, a mezze scale.

Per questo era per me, sempre, una bella prova di coraggio scendere quelle scale, anche se accompagnata dalla nonna o da Alberto, aprire quella porta, tirare giù gonnellina e mutande, mettere il mio sederino congelato su quella tazza e liberarmi di tutto quello che avevo trattenuto per quanto potevo; per mio fratello Aldo, poi, questo era veramente insopportabile e gli incuteva il terrore più tremendo. Arrivava alla sera con una pancia gonfia da non dire, ma continuava a sostenere che non aveva bisogno di scendere; perciò sistematicamente, tutte le sere, prima di andare a letto, mio fratello Alberto lo prendeva, lo sculacciava ben bene e lo trascinava urlante per le maledette scale. Aldo tornava in casa che era un vero straccio, pallido, tremante e con singulti di pianto, che né il nonno con le sue carezze, né io che facevo la buffona per farlo ridere, riuscivamo a frenare.

Tutto questo suscitava in me dolore per un fratello che adoravo, ma provavo anche un pizzico di orgoglio per essere la più coraggiosa. Non ricordo come, ma è certo che riuscii a convincere Aldo che potevamo avere le nostre pipì e popò nello stesso momento e quindi scendere insieme (sempre con la supervisione della nonna e di Albero) ed io… avrei sopportato la puzza dentro lo sgabuzzino con lui pur di non sentirlo piangere tutte le sere.

Fu la salvezza e da quel momento, per miracolo, le nostre necessità ebbero un sincronismo perfetto ed io mi sentivo felice ed orgogliosa tutte le volte che partivamo insieme per quella grande impresa.


UNA CANZONE DA NON DIMENTICARE

1 marzo 1958, Festival di San Remo

La televisione, a quel tempo, era per tutti molto importante; ci apriva gli occhi sul mondo e, nello stesso tempo, era motivo per ritrovarsi non solo in famiglia, ma, anche, con amici e vicini di casa, specialmente per i grandi eventi, fra cui il Festival di San Remo era il momento centrale.

Io ero un’adolescente fra i quindici ed i sedici anni, vivevo a Siena con due fratelli più grandi di me ed i nonni. Non era pensabile perdere una serata del famoso Festival e dato che la mia casa, oltre trovarsi in centro (vicino alla Piazza del Campo) era un appartamento dotato di un ampio soggiorno con un buon televisore, si riempiva sempre di molte persone. Quella, poi, era la seratas finale e non poteva mancare la simpatica famiglia Marzi (genitori con figlia della mia età), il bonario Giancarlo, amico del cuore di mio fratello maggiore, la mia amica del cuore Anna, insieme ad altri vicini di cui non ricordo il nome, oltre ai nonni, fratelli e Renata, la nostra rossa, e spensierata domestica.

Quella sera eravamo tutti eccitati, c’era nell’aria qualcosa di speciale e tra una canzone e l’altra volavano barzellette seguite da contagiose risate, il tutto accompagnato da un ottimo Vin Santo e biscotti di nonna Grazia.

Arrivammo al momento del verdetto finale, in silenzio ascoltammo Gianni Agus e dopo le sue parole ci alzammo tutti applaudendo: la canzone “Nel blu dipinto di blu” cantata da Domenico Modugno e Jonny Dorelli era la vincitrice, mentre “L’edera” cantata da Nilla Pizzi e Tonina Torelli era arrivata seconda.

Io e le mie amiche Anna e Paola ci abbracciammo e tutti, con voci più o meno alte, cantammo insieme a Domenico Modugno le parole di quella canzone che ci aveva incantato tu. Fu richiesto un ultimo brindisi e nonna Grazia ordinò a Renata di prendere un’altra bottiglia di quel ottimo Vin Santo; Renata volò e tornò presto con quanto richiesto, insieme a bicchierini scintillanti e biscotti.

La gara quel anno era stata particolarmente avvincente, dato che si trattava dello scontro tra il nuovo e la tradizione. Ed il nuovo, vincitore nei confronti della tradizionalissima canzone melodica cantata da Nilla Pizzi, fu quella canzone che conquistò il cuore delle persone, non solo in Italia, ma in tutto il mondo.

In casa, quella sera, solo nonna Grazia e la Signora Marzi si erano provate a criticare le parole, la mancanza di melodia, il modo di cantare aggressivo ed urlato, in particolare di Modugno, ma erano state presto messe a tacere per cui facemmo le ore piccole in grande allegria.

Io, con gli altri giovani della compagnia sentimmo la forza di quelle parole, come un moto che sale dal tuo intimo, un grido alla libertà che sentivamo crescere dentro di noi. Uscivamo da una guerra dura, che aveva condizionato pesantemente la vita delle nostre famiglie, ma ora era veramente finita e noi potevamo essere liberi, raggiungere le vette più ambite, costruire un mondo nuovo.

Rimango così con la nostalgia nel cuore.


ALLUVIONE A PISA

Pisa, 4 novembre 1966

Ero arrivata a Pisa, ancora giovane studente, solo da due anni e, quel mattino del quattro novembre, ero cosciente di essere veramente felice; fra le braccia stringevo Elena, la mia bambina di quasi un anno.

Nel piccolo appartamento al quarto piano, nella zona di Via di Pratale, tutto era stato predisposto per lei, che ne era l’indiscussa principessina.

Era giorno festivo e la piccola aveva approfittato di questo per tenere babbo Piero a giocare con lei, mentre io mi dedicavo alle inevitabili faccende domestiche.

Solo in tarda mattinata, accendendo la radio, sentii le terribili notizie sull’alluvione in atto a Firenze. Rimasi immobile, incredula, con il cuore impazzito; chiamai Piero, ed insieme ascoltammo il notiziario, mentre la piccola si aggrappava al padre. Prendemmo Elena e la tenemmo stretta fra noi: dovevamo pensare a lei e tenerla al sicuro.

Dopo un pranzo veloce decidemmo di uscire con la macchina: Piero doveva passare dall’Istittuto per prendere alcuni documenti e la bambina si sarebbe distratta un po’.

Mio marito, una volta posteggiata la nostra Prinz in Via S. Maria, davanti al suo Istituto, uscì dalla macchina ed io rimasi accanto alla bambina in attesa del suo ritorno, quando, improvvisamente, fui assalita da un pensiero che mi lasciò senza respiro:

“Dove era mio fratello Aldo? Era stato a cena da noi la sera precedente, ma poteva essere partito la mattina presto per andare a Firenze da Laura, la sua ragazza”. Come avevo potuto non pensarci prima?

Appena vidi Piero uscii dalla macchina e gli chiesi:

“Ti prego, devo andare in Via Paoli e sapere se Aldo è rimasto a Pisa. Vi raggiungo in Piazza Dante.”

Mi misi a correre, raggiunsi il portone della casa dove abitava Aldo e sonai ripetutamente. Mi rispose la Signora, proprietaria dell’appartamento, che mi disse di salire le scale. Arrivai ansimante sul pianerottolo dove lei mi aspettava e mi riferì quello che sapeva: sì, Aldo era partito, la mattina presto, con la sua vecchia 500. Erano venuti altri amici a cercarlo, ma nessuno aveva sue notizie.

Ripresi la corsa verso Piazza Dante e, appena la raggiunsi, vidi i miei cari seduti sulle scale della Banca: bastò uno sguardo e Piero capì. Decidemmo di portare la piccola nel nostro rifugio dove avremmo potuto aspettare, al sicuro, la prevista ondata di piena dell’Arno.

Una volta a casa, Elena sembrò intuire che qualcosa teneva in allarme i genitori e, quindi, non doveva fare capricci: giocò tranquilla sul tappeto fino all’ora di cena. Dopo mangiato andò nel suo lettino, scelse i libriccini di Walt Disney preferiti da farmi leggere e si addormentò presto.

Quella notte io e mio marito rimanemmo svegli in attesa degli eventi; ogni tanto andavamo a controllare il sonno sereno del nostro tesoro e ci amammo, abbandonati anima e corpo uno nell’altro, mentre profonda tenerezza e pesante angoscia si alternavano dentro di me.

In prima mattinata, fummo sicuri che il pericolo, per la nostra famigliola, era stato superato, mentre di Aldo, ancora, non era stato possibile sapere dove si trovasse.

Siamo rimasti in casa, uscendo il minimo indispensabile, ascoltando la radio e aspettando notizie di mio fratello, che sono arrivate dopo ben tre giorni di attesa: si trovava a Brozzi, in casa di lontani parenti, dove si era miracolosamente fermato la mattina del terribile 4 novembre 1966, prima di raggiungere Firenze.


LA ‘VIE EN ROSE” DI MIA MADRE

Pisa, Agosto 1995

Tengo le mani di mia madre, (Antonietta, Tetta come tutti l’hanno sempre chiamata) strette fra le mie; è molto anziana (91 anni), non soffre di particolari malattie, ma ha rinunciato a vivere. E’ caduta e si è rotta il femore alla fine di luglio, è stata operata e tutto è andato bene. E’ metà agosto, la città svuotata, ed io completamente dedicata a lei con la irrealizzabile speranza di farla reagire. Il suo stato di salute è perfetto, ma ha soltanto deciso di andarsene, di lasciarmi, di non combattere più, nonostante io le parli del matrimonio di Elisa, nipote adorata, che la vuole accanto in quel giorno così importante. Da quando è tornata dall’ospedale ha rifiutato il cibo, è ormai completamente allettata ed i suoi bellissimi occhi azzurri perdono la loro luce giorno dopo giorno.

Ad un tratto sento la sua voce:

“Portami a casa, sta per arrivare Angelo, devo aspettarlo a casa”. “Mamma, questa è la tua casa, lo sai, Angelo non c’è più”.

“No, deve arrivare, lo stiamo aspettando, devo andare a casa mia”. “Quale casa, mamma, alla fattoria? Alle Valcelle?”

“No, no, alla mia casa, a casa Silvi, a S.Frediano, Quella grande, con il giardino dietro, il grande portone, la scalinata che sale al secondo piano. Deve arrivare, è venuto a prendermi, fra poco ci sarà il matr… ”. Non termina la frase, chiude gli occhi e si assopisce in un sonno agitato.

Ho capito che nel suo vaneggiare è tornata al momento in cui doveva avere inizio la sua “vie en rose” con il giovane di cui si sentiva innamorata. Tetta era nata i primi del ‘900 e cresciuta in una ricca famiglia della borghesia del pisano (proprietari di una fabbrica tessile e di altre proprietà terriere). Penultima di undici figli era stata poco seguita dal padre (impegnato nelle sue attività) e dalla madre (debole, stanca per le tante gravidanze, chiusa nel suo mondo fatto di piccole cose), ma coccolata dalle sorelle più grandi in quella ricca casa e mai stimolata ad impegnarsi in qualcosa di serio come, per esempio, la scuola. Come in un gioco aveva imparato quello che più le piaceva e così era diventata una discreta pittrice, cantava con grazia ed era una ballerina apprezzata in tutte le feste tenute da parenti ed amici. Gli ultimi anni, prima di incontrare il suo uomo li aveva trascorsi dalla sorella Beppina, ormai da tempo sposata con un ricco commerciante e senza figli, a Firenze.

Così i suoi inverni erano volati tra salotti raffinati di quella stupenda città, le prime al teatro, l’atelier di pittori e di moda. Durante il periodo estivo la grande famiglia si riuniva in una Villa al Lido di Camaiore e Tetta veramente amava la vita di mare, il sole, le grandi nuotate, i balli la sera. Era, come ho detto, una grande ballerina e primeggiava alle feste del Principe di Piemonte con il suo bellissimo, biondissimo fratello Aldo. Aveva ormai superato i 25 anni e le mancava solo l’amore che era arrivato con quel giovane tenente, timido, molto diverso dalle compagnie leggere e spensierate che la contornavano, ma così gentile e così perdutamente innamorato di lei. Era quello che stava aspettando ed anche la sua famiglia era stata consenziente: i signori Del Puglia, che frequentavano anche loro il Lido per il mese di vacanze da diversi anni, erano conosciuti come benestanti, seri, molto rispettati. Rimaneva un’unica perplessità: Tetta si sarebbe dovuta trasferire in campagna, lontana da tutti le persone che fino ad allora le erano state vicine, ma la coppia era così perfetta che non le fu dato molto peso.

Tetta aveva preso piena coscienza fin dai primi tempi di matrimonio che avrebbe dovuto affrontare un tipo di vita completamente diverso da quello vissuto durante la sua giovinezza in casa Silvi. La bella Villa era in mezzo alla campagna senese, con accanto solo le famiglie dei contadini; per andare in paese occorreva affrontare una lunga camminata nel sentiero o aspettare che qualcuno l’accompagnasse in macchina (Angelo o il fattore) ed inoltre Grazia, sua suocera, si

dimostrava sempre gentile e premurosa, anche fin troppo protettiva, ma era la padrona assoluta di quel mondo. Le rimaneva il suo grande amore ed a quello si chiudeva sempre di più accettando e sopportando tutto.

Arrivò il primo vero dolore con la morte di parto del suo piccolo, ma poco dopo vi era stata la nascita del Alberto a consolare tutti, anche Grazia che voleva un nipote maschio. Con il passare degli anni aveva ritrovato la sua serenità accanto al suo adorato marito ed al suo bambino, dedicandosi alla sistemazione del giardino, dei fiori e delle belle ed esotiche piante nei salotti, del frutteto ed anche al ricamo, accettando la sua posizione di completa sottomissione alla volontà della suocera. Da quando era entrata in quella casa non aveva più pitturato, né, tanto meno ballato, mentre il suo canto aveva continuato a echeggiare da una stanza all’altra della Villa.

Dopo sette anni era nato Aldo, il suo secondo bambino, di cui si era immediatamente impossessata la nonna Grazia, con la giustificazione che la nuora era troppo debole e delicata di salute, da questo momento gli eventi si sono succeduti in una sequenza senza respiro:

  • la partenza di Angelo per la guerra in Albania, con il grado di capitano,

  • il suo successivo ritorno, dopo circa un anno, a Napoli in attesa di nuova destinazione ed è a Napoli che sono stata concepita;

  • la guerra in Africa fino alla disfatta e la prigionia di Angeloin America;

  • la rapina in Villa, il ferimento del nonno e l’uccisione di due giovani contadini;

E’, comunque, in questa sequenza tragica che Tetta riesce a trovare la forza per reagire, il coraggio che nessuno avrebbe potuto pensare che avesse, in attesa del suo amato Angelo. La sua discesa in una latente depressione doveva ancora venire. Questa è arrivata quando, ancora una volta, ha accettato ciò che Grazia aveva deciso, convincendo tutti che quella era la migliore scelta da fare: il trasferimento in città di lei, Grazia, con i tre nipoti ed il nonno Eugenio. Sono stati questi, senz’altro, gli anni più sofferti per Tetta nei quali la lenta percezione di non seguire i figli nella crescita e, in qualche modo, di perderli non poteva essere compensata dalla vicinanza, le attenzioni, l’amore del suo uomo. Si è lasciata andare, imprigionata in quel mondo non suo, senza cercare una sua dimensione, aspettando di fare quello che le veniva ordinato da Grazia per portarlo in città in quelle visite che tanto desiderava, ma che si riducevano in poche affrettate ore. Ha trovato ancora il sorriso, la gioia di cantare, di raccontare favole, di giocare quando sono arrivati i nipoti che la trovavano una nonna adorabile e che riempivano di vita la Villa durante i periodi estivi.

Oramai ultrasettantenni Angelo ha deciso di offrire a Tetta il dono più grande che poteva: lasciare quella campagna e venire a vivere in città vicino ad uno dei figli. Sono venuti a Pisa dove vivevo io con la mia famiglia da quando mi ero sposata. Per Tetta è stato l’ultimo, inaspettato squarcio di “vie en rose”: sempre insieme al marito, coccolata come una bambina, non perdendo niente di ciò che poteva soddisfarla (film, spettacoli teatrali, gite, mare, i tramonti a Marina ecc.). Li ho davanti ai miei occhi, una coppia che non poteva passare inosservata; a braccetto, teneri, gentili, con un sorriso per tutti sulle labbra. Tutto è terminato, dopo sei anni, con la morte improvvisa di mio padre per un incidente di auto.

Ha aperto gli occhi, sono un mare profondo, mi guarda, è pienamente cosciente, la chiamo, le stringo le mani ancora più forte:

“Mamma”

“Si, bambina mia sei tu, perdonami, non sono stata la mamma che avrei voluto”. Appoggio la testa sulle sue mani e piango.

Ha, di nuovo preso sonno, ora è un sonno più calmo ed io so che la mia speranza che ritrovi la forza di combattere è vana, lo ha fatto fino ad oggi, forse per me, per i suoi nipoti, ma ora ha preso la sua decisione.


RAPPORTO CON IL PAESE NATIO

E’ molto difficile riassumere in poche righe il rapporto con la terra dove sono nata, ma certo è formato da un’ingarbugliata mistura di attaccamento ed amore insieme a rifiuto e dolore. Sono nata in un piccolo paese in provincia di Siena, anzi in una Fattoria tra due paesi, Torrita e Sinalunga e vi posso assicurare che quelle valli, limitate da dolci crinali di colline, sono una parte di me.

Nei miei ricordi di bambina quella vita in mezzo alla natura è stata il simbolo della libertà, il raggiungimento della felicità assoluta. Al mio rientro in città, dove passavo il periodo scolastico con i miei nonni, mi sentivo superiore a tutte le mie amiche, cosciente di avere avuto esperienze, avventure che nessuna di loro poteva neppure immaginare.

Le cose sono cambiate nel tempo, ho sentito di amare ancora quei posti, ma di avere la necessità di distaccarmene per non rimanere in un ambiente chiuso e limitato.

Da quando mi sono trasferita a Pisa nel 1964 quei luoghi sono diventati qualcosa di distaccato, lontano dai miei pensieri: avevo una vita nuova nella quale dovevo riuscire come donna libera nelle scelte di vita: moglie, madre prima e poi studentessa e insegnante.

Si trattava di un posto, comunque, che non avrei mai potuto sostituire, dove tornare era sempre scendere nelle radici del mio essere e, madre delle mie due bambine vi ho, infatti, trascorso lunghi periodi durante le vacanze estive.

Dalla fine degli anni ’50 in poi ho visto quelle colline, quelle valli trasformarsi, perdere l’aspetto di tanti bei giardini affiancati e ben curati e diventare lunghi campi nelle valli e grandi vigne o oliveti nelle colline; le grandi case coloniche abbandonate degradarsi rapidamente. Ma quello che più mi colpiva era il fatto che non erano solo le coltivazioni che erano cambiate, ma era un tipo di società, con le sue regole, i suoi rapporti e la sua cultura, che era scomparso. Quelle grandi case, pulsanti di vita per centinaia di anni, e ora vuote, inutili, presto solo dei ruderi, erano l’emblema di tutto questo. Erano case dove vigevano regole e rapporti rigidi, ma dove si erano anche formate generazioni di famiglie con un forte senso di appartenenza e di unità, accompagnate da orgoglio e rispetto.

Vedevo, anche, mio padre intristirsi e perdere, nel tempo, la sua voglia di combattere per arrivare ad avere, di nuovo, una fattoria rinnovata ed efficiente.

Le mie figlie, comunque, hanno imparato ad amare quel posto più di quanto pensassi ed in particolare per Elisa è diventato, nel tempo, il suo sogno di vita. Mi sono accorta di quanto fosse importante per lei, ma anche per Elena (l’altra mia figlia), non perderlo quando mio padre, ormai stanco, ha deciso di trasferirsi a Pisa con mia madre. Erano ormai gli anni ’80 ed io mi sono avvicinata ad un padre fino ad allora sconosciuto; mi sono messa al suo fianco e l’ho incoraggiato a non mollare. All’improvviso è scomparso su quella strada percorsa migliaia di volte, che lo portava a casa. Ho sentito che non lo avrei potuto tradire, né lui, né le mie figlie; sono seguiti lunghi anni di emozioni, responsabilità, scoraggiamento e orgoglio, altre perdite dolorose (mia madre, i miei fratelli) e decisioni coraggiose (Elisa che si è trasferita lì con l’uomo della sua vita).

Ed ora sono ormai più di venti anni che Elisa vive là ed ha formato la sua famiglia; Alice, Chiara e Tommaso sono orgogliosi delle loro origini torritesi e, crescendo, hanno mantenuto la capacità di emozionarsi.

Nel frattempo la sorella Elena non è stata da meno nel prendere decisioni di grande responsabilità; infatti vive a Bologna con il marito Carlo e due ragazzi gemelli, Megersa e Tesfaye, di origine etiope, adottati da vari anni.

E’ bello ed intenso ritrovarsi tutti (nonni, figlie, generi e nipoti) fra quelle vecchie mura, affacciarmi alla finestra e guardare quella valle.


La mia valle

Sono alla finestra: guardo la mia valle. Una sinfonia di verdi scende fino al ruscello, per poi risalire,

nell’ondeggiare delle colline, fino a toccare il cielo

di un azzurro teso.

E’ lì da sempre uguale e diverso,

specchio del mio sentire.