Maria Saggese - Racconti

Dall’inedito romanzo: Autobiografia non autobiografica.
A Elio,
il mio altro inseparabile.

Da “Io sono Tes”

Mi chiamo Mariateresa Sapienza. Per mia nonna sono Merilì, per tutti gli altri, Marì. Io preferisco Tes. Nessuno mi chiama Tes.
A sei anni ero una bambina timida, solitaria e introversa. Sono stata quella bambina per molto tempo, costruendo un’altra me stessa che non riconosco.
Ho imparato a convivere con le false apparenze, tirate su come l’effetto collaterale di un’inibizione che non riuscivo a controllare.
Così fino a tredici anni ero la ragazzina che sedeva sempre al primo banco, che parlava poco e preferiva la solitudine alla compagnia.
In realtà, ero molto espansiva e socievole.
Lo sapeva Vik.
Vik era la mia compagna di banco al primo anno delle elementari. La mia migliore amica, quella più pazza di me, che odiava portare i capelli sciolti e la gonna e divideva il suo gelato con qualunque cane. Era la persona alla quale confidavo i miei pensieri, che non erano segreti, li chiamavamo così per il gusto di sentirci speciali e condividere qualcosa che fosse solo nostra.
Inseparabili fino a dormire insieme, mentre i nostri genitori si conoscevano appena.
Fu lei che m’insegnò a leggere l’orologio, lei che mi regalava le bambole, che mi parlava dei ragazzi e che ha provato a fumare la prima sigaretta. Era difficile separarsene forse per la nostalgia poi di quelle giornate nelle quali ridevamo fino a piangere. La nostra, una felicità contagiosa.
[…] Quando ho lasciato venir fuori la parte estrosa ed estroversa di me, quella bambina schiva e impacciata che parlava con i peluche, si è nascosta, mentre Vik andava via.
[…] Oggi sono acqua di mare in uno stagno. Straripo di sentimenti ed emozioni incessanti. Ogni particella di me scivola sul mio volto e nelle mani anche quando cerco di contenerle. Ogni mia parvenza è lo specchio di un frammento riflesso che fugge dal mio corpo. Così la maschera che ho indossato per lungo tempo, si scioglie.
Per chi non mi conosce, sono la persona che non sono.
Io, sono Tes.


Da “La stanza azzurra”

Ada, una bella signora dai lunghi capelli scuri, avvolti in un grande tupè, ci invitò a seguirla in segreteria. Un piccolo soppalco arredato a salottino con le pareti coperte di foto, certificati e diplomi affacciava direttamente nella piccola sala. Una stanza azzurra che si rifletteva negli specchi assieme alle lunghe sbarre di legno verniciato che la delimitavano lungo il suo perimetro. Tutto sapeva di danza, anche l’aria, il gesso bianco che esalava dal parquet consumato, il profumo del tulle e il raso nuovo delle scarpette. Sulle pareti mancava l’orologio. Dappertutto, invece, si poteva osservare qualche immagine di vecchi spettacoli, ricordi che ancora non mi appartenevano.
Era una finestra sul mondo che mi faceva sentire di essere ancora una volta nel posto sbagliato. Ed eccola, di nuovo quella sensazione di terrore alla bocca dello stomaco, una voce interiore che mi intimava di ritornare da dove ero venuta.
Procedemmo con l’iscrizione e andammo via.
Il giorno seguente, ero là, con quel senso di angoscia e di inadeguatezza che non mi aveva abbandonata. Entrare o non entrare? “ entra!” Ordinò a me stessa la vocina che sentivo nella testa senza proferir parola, con un tono che sembrava serio. La stessa signora del giorno prima mi disse di stare tranquilla, di seguire, come potevo, gli esercizi alla sbarra e di non preoccupami se non ci fossi riuscita.
Le mie compagne avevano una postura insolita, che cercai di imitare, i piedi in fuori, uniti solo ai talloni, la mano sinistra leggermente si posava sulla sbarra, l’altro braccio era fuori, verso la sala, la mano lasciava le dita volare nell’aria.
Cerca di stare dritta – diceva Ada.
Fissavo i miei piedi che cercavo di controllare con lo sguardo.
Mento in su, tieni le spalle in basso, stringi i glutei, respira e sorridi –
Ispirai profondamente, non per l’esercizio. Il mio respiro e ogni altro in quella stanza somigliò al fruscio del mare. Fu come tuffarsi e non risalire mai più.
Stavo per conoscere e apprendere l’arte della danza classica e di lì a poco sarebbe diventato lo sport della mia vita.


 

Da “L’odore di papà”

Mio padre Filippo, dipendente delle Ferrovie dello Stato, per lavoro, parte per Milano il giorno che sono nata. Per diciotto lunghi anni un treno se lo portava via, e un treno me lo riportava a casa. Con mia sorella, ogni venerdì sera lo aspettavamo, non mai riuscivamo a vederlo, il sonno ci vinceva sempre. Da bambine la domenica, ci svegliava l’odore del caffè che papà preparava e delle brioche calde nel fornetto. Così mentre lui era in cucina, io e Suellì ci tuffavamo nel lettone con mamma, aspettando che tornasse. Ci nascondevamo tra le onde delle lenzuola per sorprenderlo, una cosa che crescendo divenne difficile fare. Mi piaceva stare nel mezzo, con papà facevo sempre un gioco divertente che ci faceva ridere tanto. Gli prendevo le labbra con le dita e tenendole unite, le muovevo su e giù chiedendogli di parlare, farfugliava parole strane, suscitando la nostra ilarità. La felicità di essere tutti assieme mi dava l’impressione di assistere a quella scena dall’esterno, come oggi mi vedo. Ero nella stanza ed ero anche sulla soglia della porta a vedermi giocare con mio padre, a osservare mia madre e mia sorella ridere. C’era comunque in quella scena qualcosa di profondamente triste, una cosa che mi rendeva consapevole che quella domenica sarebbe volata via troppo in fretta. Quando infine, provava a scappare via, gli dicevo “solo un’altra volta papà”, allora lui restava ancora un po’, durava per ore questo nostro risveglio domenicale.
Ad ogni suo ritorno, portava sempre dei regalini, giocattoli, automobiline da collezione della Ferrari, bambole o i biglietti del “gratta e vinci”. La fortuna non ci baciava mai. Alcuni dei regali erano pupazzetti dimenticati sul treno da altri passeggeri.
Ogni tanto gli chiedevo di portarmi i sassi bianchi della massicciata delle linee ferroviarie e quando le mie richieste si fecero assurde, le pietre diventavano un pezzo di binario, una ruota di locomotiva, due poltrone di prima classe e altri pezzi. Non potendomi accontentare, li sostituiva con berretti da ferroviere e le chiavi che aprono i finestrini, i fischietti e le palette dei capistazione. Non ci giocavo, mi piaceva avere quelle cose, conservarle come oggetti di collezione che mi facevano sentire speciale.
Di più mi piaceva l’odore che papà portava con sé. Ancora oggi che non viaggia, gli sento addosso quel profumo, un ricordo olfattivo, l’odore del vintage della valigia, sempre la stessa, della stoffa dello scompartimento, della moquette blue, l’odore delle poltrone, della polvere ferrosa sollevata dal treno quando si ferma ad ogni stazione.
Non mi è mai dispiaciuto il suo lavoro, anzi, lo dicevo con orgoglio: “mio padre fa il ferroviere”.


 

Da “La matita della felicità”

Non bisogna attenderla la felicità. Aspettava che la trovassi io. Attendeva nel parco, dove avevo appuntamento con Nina. Volevo raccontarle tutto. Ero in anticipo.
Mi ero seduta sulla panchina. Osservavo la vita intorno, quella degli altri. Girava come una giostra del luna park, la mia sembrava ferma. Erano le cinque. Guardai nelle lontananze per vedere se Nina fosse in arrivo. In quel momento mi accorsi di un uomo, cercai con lo sguardo il cucciolo che poteva averlo accompagnato. Avrei inventato volentieri una storia su di lui, ma qualcosa mi faceva pensare di averlo già visto. Voltandosi nella mia direzione, il viso non mi ricordò nessuno. Ancora una volta controllavo l’ora sul cellulare, in effetti, Nina non era mai stata così in ritardo. Gli si avvicinò un pastore tedesco, il suo, insieme mi passarono davanti. Il giubbetto blu mi ricordò di averlo allora visto in treno e un flash back mi riportò l’immagine della donna dal rossetto rosso, del giallo della sua borsetta, mi venne in mente anche di Ivan. Smorzai il ricordo.
Un gregge di nuvole imbiancò il cielo. Un tuono già scaricava pioggia altrove. Lasciai la panchina, presi a camminare sui suoi passi, lo avrei fermato con una scusa ma Nina frattanto era arrivata e stava raggiungendomi. Gli passai accanto, quasi a sfiorarlo di proposito. Tirai su un bel respiro, una manciata d’aria che mi entrò dentro con prepotenza. Il suo odore fu inconfondibile, risvegliò in me la selvaggia voglia di qualcosa di proibito. Sarei soffocata pur di trattenere quel suo profumo.
– Nina. – Dissi andandole incontro e mi voltai ancora una volta per essere certa
di memorizzare il suo viso. Intanto lui si era fermato. Qualcuno salutandolo pronunciò il suo nome. Per un attimo il suo sguardo attraversò il mio, i suoi occhi s’incrociarono con i miei, pupille nere come la notte e nella notte nere come il mare. Rallentai ogni mia azione, tanto bello e nuovo fu quello sguardo, il suono della sua voce. Perdermi in quel buio profondo e ritrovarmi nella luce dell’immenso, ed era blu, ho udito il suo nome e non era solo rumore.
Cominciava a piovere, lacrime grosse e fredde tamburellavano sull’ombrello che Nina già aveva aperto.
Scendendo dal treno e vedendomi, chissà, se ora si fosse ricordato di me come io mi ricordavo di lui.
Che cosa guardi? – Mi chiese Nina, mentre lui e il cane salivano in auto.
Superandoci scomparvero nel traffico. Li guardai andare via, girare l’angolo della strada a sinistra, mentre fissavo nella mia memoria il colore, il modello e la targa della sua auto.
Un angelo. – Risposi.


 

Voglio stare bene

Lui: Che c’è, cosa vuoi?
Lei: Adesso?
Sì!
Da te?
Da me.
Lei: Voglio per me i tuoi occhi, per le mie mani i tuoi capelli, per la mia lingua la tua bocca, voglio le tue dita, prenderti le mani, farle danzare leggere sul mio corpo.
Perché?
(Dopo un attimo di riflessione) Ho bisogno del tuo essere, vicino a me, per intero, la sera, la notte, voglio che spazi via con la tua luce il mio buio.
Lui: Vuoi fare l’amore?
Lei: L’amore… (ripetuto sottovoce, a cercare di visualizzare, quasi, il significato espresso della parola Amore) Ma che cosa è per te l’amore?
Una ricetta, gli ingredienti sono gli stessi per tutti, c’è chi eccede poi in qualche spezia. L’amore non si può fare, solo dire.
Lei: Credi questo quando scopiamo? (dice quasi con rabbia)
Il sesso è una ricerca del piacere, come quando si risponde alla sete col bere e si mangia quando si ha fame.
E quando mi guardi l’anima? E la nostra carne è calda, il tuo orgasmo si concentra in un sputo di vita fuori di me, che cosa pensi?
Stiamo insieme ogni sera, non ti basta?
Cosa? L’amore?
No! Il mio corpo. Lo vedi, lo tocchi, lo senti. Stringi nei miei palmi i tuoi seni, ti fa impazzire il soffio leggero sul collo, inarchi la schiena, il mio alito si stende sui tuoi pendii, rabbrividisci.
Lo sento come un morso. Non mi basti mai. Sono tua, nel letto, nel respiro, nell’odore. Tu, dove sei?
Dove vuoi che stia?
Lei: Non lo so. Dentro di me.
Lui: Come?
Non solo con la carne, come il mio doppio, come un’immagine sovrapposta, come energia che mi permette di muovermi.
Gli altri la chiamano anima. E’ veramente questo che vuoi?
Forse. Ci riusciresti?
Lui: Per te farei tutto, lo sai. Posso provarci.
Chi ama è un egoista. In parte lo siamo tutti. Diciamo “ti amo”, a volte, troppo in fretta solo per stare bene. (Lei spegne la luce, si spoglia.) Che cosa fai?
Voglio stare bene.
Lui: Ti basta solo il mio corpo?
Per adesso si. Voglio la tua persona, i tuoi sensi, i tuoi pensieri.
Quali?
Tutti.
Vuoi la mia vita?
La tua morte!