Maria Saggese - Poesie

D’istanti

Ti cerco nell’immenso, sottile, orizzonte
che divide il cielo dal cielo.
E ti cerco lontano
nelle cose che non mi appartengono.

Ti cerco nel lento scivolare del giorno
in tramonti amaranto.
E ti cerco vicino
nelle cose che non mi circondano.

Del buio non ho paura
ma tremo nell’oscurità.
Se non abiti i miei sogni
la notte è tremendamente infinita.

Ogni istante senza di te
è sempre più lungo del tempo
trascorso insieme.


 

Ali di farfalla

Nell’alveare
planano
scomposte
ali di farfalle.

L’amore
gela in appanno
il tepore di un alito.
Brividi caldi.

Sospiri e respiri
affannati e profondi,
sussurrano lievi senza battiti.

Nella prigione inquieta
di un’ anima spoglia,
un bacio respinto
straccia le ali.

Spiccando in volo,
tra i cocci e i frammenti,
tra schegge e brandelli
sparse e disciolti,

una farfalla
muore!


 

Ballerina

Nei leziosi rivoli di danza
un cigno bianco
slaccia le sue ali
a inchini
nei grandi teatri alla scala.
Tu, ballerina di fila,
avvolta nel tuo tutù,
danzi la magia, la favola.

Baiadera nel vento dei ventagli
come foglia i tuoi pensieri,
passeggeri tremuli e distratti,
ancheggi nei foulard e risuoni di nacchere
nei ritmi di rubri flamenchi
e furenti sirtaki.

Dalle logge dorate
nella sala vermiglia,
graffiata dalle luci del palco,
si tuffano a fiotti abbondanti
gli sguardi attoniti e i lunghi plausi.

E tu, prima ballerina,
libellula di tulle,
ora è tempo di fermarti.
Un ultimo giro di tango,
l’ultima piroetta,
ancora un arabesque
prima che l’orchestra finisca di suonare
e avere ancora voglia di danzare.


 

L’olmo solitario

Sulla terra dura si posò
con sommessa leggiadria.
A tratti le faceva ombra un povero olmo
dai rami avvizziti, eroso e senza vigore.
Quella misera sagoma triste
non la riparava dai dardi del sole.
Ella non se ne curò.
Quando, con delicata freschezza,
si alzò sulle ginocchia, raccolse un fiore,
poi un altro e un altro ancora,
fin quando la sua mano non ne fu così ricolma.

Percepiva l’abbraccio caldo del giorno
e sul suo sguardo pulito
si consumava il bianco pallore.
Avvertiva sulla carnicina pelle
la febbre settembrina del sole.
Trottole di vento passeggere
annunciavano pioggia.
Ella non si dava pensiero.
Quando una nuvola coprì quelle braccia d’oro,
la seguì subito un’altra e un’altra ancora,
fin quando il cielo non si oscurò del tutto.

Sulla terra molle si gettò
con una grazia scomposta,
affannata e stanca.
A tratti le faceva riparo quell’olmo
che possedeva una forza spaventosa,
che prese a cantare con fischi acuti.
Ella non ebbe timore.
Quando, con mani gentili,
sistemò il terriccio umettato
e vi adagiò i fiori di già sciupati.
Senza indugiare socchiudeva gli occhi,
poi, con grandissimo sforzo, li apriva e di nuovo li chiuse,
fin quando non si addormentò.

Aveva smesso di piovere.
Traspariva l’arcobaleno.
Ella restava raggomitolata
ai piedi di quell’olmo placato
che con voce spossata ogni tanto sibilava una nenia.
Non appariva più una gigantesca figura spaventosa
né misera, né triste.
Quel padre spoglio si chinava a cullare la sua creatura.

Le nuvole si dileguavano poco a poco
prima una, poi un’altra,
fin quando il cielo non si liberò di tutte.


 

Il ciclope dì

Si è assopito il ciclope dì
che indugia le tenebre
sulla città dormiente.

Serrato l’occhio ingerente
veste d’ombra i giganti di cemento,
eclissa titani montuosi.

Spoglia di sole l’asfalto consunto
le garrule piazze,
caroselli di infanzia e di giochi gaudenti.

Si allagano i vicoli interdetti
di notturni raminghi,
barbini stupratori di sogni.

Meretrici piegate al pube
desiderio di audaci mendicanti
battono i muri della lussuria.

Or che il ciclope dì
aperto l’occhio veggente
oblia il lubrico atto,

si congeda la notte
dai teatri corrotti dal vizio.